Qualcosa, diciamo un canovaccio di buone intenzioni, sull’innovazione culturale. A diciotto anni, più o meno, mi sono trasferito a Milano dove, pur avendo vissuto in altri posti, sono sostanzialmente rimasto. Milano è giustamente venduta come la città dell’innovazione culturale ma prima di dire perché questa idea è parzialmente sbagliata vorrei dire qualcosa di più generale sull’innovazione: poi torniamo a Milano.
L’innovazione culturale è spesso venduta come una serie di prassi volte ad accedere a una serie di prodotti preconfezionati; cadono sotto l’oggetto dell’innovazione culturale cose molto diverse come: riviste, associazioni no-profit, caffè letterari, onlus, case editrici indipendenti, blog, residenze per artisti, università e accademie private, ecc.
Dico “ecc” perché di fatto, con un po’ di fantasia, potrei continuare per qualche pagina fino a generare una vera a propria vertigine della lista.
Questa idea di innovazione, chiamiamola epistemologica, funziona così: ci sono degli oggetti già dati che fanno parte dell’insieme di cose che chiamiamo “innovative da un punto di vista culturale” a cui si deve semplicemente accedere.
Lasciamo da parte, anche se forse è il vero tema, che l’accesso a questi prodotti è molto diverso e che non esiste nessuno sgravio (se non a Milano, appunto, che tanto è già carissima di per sé) per chi vuole fare impresa culturale: aprire un caffè letterario o un negozio di sigarette elettroniche non fa differenza agli occhi dello Stato (anzi esistono agevolazioni per il secondo) e la famosa frase “con la cultura non si campa” assume sempre più un signficato prescrittivo che descrittivo.
La mia tesi è che se l’innovazione culturale è un’epistemologia allora, per ovvie ragioni, non ha nulla di innovativo: le cose sono già là, si tratta di raggiungerle, e chi ha più disponibilità (intellettuale, ma soprattutto direi economica), le raggiungerà prima e/o meglio.
Mi piacerebbe provare a ragionare invece sull’innovazione culturale come un’ontologia in cui l’elenco dei prodotti va allargato, decostruito, riordinato. I caffè letterari tutti uguali in giro per Milano, piuttosto che i blog seriali sul cibo biologico o le riviste patinate che alternano in modo pseudo leggero articoli che vanno da Beyoncé al buco nell’ozono, sono figlie di questo approccio seriale all’innovazione.
Se sapessi esattamente dove sto andando credo che non muoverei neanche un passo per andarci. Jacques Derrida
In filosofia ho difeso l’idea che l’azione non è una buona entità per descrivere i processi creativi, cosa che invece è in grado di fare benissimo l’atto. L’azione è quella cosa per cui si mira a un obiettivo specifico e che potrà essere definita come tale solo qualora quell’obiettivo venga raggiunto in accordo alle intenzioni di partenza; l’atto, invece, mutuato dal teatro di Carmelo Bene, è quella cosa per cui «l’azione viene sgambettata»: ovvero in cui il processo conta molto di più del presunto obiettivo, “il goal” come dicono gli anglosassoni, che si pensava di poter raggiungere.
Si tratta di una cosa che una volta a un convegno a Parigi disse Jacques Derrida a Jean Hyppolite che gli rimproverava come le sue conferenze sembrassero non mirare a nessuna testi specifica: «se sapessi esattamente dove sto andando credo che non muoverei neanche un passo per andarci».
Esattamente come la scienza anche la produzione culturale procede per errori: durante un processo, una performance più tecnicamente, ti perdi, sbatti contro un muro, ti ritrovi da un’altra parte e individui una luce, una strada, qualcosa per cui vale la pena continuare. L’ontologia dell’innovazione culturale è quella pratica per cui, prima di tutto, è necessario ridefinire contorni e principi delle entità che definiamo essere innovative; la brutta notizia, se ho ragione con la tesi dell’ultimo capoverso, è che impossibile. Il nuovo, al contrario della retorica per cui si aggiunge il prefisso “nuovo” a qualsiasi cosa, è inafferrabile: se lo afferri, lo catturi, non è più nuovo perché il nuovo, appunto, non si inventa, ma emerge da un atto performativo.
