L’iperrealtà pandemica: le idee di Jean Baudrillard al tempo del Coronavirus, una conversazione con Vanni Codeluppi

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    Vanni Codeluppi ha scritto diversi libri e insegna Sociologia dei media all’Università IULM. Da esperto osservatore dei rapporti che intercorrono tra individui e società, nel suo ultimo libro Come la pandemia ci ha cambiato descrive i più diffusi approcci che si sono venuti delineando nei confronti del Covid-19, tentando di capire quali possano essere i plausibili scenari del post-pandemia. Le due polarità più estreme sono rappresentate, senza dubbio, da una parte dagli apocalittici, che intravedono nel virus una sorta di preannuncio alla catastrofe, dall’altra dai negazionisti, che invece non credono nella reale esistenza del coronavirus.

    Nel mezzo c’è chi ipotizza una sorta di rinascita culturale e artistica, simile al Rinascimento, dovuta all’investimento di imponenti energie (e risorse economiche) verso settori notoriamente abbandonati, come istruzione, cultura, sviluppo tecnologico. Vanni Codeluppi non è tra questi, dal momento che la sua tesi è molto meno romantica: le potenze neoliberiste faranno in modo che tutto torni più o meno come prima. Ma Codeluppi è anche uno dei maggiori studiosi italiani del pensiero di Jean Baudrillard, il filosofo dell’iperrealtà. Un autore di cui ha curato libri, tradotto scritti e dedicato saggi, oltre ad aver direttamente influito sulla ricezione delle sue opere in Italia. Certamente sarebbe stato interessante sapere come Baudrillard avrebbe letto un fenomeno di portata mondiale come quello del Coronavirus. Abbiamo così provato ad applicare alcuni suoi concetti alla situazione che stiamo vivendo.

    Le grandi multinazionali stanno vivendo un momento storico in cui sono in qualche modo costrette a reinventarsi. Credi che la pandemia sia brandizzabile?

    È chiaro che le aziende sono state messe in grossa difficoltà da questa situazione, soprattutto quelle che non producono beni di prima necessità. Ricordiamo che chi produce prodotti alimentari e gli ipermercati hanno avuto una crescita, ma altre aziende, come quelle del settore moda, che sono meno indispensabili, hanno avuto dei grossi problemi. In qualche modo quindi cercano di inventarsi delle soluzioni. L’altra sera Armani ha fatto un programma di sabato sera che era un pezzo di sfilata, un grande “spottone” di un’ora su Armani e il suo mondo. Questo perché le aziende di questi ambiti meno indispensabili cercano di inventarsi delle forme di promozione. Non cercano di legarsi al Covid-19 secondo me, anzi cercano di fuggire, perché è chiaro che il Covid-19 porta con sé un’idea di negatività, di morte, mentre invece le persone vogliono dimenticare tutto questo al più presto; ma purtroppo non è possibile. Come spesso accade, cercano di attivare questo meccanismo psicologico di rimozione del problema, cercando di fuggirne.

    Credo che le aziende cercano di sviluppare delle strategie nuove, originali, che consentano loro di ricominciare a vendere come facevano prima. Ma è chiaro che la situazione è molto complicata, quindi è difficile capire quanto queste operazioni funzioneranno. Mi sembra difficile dire che il Covid-19 sia un brand, come pure qualcuno fa: io personalmente non ne sono troppo convinto. Di solito un brand è qualcosa che appartiene a un mondo ideale, porta con sé dei valori positivi, o quantomeno seduttivi. Secondo me i brand cercano di scappare dal Covid-19 e di non essere associati a questo mondo. Poi è chiaro, c’è chi produce attrezzature e strumenti per far fronte a tutto questo, ma rimangono eccezioni. Se consideriamo brand i grandi marchi globali, questi cercano di far vedere che si sono adeguati, che hanno usato delle soluzioni per adeguarsi e per dare sicurezza. Il messaggio che tutti devono dare è quello legato alla sicurezza. Un messaggio di umanità che dia l’impressione di essere umani, che faccia capire che il brand abbia capito e condiviso le difficoltà delle persone.

