Chiamare le cose con il proprio nome: intervista a Luigi Ferrajoli

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    Abbiamo intervistato Luigi Ferrajoli, giurista, ex magistrato, professore emerito di Filosofia del Diritto all’Università di Roma Tre. Allievo di Norberto Bobbio, da oltre cinquant’anni riflette su diritti e garanzie sia nelle aule universitarie che nei dibattiti pubblici. Ha di recente pubblicato “Manifesto per l’Uguaglianza,” dove configura il principio di uguaglianza come “il principio politico dal quale, direttamente o indirettamente, sono derivabili tutti gli altri principi e valori politici”.

    Proprio alla luce di questo principio ha formulato durante la Lectio Magistralis tenuta presso l’Università di Barcellona una proposta di definizione delle gravi violazioni dei diritti globali come ‘crimini di sistema’.

    “La proposta consiste nell’includere, nella nozione di «crimine», questa classe di violazioni giuridiche, non meno e anzi, di solito, assai più gravi: quelli che possiamo chiamare ‘crimini di sistema’, consistenti in aggressioni e violazioni dei diritti umani messe in atto, come si è detto, dall’esercizio incontrollato dei poteri globali – politici, economici e finanziari – e dallo sviluppo anarchico del capitalismo.

    Non si tratta, si badi, dei crimini dei potenti, che sono pur sempre crimini penali e la cui gravità e la cui frequente impunità sono state fatte oggetto d’indagine da un’ormai ampia letteratura di criminologia critica. E neppure si tratta dei crimini di Stato o dei crimini contro l’umanità, parimenti trattati dal diritto penale internazionale a seguito di quella grande conquista che è stata l’istituzione della Corte penale internazionale.

    I crimini di sistema, consistendo in violazioni massicce dei diritti umani costituzionalmente stabiliti, sono sicuramente riconducibili alla fenomenologia dell’illecito giuridico. Non sono tuttavia illeciti penali, perché difettano di tutti gli elementi costitutivi del reato. I loro tratti distintivi, quelli che volendo usare il linguaggio penalistico possiamo chiamare i loro elementi costitutivi, sono due: il carattere indeterminato e indeterminabile sia dell’azione che dell’evento, di solito catastrofico, e il carattere pluri-soggettivo sia dei loro autori che delle loro vittime, consistenti di solito in popoli interi o, peggio, nell’intera umanità”.

    Vorrei chiederle una riflessione a partire dalla sua proposta sui crimini di sistema. Questa categorizzazione suona come possibile strumento di riduzione delle diseguaglianze, in che modo opera? In che contesto diventa così necessaria?

    Diciamo questo: stiamo vivendo in un’epoca di crisi crescente dell’uguaglianza e di una crescita esponenziale sia delle disuguaglianze economiche che delle discriminazioni e cioè del disprezzo, svalorizzazione delle differenze. La crescita delle disuguaglianze economiche è spaventosa, abbiamo una crescita delle ricchezze e una crescita delle povertà, abbiamo ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, al punto che le otto persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale. Queste otto persone soltanto 5 o sei anni fa erano sessantadue, e vent’anni fa erano qualche migliaio. Si tratta dunque di una crescita esponenziale.

    E poi le differenze, le varie forme di xenofobia, di maschilismo, di razzismo, di nazionalismo, di fondamentalismo, e cioè di intolleranza per le differenze, come le differenze di nazionalità, di etnia, di religione. Tutti gli ordinamenti autoritari del resto sono fondati sull’intolleranza per il dissenso politico.

    Stiamo assistendo all’aggressione ai due significati dell’uguaglianza: l’uguaglianza in senso formale che è l’uguale valore associato a tutte le differenze e l’uguaglianza in senso sostanziale, che è la riduzione delle eccessive disuguaglianze a garanzia dei minimi vitali.

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    Il primo tipo di uguaglianza è assicurato dai diritti di libertà, che sono tutti i diritti alla tutela e all’affermazione delle proprie differenze. Il secondo tipo di uguaglianza – o almeno di riduzione delle diseguaglianze- è assicurata dai diritti sociali. Soprattutto i diritti sociali oggi sono fortemente aggrediti.

    Che cosa si può fare?

    Intanto bisogna dire che non c’è nulla di naturale in quanto sta accadendo. Ciò che accade è il prodotto della politica, il prodotto dell’irresponsabilità, dell’assenza di garanzie di diritti stabiliti sia dalle carte costituzionali, che dalle convenzioni internazionali.

    La prima cosa da fare è contestare la solita affermazione che “non ci sono alternative”. Le alternative ci sono, e sono state formulate nelle grandi carte costituzionali. Si tratta di dare esse attuazione, di rispettarle e attuarle.

