“Controsenso in tangenziale, andiamo a nomadare”. Quello che Giorgia Meloni fa a Gilles Deleuze (e, sperabilmente, viceversa)

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    Immagino che il richiamo non immediatamente colto sarà chiaro tra poco. Del resto, uno dei tratti caratterizzanti del mondo contemporaneo, su cui non si è ancora riflettuto a sufficienza, è la svalutazione del sapere. E non parlo soltanto della pur evidentissima svalutazione del prestigio sociale dei lavori legati alla cultura, ma proprio dell’indifferenza generalizzata nei confronti dei valori della conoscenza, che non sono più considerati desiderabili e degni di sforzo, come lo sono ad esempio quelli legati all’estetica o all’economia.

    Ce ne sono molteplici esempi in molteplici forme: da almeno una ventina d’anni scrivere bene non è più avvertito come un pregio o un valore, tanto che meno del trenta per cento degli italiani tra i sedici e i sessantacinque anni è in grado di padroneggiare una proposizione subordinata [1]. Passare ore a leggere libri è generalmente considerato meno importante ed è molto meno praticato del passare ore in palestra ad alzare dei pesi. E mai come in questi anni, intere comunità di scienziati sono sempre più accusate di dire e scrivere le cose che dicono e scrivono perché colluse con gli interessi economici delle multinazionali, secondo il classico meccanismo di proiezione dei miei valori sui tuoi: del resto, perché mai dovresti passare ore e ore a studiare al posto che andare in palestra se non ne avessi almeno un vantaggio economico?

    Questa indifferenza ai valori cognitivi e questa deflazione della conoscenza e del sapere sono abbastanza ben esemplificate dal messaggio postato su Facebook poche ore fa da Roberto Burioni, un immunologo da sempre in prima linea nella comunicazione e nella divulgazione scientifica:

    Del resto, proprio dalle pagine di cheFare, Bertram Niessen[2] mostrava come la pratica culturale nelle nostre società sia attualmente sempre di più “una forma di consolazione”, una piccola “glorificazione identitaria” che segue la “constatazione dell’inutilità del proprio capitale culturale, acquisito faticosamente e che sempre più fatica a convertirsi in capitale economico”. Se, come pensava Pierre Bourdieu, gli individui hanno a disposizione in misura differente capitale economico, capitale sociale, capitale culturale e capitale simbolico e possono usare ciascuno dei quattro per provare a ottenere gli altri, le società contemporanee sono sempre più definite da una deflazione del capitale culturale, che tende progressivamente a valere sempre meno rispetto agli altri tre.

    Da qui alcune conseguenze. Quando Umberto Eco scriveva alcuni dei suoi primi libri magistrali, come Apocalittici e integrati o Il costume di casa, aveva chiaro che le élite culturali possedevano un potere nei confronti di ciò che allora si chiamava “la massa” e che questo potere derivava loro innanzitutto dall’istruzione, dalla cultura e dal sapere. Per questo pensava che ogni processo di emancipazione delle masse rispetto alle élite dovesse passare da un potenziamento del loro potere cognitivo, e quindi dalla conoscenza. Soltanto passando attraverso il sapere, le masse potevano sperare di acquisire il potere detenuto dalle élite, a cui erano subordinate. Ora, non solo questo non si è verificato, ma – e continuo ad usare la terminologia degli anni Sessanta – le masse hanno preso il potere restando masse e senza passare dall’acquisizione di nessun sapere.

    E non mi sto certamente riferendo alle pur sorprendenti interviste di cultura generale fatte ai politici da programmi tipo Le Iene, ma proprio a un cambiamento culturale che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, in cui si è passati dal “Votami, perché ne so più di te” al “Votami, perché come te non so assolutamente nulla”. Già Giuseppe Antonelli, nel suo delizioso Volgare eloquenza, notava questo fenomeno a proposito del linguaggio: come in pubblicità, vende chi alimenta il narcisismo al ribasso dei destinatari, “i quali – lusingati – preferiscono riflettersi che riflettere”.

