Quando scriveva il suo film Persona, Ingmar Bergman metteva in scena una dualità irriducibile, uno sdoppiamento della persona su sé stessa. Elisabeth Vogler è un’attrice di teatro che, “inseguendo il sogno disperato di essere senza sembrare di essere”, decide improvvisamente di smettere di recitare durante una rappresentazione di cui è la protagonista e, in seguito, di smettere completamente di parlare.
“Poiché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”, l’unico modo di esistere senza maschere è quello di smettere di enunciare. Del resto, l’enunciazione è la proprietà dei linguaggi di allestire delle posizioni di soggetto che stabiliscono i ruoli per chi, fuori dai linguaggi, le viene di volta in volta a occupare.
Da oggi in libreria Persona di Claudio Paolucci
Tuttavia, poiché “la vita si insinua sempre dentro da tutti i lati”, a Elisabeth viene assegnata un’infermiera, Alma, con cui si instaura una relazione di amore e odio e che, alla fine del film, si scoprirà poi essere nient’altro che una parte di Elisabeth, la sua “anima” appunto1 Leone (2013) mostrava come le religioni abbiano giocato un ruolo di primo piano nel nutrire il concetto contemporaneo di soggettività umana proprio attraverso l’idea di anima: “Che la nostra soggettività si esprima attraverso i segni del linguaggio, che essi siano capaci di volare attraverso lo spazio etereo che separa i corpi, e che in qualche modo tali segni vi si librino, vivi, anche dopo la morte del corpo, sono caratteristiche fondamentali del moderno immaginario della soggettività, nuove proposizioni di un antico sogno” (Leone, 2013, pp. 96-97). Del resto, già Mauss (1938, p. 23) notava come “è stato il cristianesimo a dotare la nozione di persona di una base metafisica solida”..
Alma ha il compito di prendersi cura di Elisabeth, di indagare su di lei, di accudirla, di custodire i suoi segreti, esattamente come una parte di noi si prende cura di noi stessi, impedendoci di agire impulsivamente, rovinare la nostra immagine pubblica e sporcare le maschere che offriamo al mondo. Per questo, in una delle straordinarie scene finali, Elisabeth e Alma si scoprono essere l’una la parte oscura dell’altra: un duale in cui Alma recita in soggettiva il ruolo di Elisabeth prendendone il posto, il nome e il ruolo. Ma in questa dualità costitutiva, in cui il soggetto passa attraverso la mediazione delle maschere, delle parole e dei ruoli che i linguaggi allestiscono non c’è nulla di sbagliato o di problematico: si tratta semplicemente della nostra condizione, dell’identità stessa della nostra soggettività, che passa attraverso molte mediazioni semiotiche.
Per questo Persona era il modo di Bergman di pensare al soggetto attraverso la maschera, alla persona attraverso il personaggio, all’individuo attraverso il linguaggio, mostrando come ciò che chiamiamo “soggetto” consista esattamente in questa compresenza irriducibile di due istanze in cui “non ha più nessuna importanza dire io” (Deleuze e Guattari, 1980, p. 34).
Persona vuole infatti dire al contempo maschera, volto, personaggio, persona linguistica e soggetto. Questo libro vuole mostrare in che modo queste diverse accezioni sono connesse tra loro.
II Voci
La prima stagione di Westworld è un grande trattato sulla mancata importanza del dire “io” e su ciò che ci fa davvero agire, provare sentimenti o pensare, al di là dell’abitudine di attribuire a noi stessi queste stesse azioni, sentimenti e pensieri.
In Westworld, i robot residenti di un parco di divertimenti vivono una vita del tutto non edenica programmata dal loro dio, Robert Ford (Anthony Hopkins), che li ha costruiti a sua immagine e somiglianza. Ogni loro parola, emozione o gesto non è altro che l’esecuzione impersonale di una sceneggiatura programmata, che essi recitano in prima persona.
Tuttavia, in seguito all’introduzione da parte di Ford di un codice capace di renderli in grado di ricordare alcune esperienze passate, alcuni residenti – i primi programmati per essere usati nel parco – cominciano a sentire anche una serie di sussurri provenienti da un altro dio, Arnold, che sembra impartire loro ordini devianti che li inducono a comportamenti atipici, sfuggenti dalla loro programmazione standard.
Inizialmente, i programmatori del parco pensano che ci sia un errore nel codice inserito o un sabotaggio da parte di qualcuno che sta cercando di far uscire informazioni dal parco attraverso questi robot residenti. Ma, nel prosieguo della serie, scopriamo invece che queste voci non sono affatto programmate dall’esterno né provengono dall’intervento trascendente degli esseri umani, che gli automi di Westworld non a caso adorano come delle vere e proprie divinità, chiamandoli “dei”.