Il primo problema, per questo modo di intendere l’innovazione culturale, sono le tassonomie entro cui la stessa cultura si muove: sei un bar oppure una libreria? insegni all’università oppure scrivi sui giornali? questa rivista si occupa di moda o di design? questa accademia si concentra sulla teoria oppure sulla pratica?
Nel secondo episodio della decima stagione dei Simpson, “L’inventore di Springfield” (1998), il professor Frink definisce l’innovazione come quella pratica per cui si riusa un oggetto per scopi prima non previsti dalla funzione attribuitagli oppure come la creazione di un oggetto volto a soddisfare bisogni nuovi ma potenzialmente indispensabili. Mi sembra una buona definizione, soprattutto utile al nostro caso.
Nella mia esperienza di “persona culturalmente attiva” ho partecipato più o meno attivamente alla fondazione o amministrazione di riviste accademiche e divulgative, quotidiani e blog, residenze per artisti e onlus, associazioni senza scopo di lucro, centri di ricerca e micro-imprese con vocazione culturale.
Il principale problema che ho riscontrato è rispondere prima alle domande, ai moduli, ai test o ai colloqui di finanziamento, che dovevano identificare esattamente che genere di prodotto avrei contribuito a creare con lo stupore, più o meno ricorsivo, di chi si sentiva rispondere “come potrei mai saperlo ora?”.
Qui rientra l’analogia con la scienza, o meglio con la ricerca scientifica: è impossibile sapere prima di un esperimento in laboratorio esattamente quale sarà il risultato anche se è ovvio che è una procedura a portarti a quella scoperta.
Il problema è che l’innovazione culturale è una gemmazione della humanities dove anche la ricerca è costruita così: i filosofi scrivono articoli sapendo già dove vogliono arrivare, e così i critici, gli storici dell’arte e addirittura i giuristi o i linguisti (basti pensare all’abstract che bisogna presentare prima di scrivere l’articolo a riviste importantissime in giro per il mondo). Non è un caso, ma una tristezza conclamata, che anche la ricerca oggi chiami “prodotti” i suoi risultati.
In questo modo si genera un impasse: l’innovazione diventa semplice accesso epistemologico a qualcosa che già tutti sanno cos’è. Se giro a Milano col motorino, e da Giambellino fino a Loreto cerco luoghi o iniziative davvero innovative culturalmente, ne trovo pochissime: la Gogol & Company, i Bagni Misteriosi, L’Idea Factory di Nolo, la redazione di Pagina99 o il concept della Mi Arch Week concepita da Stefano Boeri.
Per il resto vedo un meccanismo di emulazione: luci senza lampadari che cadono dai tetti di posti ristrutturati in serie, bar con riviste sparse qua e là, blog e pagine di Instagram dedicate al cibo, magari anche seguitissime, ma completamente inutili, e anche qui scatta l”ecc”.
Non è un caso che molti dei luoghi felicemente innovativi che ho citato abbiano creato oggetti prima inesistenti: inserti culturali che però non hanno nessun quotidiano di riferimento (inserti non inseriti), piscine culturali (in questo Andrée Ruth Shammah è stata geniale), o festival dell’architettura aperti da rapper vissuti in periferia e non da professoroni universitari.
Il punto, l’oggetto del contendere diciamo, è il performativo più che l’oggettuale: per innovare devi avere il lusso di poterti smarrire per strada pur avendo un’idea precisa dei principi e parametri di questo “atto”. Non c’è innovazione senza sperimentazione ma tutto andrebbe ribaltato: residenze per artisti senza obbligo di produzione di opere (un po’ come La Sesta Biennale dei Caraibi di Cattelan e Hoffmann nel 1999), fondazioni che erogano finanziamenti sulla base dei processi e non degli obiettivi e non li richiedono indietro se si aspettavano altro, ricerca svincolata dalla pubblicazione continua, e ancora una volta “ecc”.
In questo ribaltamento, dove l’ontologia come pratica di scoperta di nuovi oggetti, sostituisce l’epistemologia come pratica di accesso ai soliti oggetti, c’è lo spazio per un programma culturale immenso: la più grande delle risorse economiche di questo paese, la cultura, può generare ricchezza e innovazione solo se liberata dai meccanismi con cui si regola tutto il resto dell’impresa. Non conta cosa produrre ma, appunto, che fare.
Immagine di copertina: RB Ride – Carsten Holler, 2007