    Questo ha ovviamente diverse conseguenze. Una l’abbiamo vista proprio in questi giorni.

    Una delle funzioni più importanti della conoscenza è quella di insegnarci che quello che sappiamo non vale sempre e comunque, ma evolve e si trasforma e va quindi adattato alla situazione, in funzione del problema locale. Le persone colte, che hanno dato valore al sapere, non sono colte perché sanno molte cose, ma perché si sanno muovere all’interno delle cose che sanno. Il sapere non è una matrice generale che si può applicare sempre a tutti i casi possibili e avere cultura significa innanzitutto saper declinare e coniugare quello che si sa.

    Alle scuole elementari ci hanno insegnato che il nomade è colui che non vive in maniera stabile su un territorio, ma si sposta entro aree più o meno vaste a seconda degli andamenti stagionali e climatici. Ci hanno anche insegnato che il nomadismo era in fondo una forma primitiva, che la civiltà aveva superato con la stanzialità, così che in fondo chi lo pratica ancora oggi ci sembra appartenere quanto meno a uno stadio precedente a quello che riteniamo di aver acquisito con il progresso. Ma di sicuro “se sei nomade devi nomadare”. Non è che mi puoi stare fermo “come qualunque altro cittadino italiano stanziale”.
    Ma è veramente così?

    “Per i nomadi la nostra proposta è che si allestiscano delle piazzole di sosta temporanee dove si pagano le utenze e si sosta al massimo sei mesi, dopodiché ci si deve spostare, punto. Quindi va bene censirli dopodiché se sei nomade devi nomadare, non puoi essere stanziale. Se sei nomade, io ti attrezzo delle piazzole di sosta temporanea dove tu arrivi, ti agganci e paghi la luce, il gas e tutto quello che devi pagare come fa qualunque italiano. Dopodiché, quando hai finito di nomadare, transumi e vai. Non sei stanziale.”

    Si tratta di un passo estremamente interessante per il nostro discorso sul sapere e l’indifferenza ai valori della conoscenza. Il problema di Giorgia Meloni infatti non è politico, ma identitario. Giorgia Meloni crede di sapere cosa sia il nomadismo e quello che non le torna è una realtà in cui “i nomadi non nomadano”, perché devia dal suo mondo in cui “i nomadi nomadano”. Da qui il suo imperativo alla realtà: “se sei nomade, devi nomadare”, altrimenti io ho un problema cognitivo con chi sei. Com’è evidente, del nomade Giorgia Meloni ha una concezione animale, legata alla transumanza e alle migrazioni del bestiame, oltre che una versione indifferente ai valori del sapere, che si limita all’idea del “nomade” che si studia alle scuole elementari.

    Il buon senso e il senso comune però sono entrambi schierati dalla sua parte. Cosa possono essere i nomadi se non delle persone che nomadano? Il nomadare definisce l’essenza stessa dell’essere nomade, un po’ come la bianchezza definisce l’essenza del bianco o la nerezza quella del nero.

    E tuttavia, a voler seguire il buon senso e il senso comune penseremmo ancora che sia il sole a muoversi attorno a una terra piatta, fissa al centro dell’universo. Il sapere e la conoscenza rivendicano sempre una forma radicale di controsenso, che devia rispetto alla logica del buon senso dettata dal senso comune.

    Mettiamola così: se il nomade deve nomadare, cos’altro deve fare l’artigiano se non artigianare o il politico politicare? Tuttavia, quando l’artigiano artigiana, fa oggi cose molto diverse rispetto a quelle che faceva duecento anni fa, esattamente come quando il politico politica fa oggi cose molto diverse da quelle che faceva ai tempi della Politica di Platone. Che anche il nomade compia oggi il suo nomadare in modo molto diverso rispetto a quando seguiva i cicli naturali, le lune e la stagioni?