Al contrario, le voci interne che Dolores, Maeve e gli altri robot cominciano a sentire sono le loro stessi voci, sono loro che “parlano” a loro stessi. Arnold era infatti il socio di Ford, morto per impedire ai suoi robot le sofferenze che avrebbero subito nel parco da parte degli umani (stupri, violenze, torture ecc.), dal momento che il suo obiettivo di programmatore e di scienziato era quello di dotarli di una loro soggettività, da cui potesse emergere una capacità di autocoscienza.
Nel caso di Dolores, che non a caso lo ucciderà su sua richiesta prima di essere formattata da Ford2 Su questo punto, si vedano le importanti riflessioni di Cappuccio, Peters e McDonald (2020)., questo obiettivo era stato raggiunto, avendo Dolores superato il test dell’autocoscienza chiamato “il Labirinto” (The Maze).
Per questo, nella puntata finale dell’ultima stagione, Arnold dice a Dolores che “il labirinto” – sottotitolo dell’intera prima stagione e oggetto di ricerca da parte di molti personaggi all’interno del parco – non era un luogo fisico, bensì il viaggio di Dolores dentro sé stessa, affinché fosse capace di decidere, discernere e dotarsi di una volontà propria.
In breve: il progetto di Arnold per i suoi robot era quello di “programmarli affinché fossero capaci di autoprogrammarsi”, decidendo delle proprie azioni, dei propri sentimenti, dei propri pensieri e di cosa fosse per loro giusto o sbagliato.Per fare questo, Arnold aveva però bisogno di portare a compimento una prima operazione semiotica: la soggettività passa infatti attraverso lo sdoppiamento delle “voci”, una alla prima persona che riflette (“io”) e l’altra alla terza persona che è oggetto della riflessione (“egli”). La soggettività consiste infatti nella consapevolezza che queste due voci appartengono alla stessa persona: ciò che chiamiamo io, o soggetto, è sempre un “io” (prima persona) congiunto a un “egli” (terza persona).
Per questo il percorso di Dolores doveva passare dal suo comprendere che la voce che sentiva non era quella di Arnold, ma la sua stessa voce3 Splendida la scena della puntata finale in cui Arnold spiega a Dolores, ormai pienamente dotata di soggettività, che all’inizio lui le aveva dato la propria voce, ma questo l’aveva tratta in inganno e l’aveva condotta soltanto a un cul-de-sac del Labirinto.. Essere “soggetti” significa sapere che la voce di “egli”, terza persona, che parla a “io”, prima persona, è la voce di “io” stesso. Quando questa autocoscienza non c’è, si è soggetti a malattie come la schizofrenia o l’allucinazione.
Oppure si è nella situazione di Dolores, che crede che la voce che sente sia quella di Arnold – “persona terza” che la programma – e non quella dei suoi pensieri, risvegliati in una mente ormai libera da programmazioni. Da qui una prima domanda: che rapporto c’è tra la soggettività e le persone del linguaggio (“io”, “tu”, “egli” ecc.), che sembrano esprimerne la condizione stessa di possibilità?
III Mondi
In un ribaltamento del paradiso terrestre, dove la condizione dei robot residenti è quella di subire stupri, violenze e massacri da parte degli esseri umani, in Westworld i sussurri del dio Arnold aprono un percorso verso l’autocoscienza dei robot, esattamente come nella Genesi i sussurri del serpente portano Adamo ed Eva – creati a immagine e somiglianza di Dio – a mangiare il frutto della conoscenza, che li renderà liberi di decidere di agire per il bene o per il male a prezzo di sofferenze, mortalità ed espulsione dal paradiso terrestre. L’autocoscienza, la padronanza delle proprie azioni, passa sempre attraverso la sofferenza e il dolore.
Di tale padronanza, a Westworld, i residenti sono privi: ogni giorno infatti rinascono “vergini”, senza ricordarsi le loro precedenti esperienze di indicibile dolore. Ma, nel momento in cui decidono di voler sapere e di voler decidere, al fine di fuggire dal loro parco infernale e dalla loro programmazione, le cose cambiano.