    Come dici anche nel tuo libro, è impossibile prevedere il futuro di questa situazione. Eppure, a intuito e senza sbilanciarti troppo, come immagini il post-pandemia?

    Io credo molto nella lezione della Storia. Quando siamo in difficoltà dobbiamo volgerci all’indietro e guardare quello che è successo prima. E la Storia ci insegna che ci sono state tantissime crisi di questo tipo in passato. Ne siamo sempre usciti, con del tempo, con difficoltà, con impegno, con risorse, però ne siamo usciti. Problemi di questo tipo ci sono sempre stati. I virus esistono in natura e noi conviviamo da sempre con i virus. Poi è chiaro che ci sono virus e virus, ma abbiamo già avuto problemi con dei virus grossi. Basti ricordare la Spagnola, che fu devastante. Gli scienziati dicono che il nostro corpo ha imparato a convivere con i tanti virus che ha incontrato, e quindi, nel corso dei secoli il nostro corpo ha inglobato diversi virus. Pare che almeno circa l’8% del nostro patrimonio genetico sia fatto di virus, o di materiale e cellule che abbiano reagito al virus, quindi è ormai parte della nostra esistenza, del nostro corpo. Oggi abbiamo sicuramente delle strumentazioni, delle tecniche mediche e di ricerche per trovare dei vaccini che non avevamo in passato. Certo, questo è un virus grosso e devastante, quindi è tutto da vedere.

    Ovviamente noi, non possiamo prevedere il futuro, perché questo è un limite che come esseri umani abbiamo, però se guardiamo indietro e cerchiamo di capire quello che è successo nel corso della Storia, sappiamo che ci sono state crisi anche simili a questi, e ne siamo usciti. Quello che possiamo fare è quindi cercare di ragionare su quello che era in corso prima, ciò che era in atto prima della pandemia, e cercare di capire se tutto questo ritornerà. La mia impressione è che in gran parte ritornerà.

    Senza essere catastrofisti, è più facile che succedano cose più brutte per via degli esseri umani, che come sappiamo sono stupidi e amano fare la guerra – considerando anche che oggi ci sono delle armi devastanti. Non credo per colpa del virus succederanno cose più catastrofiche di quante non ne possano fare gli essere umani. Continuerei ad avere più paura di loro, anziché della natura, e quindi in questo caso del virus. Sarebbe più utile ragionare su quelli che sono i nuclei fondativi del nostro sistema economico e sociale, rispetto ai quali non possiamo fare a meno. Spesso si parla del problema della globalizzazione e si dice che, giustamente, sia una delle cause del virus – di questo, come di tanti altri virus. Il virus viaggia grazie alla gente che gira per il mondo, ma possiamo fare a meno della globalizzazione? Io non credo. Altrimenti dovremmo tornare a un’epoca primitiva, pre-industriale. L’industrialismo è ormai fortemente caratterizzato dalla globalizzazione.

    Volevo arrivare proprio alla globalizzazione infatti. Nel tuo libro parli della globalizzazione in questi termini: “La globalizzazione è un’intensificazione delle relazioni economiche e sociali a livello planetario, che si manifesta in conseguenza della crescita di scambi commerciali, culturali e di conoscenze tecnologiche e scientifiche”. Non credi che la globalizzazione sia una di quelle strategie fatali di cui parlava Baudrillard? Dal momento che l’oggetto prende il sopravvento sul soggetto innescando conseguenze totalmente imprevedibili e difficilmente gestibili, la globalizzazione può essere letta in questo modo?