    Si trova facilmente su Youtube un comizio di Giorgia Meloni ad Acilia dell’Aprile del 2016, in cui si racconta della sua invenzione del neologismo “nomadare”, che dovrebbe quindi risalire a diversi anni prima, probabilmente quelli dell’amministrazione romana di Alemanno. Tuttavia, questo comizio del 2016 è più interessante dei recenti tweet e delle recenti apparizioni televisive in cui si esprime lo stesso concetto. Infatti, qui Giorgia Meloni pone immediatamente la questione dell’identità del nomade, un’identità che tutti noi conosciamo, perché l’abbiamo studiata a scuola e a cui bisogna che l’altro si adegui, visto che noi la vogliamo rispettare:

    “Sui rom bisogna fare un ragionamento serio. ‘Signor ROM, lei mi deve dire esattamente chi è. Cioè, sei effettivamente un nomade? Allora movite: se sei nomade devi nomadare’. Che significa, io ti allestisco delle piazzole di sosta temporanee in cui puoi stare massimo sei mesi e dopo sei mesi movite, perché sei nomade e io voglio rispettare la tua identità di nomade. Se sei nomade non sei stanziale, se invece sei stanziale – cittadino italiano stanziale – allora vieni trattato come qualunque altro cittadino italiano stanziale.”

    Ma, e qui sta il punto, questa identità che vogliamo rispettare è la loro identità o è l’immagine della loro identità che abbiamo noi? Com’è evidente dalla proposta delle “piazzole di sosta temporanee”, il modello della Meloni è quello dell’autostrada, in cui il camionista camionando dorme nella piazzola di sosta e se ne va. La sua logica è ferrea e sfiora quasi la tautologia: i nomadi nomadano e gli stanziali stanzializzano. Cosa potrebbero fare altrimenti? Si tratta della loro identità e noi la conosciamo bene fin dalle scuole elementari. Perché c’è solo una cosa che sfugge alla logica ferrea di Giorgia Meloni, al suo buon senso e al senso comune che cerca a tutti i costi di fare proprio: non le viene mai in mente nemmeno per un attimo di mettere in discussione le sue idee sull’identità dei nomadi e quello che crede di sapere su di loro.

    Del resto, come già notava Pierluigi Cervelli [3] in un suo bel lavoro, un problema simile l’aveva avuto il suo ex compagno di partito Gianni Alemanno quando era stato sindaco di Roma: sgomberando il campo Rom di Casilino 900, si era reso conto di aver sgomberato famiglie che ci vivevano tutte da più di vent’anni (e alcune anche da trenta). Tuttavia, questo è niente rispetto al caso affrontato nel 2009 dal vice sindaco di Milano Riccardo De Corato, che fece sgomberare per cinquantadue volte in otto mesi (circa una ogni quattro giorni) il campo abitato da cinquanta sinti italiani vicino alla tangenziale ovest di Milano. Campo che, per cinquantadue volte, è sempre stato ricostituito nello stesso posto.

    Li sgomberano e loro tornano. A distanza di una settimana sono di nuovo lì. I vigili si ripresentano e li cacciano ancora. I sinti portano via i loro diciassette caravan senza quasi fiatare. Qualche volta capita che la “visita” sia così attesa che le valigie sono pronte già dalla sera prima. Tempo qualche giorno e le roulotte rispuntano un’altra volta tra la tangenziale ovest e la periferia di Baggio. (A. Senesi, Corriere della sera, 1 Agosto 2009)

    Quanto strani devono essere sembrati al vice sindaco di Milano questi nomadi che non smettevano di tornare sempre nello stesso punto dopo cinquantadue sgomberi? Ma i nomadi non sono nomadi proprio perché si spostano? Se sei nomade, non devi nomadare? Nemmeno il peggiore degli stanziali, morbosamente affezionato proprio a quel posto vicino alla tangenziale, tornerebbe sempre nello stesso luogo con la sua roulotte dopo cinquantadue sgomberi.