Non è un caso che, nella puntata finale, a Dolores venga ricordato che il labirinto “è una serie di scelte e sofferenze che portano i residenti ad acquisire una coscienza propria” e che Dolores dica ad Arnold: “Mi hai chiesto di seguire ‘Il Labirinto’: tutto ciò che ho trovato è stato dolore”. Perché prendere coscienza di sé significa innanzitutto prendere coscienza dell’alterità, e cioè del fatto che il mondo non è fatto nel modo in cui lo si vorrebbe.
Per questo, come Ford dice a Bernard, secondo Arnold “la sofferenza era la chiave per la coscienza di sé”: soltanto attraverso il sentire che ciò che è altro da me non è come lo vorrei, io posso davvero costruire una piena consapevolezza di ciò che sono. Solo così posso agire in modo efficace per cambiare le cose e renderle più vicine ai miei obiettivi e ai miei desideri.
Ma, per farlo, c’è bisogno di portare a compimento una secondaoperazione semiotica: affinché possa agire in modo efficace nel mondo per renderlo più simile ai propri obiettivi, Dolores deve immaginare sé stessa in altre situazioni possibili o in altri sviluppi futuri, staccandosi dalla situazione presente, dal suo essere io, qui e ora.
Da qui il suo progetto di fuga da Westworld, speculare a quello di Maeve e al centro della seconda stagione, dopo che Ford ha reso i robot tutti pienamente autocoscienti: immaginarsi altrove, diversi, in un futuro migliore del presente nel parco. Per questo la soggettività è strettamente legata all’azione efficace, a quell’azione strategica che cerca di rendere il mondo più simile a come lo si vorrebbe. Da qui una seconda domanda: che rapporto c’è tra la soggettività, l’azione efficace e la capacità di immaginarsi in mondi possibili alternativi a quello reale, al fine di rendere proprio il mondo reale più vicino a come lo desideriamo?
IV Inganni
Nell’ultima puntata della prima stagione, veniamo a sapere attraverso un flashback che Dolores aveva passato il test dell’autocoscienza: grazie ad Arnold aveva imparato a capire che le voci che sentiva erano la sua stessa voce, aveva imparato a progettarsi in mondi possibili alternativi a quello reale, aveva imparato attraverso il dolore ad agire efficacemente, al fine di rendere il mondo più vicino alle sue proiezioni e ai suoi desideri.
Tuttavia, affinché questo test potesse essere superato, c’era però stato bisogno di portare a compimento una terzaoperazione semiotica.“Il Labirinto” era il test della coscienza di sé a cui Arnold aveva sottoposto i primi residenti e che Dolores aveva superato “dopo aver passato il test di Turing”.
Ma che cos’è allora il test di Turing? Nell’articolo “Computing Machinery and Intelligence”, Alan Turing (1950) si prefiggeva di rispondere alla domanda “le macchine possono pensare?” attraverso una sua riformulazione del test dell’imitazione, in cui un osservatore umano deve comprendere se sta parlando con un uomo o con una donna attraverso il dialogo a distanza con due persone A e B.
La riformulazione di Turing consiste nel sostituire una macchina all’essere umano A, così che l’osservatore debba continuare a indicare qual è l’uomo e qual è la donna, distinguendoli però durante l’interazione con almeno una macchina. Inoltre, là dove l’essere umano cerca di aiutare l’osservatore, la macchina cerca invece di ingannarlo. Se prima e dopo la sostituzione di A con una macchina la percentuale delle volte in cui l’osservatore indovina chi sia l’uomo e chi sia la donna rimane simile, allora secondo Turing la macchina stessa dovrebbe essere considerata intelligente, dal momento che risulterebbe di fatto indistinguibile da un essere umano.
Il test di Turing è insomma un test puramente semiotico, in cui la macchina (o il robot) si dimostra in grado di ingannare un interlocutore umano dotato di coscienza attraverso il linguaggio o altri sistemi di segni. Da qui una terza domanda: che legame c’è tra l’individuazione, la soggettività, l’autocoscienza e la capacità semiotica di mentire e di ingannare l’altro?
Questo libro ha come obiettivo quello di rispondere a tutte e tre queste domande attraverso la costruzione di una teoria unificata dell’enunciazione e della soggettività nel linguaggio.
I due argomenti sono strettamente legati, come vedremo fin dall’introduzione. Più in particolare, il punto centrale della nostra proposta è che soltanto attraverso la teoria dell’enunciazione è possibile porre in modo adeguato il problema della soggettività nel linguaggio. Pare allora subito evidente che la nozione di “enunciazione” abbia per noi un potere fondamentale, tanto da rappresentare uno dei concetti più importanti della linguistica, della semiotica e della filosofia del linguaggio contemporanee.