L’irriducibile Luciano Bianciardi, dimenticato tra gli intellettuali

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    I nostri scrittori nati negli anni venti, gli ultimi a conoscere una canonizzazione non meramente accademico-editoriale, hanno attraversato in poco tempo un numero straordinario di traumi storici e stagioni culturali. Cresciuti tra prosa d’arte e fascismo, adulti tra neorealismo e dopoguerra, sono maturati poi durante il boom, perdendo le speranze palingenetiche della giovinezza. Spesso hanno trasformato le narrazioni degli esordi in levigati apologhi o in ibride, lutulente opere-mostro, invecchiando tra le ideologie antistoriciste e approdando magari a un maneggevole postmodernismo. È una parabola che si può riconoscere in Pasolini, Sciascia, Calvino: cioè negli autori più celebri di questa generazione. Specie il primo e il terzo, in modi speculari, hanno finto di poter guardare la Storia dall’alto, cavalcando le mode anziché subirle, ed elaborando un sistema stilistico onniattrattivo, coerente come un marchio. Eppure nessuno di loro è dotato di una lingua limpida e prensile come l’assai meno noto Luciano Bianciardi.

    rosetta incontro 25 marzo base milano

    Rosetta a Bookpride Intellettuale/Influencer, domenica 25 marzo alle 19.00 con Giulia Blasi, Maria Grazia Giannichedda, Daniele Giglioli, Paolo Nori, Francesco Pecoraro

    Pubblichiamo un estratto della prefazione di Matteo Marchesini a Il cattivo profeta di Luciano Bianciardi (a cura di Luciana Bianciardi) che raccoglie tutte le opere dell’autore grossetano (Il Saggiatore).

    Bianciardi sa cogliere le metamorfosi dell’epoca senza perdere lo sguardo di chi si sente un uomo qualunque tra gli uomini, né si ritiene mai investito d’insostituibili mandati tecnici o sociali. Un amore inattuale per i buoni studi storico-letterari, e una quotidianità vissuta a lungo in cerca di amici fraterni (non di modelli, o alunni, o chierici-compagni illuminati) sono forse i tratti che lo hanno salvato dalle sclerotizzazioni identitarie dei colleghi, e che al tempo stesso hanno determinato la sua incapacità ad amministrare un proprio fruttuoso Ruolo. Così, questo maremmano bizzarro ma attaccatissimo al senso comune è stato prima dimenticato e poi tradito dai volgarizzatori del suo antagonismo. […]

    Bianciardi ha saputo essere l’ultimo custode della più forbita tradizione toscana, senza per questo ridursi a linguaiolo. Ed è stato un «arrabbiato» troppo onesto per posare a beat (anzi, a «bitinicco»). È passato per le stanze del potere con l’estraneità allegra e disperata di chi non sa o non vuole né consolidare la posizione acquisita, né costruirsi un’ideologia in grado di giustificare la cattiva coscienza dell’intellettuale che tira avanti tra scritture semigiornalistiche, diritti e «battonaggio» traduttorio. Perciò ha scontato sulla pelle l’alienazione che molti hanno addomesticato coi sofismi, e ha fatto in pratica quel che altri teorizzavano ma non riconoscevano poi nella sua opera: un’opera troppo letteraria e insieme troppo popolare (cioè «dotta e carognona»), troppo concreta e insieme troppo orgogliosa del suo lessico chirurgico per poter piacere ai maîtres à penser di qualunque specie.

    In fondo, questo ex azionista e distratto fiancheggiatore del pci è rimasto sempre un anarchico socialisteggiante di fine xix secolo, costretto suo malgrado a fare i conti col nichilismo del pieno Novecento. Come i fautori della seconda Internazionale, Bianciardi mantiene un’ostinata fiducia nella buona divulgazione da dispensa diderotiana; eppure non ignora che il sapere moderno si è ormai trasformato in approssimazione da rotocalco, e che gli ex analfabeti assetati d’emancipazione sono già una massa omologata.