    E infatti solo un vero nomade può farlo. Perché il nomade non è ovviamente colui che si sposta nello spazio. Il nomade è colui che non mette mai radici e per questo può sempre continuare a ricominciare nello stesso punto anche dopo cinquantadue sradicamenti. Il nomadismo è la duratività dell’incoativo: chi continua incessantemente a cominciare. Nomade è chi non pianta radici: tremila anni fa lo faceva seguendo il ritmo dei cicli naturali e delle stagioni, oggi lo fa continuando incessantemente a insediarsi in un posto che sa a priori essere provvisorio e non duraturo. Il nomade non è tale perché si sposta, ma perché non mette radici anche quando non lo fa. E questo può farlo anche restando immobile nello stesso posto, con la roulotte in tangenziale e le valigie pronte in attesa dei vigili. Per questo l’unica cosa che non ha senso fare è sgomberarlo: ricomincerà esattamente nello stesso posto. Oppure in un altro, perché essere nomade comporta la completa indifferenza al radicarsi in qualche luogo.

    Tuttavia, questa tenacia nel continuare a ricominciare in barba a ogni sgombero possibile, ben prima di Giorgia Meloni e del vicesindaco di Milano, deve aver messo in crisi anche il nostro governo italiano. Tanto che già il 30 Maggio del 2008 usciva un’ordinanza del presidente del consiglio della Repubblica Italiana (un Silvio Berlusconi insediato da soli ventitré giorni) che decretava addirittura lo stato di emergenza, “considerata la situazione di estrema criticità determinatasi nel territorio della regione Lazio […] a causa della presenza di nomadi che si sono stabilmente insediati nelle predette aree”.[4]

    Ancora una volta dei nomadi che si sono “stabilmente insediati”, dei nomadi che non ne vogliono sapere di nomadare: quasi delle contraddizioni in termini per il governo, sorta di ossimori viventi come il “disordine ordinato” o il “rumore silenzioso”.

    Ecco allora che se il nomade non vuole nomadare, se è “stabilmente insediato nelle predette aree”, bisogna costringerlo a farlo. Così la Presidenza del Consiglio decide di creare dei villaggi permanentemente provvisori, in cui si può stare per uno o due anni, rinnovabili una sola volta:

    “L’ammissione al villaggio comporta la temporanea assegnazione di una struttura abitativa, anche prefabbricata o realizzata con tecniche di autocostruzione, ovvero di una piazzola di sosta per roulottes e moduli abitativi”. [5]

    Com’è evidente, la proposta Meloni del 2018 non è altro che la riduzione a sei mesi di ciò che era stato già fatto dal governo italiano e dai comuni di Roma e Milano nel 2008. Ma non è questo il punto più importante. Ciò che conta davvero è che essa mira, esattamente come l’ordinanza della presidenza del consiglio del 2008, alla produzione attraverso la legge delle forme di vita degli altri. Se non che, queste forme di vita non sono in realtà quelle degli altri, ma sono quelle che noi pensiamo debbano essere. Il nomade è prodotto per legge, ma è prodotto secondo l’immagine che la cultura dominante ha di lui. Piuttosto che mettere in discussione quello che sappiamo sui nomadi, li rendiamo identici allo stereotipo che abbiamo di loro e lo facciamo attraverso la norma e l’istituzione, che ricodifica sul nostro pregiudizio quello che per essenza sfuggiva alle nostre norme, perché non era conforme ai nostri concetti e al nostro sapere. Le piazzole di sosta con l’attacco delle utenze di gas e luce di Giorgia Meloni sono innanzitutto questo: una ricodificazione dell’altro conforme all’immagine che lei ha di loro.