    Per quel che riguarda gli enormi problemi, della fame nel mondo, i problemi delle malattie non curate, delle devastazioni ambientali, le soluzioni sarebbero anche relativamente semplici se la politica fosse all’altezza di questi problemi. È stato calcolato che basterebbe poco più dell’1%,  1.15-1.20 del prodotto interno lordo mondiale per levare dalla miseria più di 3 miliardi di persone, e quindi per ridurre o addirittura eliminare le cause dei flussi migratori.

    Sarebbe nell’interesse di tutti – non solo delle persone che subiscono le violazioni di tali diritti, ma di tutti noi – una politica all’altezza di questi problemi. Naturalmente questo comporta la costruzione di una sfera pubblica rispetto alla quale -paradossalmente- i principali avversari sono, non solo, come è ovvio, i grandi poteri economici e finanziari che crescono a dismisura senza limiti e vincoli di carattere globale; ma anche gli attuali populisti sovranisti, che con la loro difesa di un’illusoria sovranità nazionale sono i principali oppositori della costruzione di una sfera pubblica sovranazionale o quanto meno europea in grado di imporre limiti e vincoli a quei nuovi sovrani assoluti e invisibili nei quali si sono trasformati i mercati.

    Alcuni autori -tra cui Foucault- leggono nei meccanismi che lei ha ben descritto una precisa volontà di un’inclusione differenziale: di una società che non ha come preciso intento quella di essere una società di eguali, bensì una società di diseguali. Come si pone rispetto a questa lettura?

    Sì, purtroppo assistiamo al sopravvento delle destre. Possiamo in maniera molto schematica identificarle, anzitutto, con le ideologie liberiste, che vedono il mercato come il luogo delle libertà anziché come il luogo, anche, del potere. Le cosiddette libertà economiche sono anche poteri, poteri economici, poteri finanziari, che in tanto sono legittimi in quanto siano sottoposti a regole, limiti, a controlli, a garanzie dei diritti fondamentali. É abbastanza sintomatico che l’espressione “Stato di diritto” alluda alla sottoposizione al diritto soltanto dello Stato e non anche del mercato, dei soli poteri pubblici e non anche dei poteri privati. Anche il mercato deve essere sottoposto a regole.

    Si tratta di poteri legittimi, ma la cui legittimazione è legata anche alla loro subordinazione alle tante carte internazionali che stabiliscono diritti fondamentali e che quindi non possono svolgersi in violazione di questi diritti.  A cominciare dai diritti dei lavoratori, parimenti stabiliti in tante carte internazionali.

    A livello internazionale ciò che è necessario è l’istituzione — più che di funzioni di governo che devono essere quanto più possibili locali e cioè rappresentative – di funzioni globali di garanzia dei diritti fondamentali e dei beni fondamentali. Quindi non solo le funzioni giurisdizionali o secondarie come la Corte penale internazionale, che è uno scandalo che non sia stata unanimemente sottoscritta dalle grandi potenze, ma soprattutto quelle che ho chiamato garanzie primarie. Alcune di queste istituzioni di garanzia come l’Organizzazione Mondiale della Sanità o la Fao esistono ma non hanno i mezzi materiali per attuare le tutele che promuovono. Dovrebbero essere fornite – la Fao, l’OMS, le organizzazioni deputate in materia istruzione – dei mezzi idonei a garantire sul piano effettivo i diritti alla salute e all’alimentazione di base.

    Dovrebbe essere inoltre istituito un demanio planetario, idoneo a sottrarre al mercato i beni vitali. La cosa è possibile e dovrebbe essere nell’interesse, dati che questo è “l’unico pianeta che abbiamo”, secondo un vecchio slogan. È nell’interesse di tutti la riduzione delle disuguaglianze, che oltre un certo limite non possono che comportare catastrofi.

    Però allo stesso tempo abbiamo assistito agli accordi sul clima disattesi, come nel caso degli accordi di Parigi, in cui i sottoscrittori non hanno poi implementato le norme. Come mai questa distanza tra le carte e le pratiche?

    Sono un segno di miopia. Lo è, intanto, il fatto che ci siano delle quantità di emissioni inquinanti consentite. Occorrerebbero soluzioni più radicali come la messa al bando di emissioni prodotte da energie non rinnovabili e abbiamo gli strumenti tecnici per realizzare tutto questo.

    Occorrerebbe imporre lo sviluppo delle energie rinnovabili e di energie non inquinanti.

    Bisognerebbe creare una sfera pubblica all’altezza dei poteri globali, dei poteri economici e finanziari sovranazionali, i quali senza limiti e vincoli naturalmente finiscono per svilupparsi come poteri selvaggi.

    È un imperativo di ragione, ancor prima che un imperativo morale  e giuridico, perché oggi le capacità distruttive di cui disponiamo sono incomparabilmente maggiori di qualunque altra epoca del passato.