    Così, quest’uomo fuori tempo e fuori luogo non può né onorare le sue radici etiche né abbandonarle: e da una tale sfasatura, oltre che da contraddizioni più private, si lascia infine lacerare, consumandosi tra ribellione e pigrizia, tra rimorso e accidia. La sua fragilità e la sua coscienza di provinciale lo costringono a ingaggiare un sempre più mostruoso gioco a nascondino coi progetti di gioventù, e gli impediscono di ideologizzare o di bruciare esteticamente il senso di colpa. […]

    Tuttavia al centro dello sguardo bianciardiano resta sempre la metropoli degli intellettuali, sospesa tra ultima bohème e nuove pseudocompetenze. È la Milano dei pittori e del cabaret, della Casa della Cultura e del Derby, un universo urbano che dietro i primi esperimenti del centrosinistra lascia già intravedere le future frivolezze manageriali dei Larini e dei Cardella. […]

    Nell’Integrazione (dove, come nel Lavoro culturale, Bianciardi si sdoppia nelle figure di due fratelli) il personaggio che sconta più a fondo il nuovo clima è Marcello, uno studioso cupo e astratto, machiavellico e masochista. Autoironicamente, l’autore gli prepara un destino di amara solitudine: Marcello finisce a scrivere pastoni da Reader’s digest, e lo fa con la ghignante efficienza di chi nasconde nella piattezza della prosa «venduta» esoterici messaggi in bottiglia.

    Alla fine lo vediamo preda di una tentazione luddista: come un Rastignac impotente svelle un mattone dal terrazzo, e finge di tirarlo contro la città che si agita lì sotto. Invece il suo erede della Vita agra (un io anonimo e senza fratelli, a fronte di un doppio femminile sempre più marcato) approda a Milano meditando già progetti da bombarolo. Poi però li perde. La verità è che finita l’euforia comunista si ritorna anarchici; ma anarchici sfiduciati, cui resta appena la risorsa dell’inazione: «Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha». […]

    L’integrazione e La vita agra, dove il secco sarcasmo diventa quasi un correlativo dell’aridità e della fatuità del reale, sono libri paragonabili forse soltanto alla Vita operosa di Bontempelli (1921), dove viene notomizzata la Milano del primo dopoguerra. Si tratta di approdi (letterari e geografici) da cui non si può tornare indietro senza apparire nostalgici. La capitale lombarda rappresenta una società mostruosa ma dinamica, mentre Grosseto sembra appena un residuo del passato. Nel romanzo del ’60, prefigurando il destino di quella sinistra umanista oggi sempre più simile a una Lega Centro, Marcello avvisa che starsene in Toscana è troppo comodo: significa rifugiarsi in un’Italia «troppo soddisfatta della sua composta perfezione», che «non riesce a trovare alcun aggancio con quest’altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente […] e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame […] In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più diffcile che la Lucania: perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità […] Sta a noi batterci per il sollevamento, per il risorgimento, diciamolo pure, di questa Italia». […]

    Per concludere, però, vorrei citare da un’altra rêverie fantapolitica del ’68, l’articolo «Marines a Rapallo». Vi si mette in scena uno sbarco statunitense, a ridosso di elezioni sospese tra utopia frivola e incubo grottesco. Il pezzo contiene tra l’altro una perfida parodia della gestualità poetica pasoliniana: «Fra gli uomini di cultura uno dei pochi che prendessero posizione chiara fu il poeta Pasolini, il quale scrisse una poesia sulle tute mimetiche dei reparti sbarcati. “Cari”, cominciava l’ode, “cari ragazzi in tuta mimetica – memoria del rozzo overall – indosso al negro – coglitore di cotone […] Eletta schiera che tre volte – travalicaste l’Atlantico. – Nel diciassette ai tempi – di mio padre tenente – e Pershing v’era guida. Nel – quarantadue ai tempi – di me riformato e vi guidava il grande Ike – whom I like […] Via – dalla porca Italia, che – ai vostri avi terroni – non diede – né pane né – libertà.”

    I commenti furono i più vari, ci furono riunioni in casa Bellonci, Pasolini precisò che la poesia era brutta, ma che andava letta in un’altra maniera. Non disse quale. Se la prese coi quarantenni e passa, i quali profittavano dello sbarco dei marines per rifarsi una verginità ideologica e morale, si ritirò dal Premio Campiello, partecipò invece al Festival di Castrocaro, come paroliere. Poi mi svegliai».

    Un agrodolce risveglio da un agrodolce sonno: due stati di coscienza negati a molti scrittori coetanei di Bianciardi, di lui troppo più noti e strumentalizzabili.


    Pubblichiamo un estratto della prefazione di Matteo Marchesini a Il cattivo profeta di Luciano Bianciardi (a cura di Luciana Bianciardi) che raccoglie tutte le opere dell’autore grossetano (Il Saggiatore).

    Immagine di copertina: particolare copertina La vita agra edizione Bur Rizzoli, 1980

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