IG Nobel 2016: da una visione lineare a una complessa

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    C’è una parte della ricerca internazionale che, armata di tanta ironia, porta avanti studi dissacranti e rigorosi, su tematiche al confine con il surreale. Si tratta di quegli studi che vengono premiati dagli IG Nobel, un premio che nel tempo ha iniziato a godere di tanta considerazione nel mondo accademico.

    Il premio IG Nobel 2016 per l’Economia è andato ad una ricerca che studia l’applicazione della Aaker’s Brand Personality Scale nel marketing. Lo studio ha messo in correlazione specifiche Brand Personality con i soggetti coinvolti nell’esperimento sulla base delle caratteristiche (simpatia, antipatia, etc.) che questi attribuivano a dei sassi.

    Sembrerà stupido, ma questi ricercatori hanno condotto un lavoro minuzioso per arrivare a dei risultati scientificamente rilevanti e confrontabili.

    Certo, un sorriso emerge, ma dietro quel sorriso si svela uno dei principali limiti dell’intero sistema di ricerca moderno.

    Una delle più grandi rivoluzioni nel campo scientifico degli ultimi (ma non troppo) anni, non ha a che fare con il singolo “topic”, ma con un sostanziale cambio di approccio che, tuttavia, pur essendo auspicato da più parti, non ancora si è realizzato. Dalla psicologia all’urbanistica, dall’economia all’informatica, tutte le discipline stanno iniziando a maturare la profonda consapevolezza della non linearità del mondo.

    Sembra un po’ ovvio, vero?

    Eppure tanto ovvio non è, a giudicare dal fatto che la maggior parte degli studi si basa su delle premesse di linearità, rappresentate nella maggior parte da modelli statistici grazie ai quali è possibile, stando a determinate condizioni, giungere a specifici risultati. Ma preso un universo statistico abbastanza ampio è possibile, entro certi intervalli di confidenza, riuscire a trovare delle connessioni dove in realtà non c’è una linearità di causa-effetto, mentre altre connessioni possono semplicemente sfuggire.

    Detto in altri termini: con la statistica è possibile evidenziare una relazione tra ciò che avete mangiato oggi e quello che farete domani, o tra un anno o tra dieci. Assurdo? Non più dell’attribuzione di un profilo di brand personality attraverso l’interpretazione di un sasso. Eppure è proprio così che funzionano la maggior parte degli studi scientifici oggi (con più o meno raffinatezza).

    Quello che viene misurato, in studi come quello dell’IG Nobel, è una condizione che può essere dettata da una quantità innumerevole di variabili: dall’ambiente (condizioni di luce, presentazione del sasso) allo stato soggettivo (cosa ha fatto il soggetto immediatamente prima di entrare a fare l’esperimento, in che condizioni si trova rispetto alla sua esistenza o anche semplicemente se deve andare in bagno).

    Tutto ciò si potrebbe tradurre in una domanda tipo: quel soggetto che ha partecipato all’esperimento, esprimerebbe in un altro momento delle valutazioni identiche a quanto registrato? Ma sarebbe anche un errore, perché a quel punto ci si potrebbe chiedere se quali siano le motivazioni di queste medesime valutazioni: prima fra tutte l’ipotesi che il soggetto abbia riconosciuto il sasso e voglia fornire risultati coerenti con quelli espressi in precedenza perché crede sia giusto così.

    A fronte di tutte queste domande, ad oggi, possiamo rispondere soltanto ad una: come il soggetto ha interpretato il sasso.

    Come dire: preso un campione di 100 persone, chiediamo ad ognuno di loro quante mostre, o quanti libri, o quante partite di calcio hanno visto nell’anno in corso, e poi differenziamo per età. E così, come per magia, avremo tante cifre da poter esibire alla comunità.

    Ma mentre stiamo lì a contare l’ovvio, ci sono domande più importanti a cui non sappiamo dare risposta: perché un soggetto non legge libri? Perché chi ha visitato una mostra soltanto non ne ha visitate altre? Perché ha scelto quella particolare mostra e non un’altra? Perché ci è andato con il partner? O perché era in vacanza? Perché gli hanno dato dei biglietti omaggio?

    Dietro queste semplicissime domande, in realtà, si cela il passaggio da una visione lineare del mondo a una visione complessa: big data, reti neurali artificiali, studi interdisciplinari sono attivi per permettere di creare un profilo di connessione un po’ più forte (e di buon senso).

    Ma a noi basta vedere che gli italiani vanno di più al museo, che il consumo culturale è correlato con un maggior livello di benessere (umano ed economico), così come ci basta pensare ad un Italia che non legge, sentendoci orgogliosamente migliori della media.

    E così non si va da nessuna parte.

    Note