    Noi abbiamo visto che Il diritto ha ricoperto un ruolo primario in questo senso. C’è stato  un periodo di grande espansione, che è andato dalla caduta del muro di Berlino all’inizio degli anni 2000 e che ha visto una forte produzione di diritti e di garanzie internazionali. Poi è come se si fosse interrotta nella fase di implementazione. Allora, possiamo dire che il diritto ci basta?

    No, Ovviamente. Il diritto è un prodotto della politica, Ma la politica è quella che è. E’ una politica che soffre di una crisi di rappresentatività,  data la crisi dei partiti che tradizionalmente selezionavano il ceto politico, e che si cura soltanto dei tempi brevi -sondaggi, elezioni- e degli spazi ristretti. E’ chiaro che una simile politica non sarà mai all’altezza delle sfide globali.

    In questo senso è chiaro che il diritto non basta. Il diritto è un fenomeno artificiale e il prodotto di una costruzione che richiede da un lato una teoria, e cioè un progetto, un programma, dall’altra le forze e i soggetti politici in grado di attuarla.

    La crisi oggi è anzitutto una crisi della politica, che non a caso sta assumendo le forme del populismo. Il crollo dei partiti si risolve in un rapporto verticale – anche in presenza del cambiamento delle forme della comunicazione politica – tra capi e opinione pubblica. C’è una passivizzazione della società e i cittadini non concorrono più a determinare la politica, come vorrebbe l’art. 49 della Costituzione, ma assistono a degli scontri tra capi scegliendo il meno penoso Il  grado di popolarità dei partiti in Italia è arrivato al 4 percento, praticamente quasi allo zero. Questo è un segno di crisi della rappresentatività e comunque del rapporto tra società e sistema politico.

    Un ceto politico di bassa qualità, formato sulla base della cooptazione dei più fedeli ai capi delle diverse forze, finisce per pensare di dover rispondere più ai mercati che all’opinione pubblica e, quindi, per subordinarsi ai poteri economici sovranazionali. C’è stato un ribaltamento del rapporto tra politica ed economia: è più l’economia che governa la politica che viceversa.

    Penso che tutto questo non possa durare senza produrre catastrofi. Dovrebbe essere perciò un imperativo di ragione ripensare la politica all’altezza dei problemi. Tutto si tiene. Una rifondazione della politica richiede che si ristabilisca un rapporto con la società che non può essere di passivo consenso ma di partecipazione attiva. Tutto questo richiederebbe un discorso troppo lungo che ora non è il caso di fare, sulla necessità di una Riforma dei partiti, di una separazione tra partiti e istituzione, sulla restituzione dei partiti al loro ruolo di organi sociali, titolari delle funzioni di indirizzo politico e soprattutto di controllo e responsabilizzazione dei rappresentanti. I partiti dovrebbero essere il luogo in cui i dirigenti sono chiamati a rispondere, e non viceversa apparati al servizio degli stessi dirigenti collocati all’interno delle istituzioni.

    In questo scenario di “pessimismo potestativo”, in cui le norme giuridiche sono quasi solo espressione dei poteri e dei potenti, quali antidoti ci sono?

    Beh gli antidoti purtroppo non sono molti. Intanto, dobbiamo chiamare le cose col loro nome, come ho proposto di fare con l’introduzione della categoria dei ‘crimini di sistema’, che non aono fenomeni naturali, ma violazioni, crimini ancora più distruttivi degli stessi delitti penali: parlo di questioni come la fame nel mondo o il fatto che le persone muoiano affogate nel tentativo di penetrare nei nostri paesi, dopo che il diritto di migrare è stato teorizzato dagli stessi occidentali a sostegno della conquista del mondo durante la colonizzazione. Un altro anticorpo è mostrare il carattere catastrofico di queste politiche, e quindi far valere la ragione, oltre che il diritto, contro questa crescita delle disuguaglianze.

    Un altro antidoto – che è poi connesso al secondo – è che si sta formando, oggettivamente, quello che dovrebbe essere un interesse globale di tutti, quantomeno riguardo alla sopravvivenza dell’abitabilità del pianeta, alla riduzione di disuguaglianze che possono produrre terrorismi, guerre, violenza.  È nell’interesse – lo diceva già Hobbes quattro secoli fa – anche dei più forti, anche dei più ricchi, sottoporsi al diritto e assumere il diritto come condizione della convivenza pacifica; le regole, i diritti fondamentali come leggi del più debole in alternativa alla violenza selvaggia delle leggi dei più forti.

    Quindi è una battaglia culturale che dovrebbe promuovere processi crescenti di integrazione: l’Unione europea, l’integrazione globale, l’unificazione del diritto del lavoro, la creazione di istituzioni di garanzia. Tutte cose che però richiedono un ruolo attivo della politica e in questo c’è una responsabilità della cultura giuridica e della cultura politica che non possono limitarsi alla descrizione di quel che accade, ma dovrebbero anche criticare ciò che accade e progettare ciò che dovrebbe accadere sulla base dello stesso diritto positivo, sia interno che internazionale.

     

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