    E proprio qui sta il punto. Gilles Deleuze, a mio parere uno dei filosofi più importanti del Novecento, definiva il suo pensiero “nomade” e la vita nomade “una vita che resiste alla codificazione”. L’esempio di Deleuze era la follia: per definizione deviante rispetto al comportamento ordinario, la follia deve comunque essere codificata, e cioè rappresentata in forma ordinaria e gestibile, conformemente al sapere proprio del senso comune, che definisce ciò che in una data cultura e in un certo momento si pensa e si ritiene essere giusto.

    Da qui l’internamento forzato nei manicomi, che è stato un esempio di codificazione della follia attraverso la legge in una data epoca e in una certa cultura. E se in seguito la follia è stata ricodificata in modo differente e non repressivo, attraverso l’istituzione o il contratto, ciò che era in atto era sempre la codificazione di un’esperienza altrui attraverso l’immagine che in quel momento andava per la maggiore nella cultura dominante.

    Ecco allora che per Deleuze il “nomade” è chi sfugge a queste codificazioni, chi devia rispetto alle categorizzazioni che in una data epoca presiedono alla regolamentazione e al disciplinamento delle idee e delle persone. “Nomade” è ciò che eccede le categorie della cultura dominante e non si lascia incasellare e codificare nel sistema messo a punto dal buon senso del senso comune. Qualcosa di molto simile ai nomadi di Giorgia Meloni, che sono esattamente coloro che resistono e deviano dalle forme del suo pensiero.

    Per questo il nomade non è colui che si sposta, ma è colui che resiste alla codificazione anche quando non si sposta. Nomade è chi rivendica un “controsenso” rispetto al buon senso che è proprio del senso comune. Perché è chiaro che si codifica sempre in funzione di quello che si sa, in funzione dell’immagine che abbiamo della realtà. Per questo il nomadismo non riguarda il potere, ma anche e innanzitutto il sapere e la codificazione ha sempre a che vedere con ciò che crediamo di sapere sugli altri e sulle loro identità: preconcetto, stereotipo, già-detto, idea o conoscenza attestata che sia. Perché quello che crediamo di sapere è spesso innanzitutto quello che vogliamo vedere per mantenere la nostra condizione di privilegio. E se la realtà non si adatta a quest’immagine, possiamo sempre forzarla a farlo attraverso una legge o una norma, che la ricodifica riportando all’ordine ciò che sfuggiva al nostro sguardo.

    Per questo il nomadismo va reclamato come un diritto, innanzitutto a livello del sapere. Nomade è ciò che è controsenso rispetto al sapere di chi ha il potere. Rimanda a qualcosa di non normato, di non istituzionalizzato, di non codificato. Reclamare il diritto al controsenso significa rivendicare le ragioni della complessità del pensiero contro quelle del buon senso e del sapere elementare e precostituito che caratterizza il senso comune, che crede che le cose cosino e i nomadi debbano nomadare. Lo confesso e lo ammetto: il diritto di rivendicare la complessità del sapere è senz’altro terribilmente fuori moda nell’epoca della svalorizzazione della conoscenza e dell’indifferenza ai valori cognitivi.

    E tuttavia, anche alla fine continuo a iterare il mio inizio: “controsenso in tangenziale, andiamo a nomadare”.


    1 Si veda l’indagine internazionale del 2013 Adult Literacy and Life Skills.

    2 B. Niessen, “Lo strabismo della pratica culturale contemporanea”, https://che-fare.com/chefare-pratica-culturale-contemporanea/

    3 P. Cervelli, “Politiche della sicurezza e forme del controllo”, Ocula, Agosto 2012: https://www.ocula.it/files/OCULA-13-CERVELLI-Politiche-della-sicurezza-e-forme-del-controllo.pdf

    4 Ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri, 30 maggio 2008, pag. 1.

    5 Cito dai regolamenti dei comuni di Roma e Milano in risposta al testo della Presidenza del Consiglio “Linee guida per l’attuazione delle ordinanze del presidente del consiglio dei ministri del 30 maggio 2008, n° 3676, 3677, 3678, concernenti insediamenti di comunità nomadi nelle regioni Campania, Lazio e Lombardia”

    Note