    È difficile rispondere. Senz’altro nei sistemi sociali ci sono degli automatismi. L’organizzazione sociale è di tipo collettivo, composta da ciascun singolo che partecipa a un processo collettivo, ma alla fine il processo collettivo diventa autonomo. Ci sono diversi fenomeni che sono di questo tipo, e la globalizzazione è probabilmente uno di questi. Come lo sono, d’altronde, i fenomeni di moda. Non si sa perché nascono, ma a un certo punto emergono questi fenomeni collettivi che acquistano una loro vita propria e non possiamo che accettarli o rifiutarli: essi esistono indipendentemente dalla nostra volontà.

    Chiaramente con la globalizzazione la questione è più complessa anche perché ha a che fare con gli scambi economici. La nostra società si basa sull’attività economica, quindi questa attività richiede scambi, richiede interazioni con altri popoli e paesi. Purtroppo non ne possiamo fare a meno.

    Baudrillard, specie nell’ultima fase della sua produzione, si è spesso soffermato sull’anestetizzazione dell’individuo. Forse il negazionismo è una derivazione di quel fenomeno…

    Senz’altro c’è una fetta di popolazione composta da negazionisti, ma esistevano anche prima, basti pensare alle questioni dei vaccini. Tuttavia non sono in grado di dire se questo di oggi è un fenomeno più intenso, oppure, più o meno simile a quelli di altri tempi. Voglio dire, c’è sempre stata una componente di persone scettiche che non credevano e non si identificavano nel modello dominante. Anche se la sociologia ci dice che per decenni abbiamo avuto una società di massa – e l’idea che abbiamo è un po’ quella della scuola di Francoforte, cioè, masse di pecoroni che accettano passivamente tutto quanto. Ma questo modello non funziona più, perché oggi parliamo di postmodernità, parliamo di personalizzazione e di tutte queste cose. Sicuramente il mondo dei media di oggi, e quindi soprattutto dei social, ecc…, in qualche modo incentivano l’individualismo. Un individualismo che non disdegna anche posizioni estreme, di odio o di attacco. In sostanza, oggi ci sono degli strumenti che consentono di dare voce a più persone, ma soprattutto di fare più male, di essere più forti e più estremi.

    In realtà tutto questo in qualche modo c’è sempre stato. Pensiamo alla storia dell’anarchismo: gli anarchici facevano attentati, e li facevano già dalla fine dell’Ottocento. Questo è solo un esempio, ci sono stati moltissimi gruppi di persone che non si riconoscevano nella corrente ufficiale e cercavano di esprimere il proprio dissenso, in maniera più o meno radicale.

    Quindi non mi sembra questo un fenomeno nuovo. Certo, è sorprendente il fatto che oggi ci siano molte possibilità di conoscere le cose. Il livello di scolarizzazione è molto alto, quantomeno rispetto al passato, abbiamo a disposizione tutti gli strumenti per approfondire e conoscere le cose. Si sono raggiunti livelli elevati di risultati, in termini scientifici, ad esempio sull’ambiente: è dimostrato scientificamente che esistono una serie di fenomeni critici per il pianeta. La cosa sorprendente mi sembra infatti questa: nonostante l’oggettività di certi fenomeni, esistono persone che non accettano questo tipo di realtà, mentre magari in passato la cosa poteva essere in qualche misura giustificata dalla mancanza di determinati strumenti conoscitivi.

    Una cosa che mi ha impressionato molto in questo periodo, e che Baudrillard aveva ben descritto, è stata la capacità, da parte dei tecnici, di prevedere l’esatto andamento del virus. Mi ha molto colpito come questi fenomeni, pur essendo di una portata così grande e spaventosa, riescano ad essere così pienamente tracciabili, calcolabili e prevedibili.

    Certo, ma questo non dovrebbe sorprendere troppo. Le epidemie sono state tante nel corso del tempo, quindi sono state studiate. Gli epidemiologi sono in grado di ricostruire la curva di evoluzione dell’epidemia. Ad esempio il libro di Vespignani ha un capitolo che racconta molto bene l’evoluzione di questi fenomeni, nonostante il libro sia stato scritto molto prima della pandemia.

    Cosa fanno gli scienziati? Si affidano a dei modelli che sono piuttosto affidabili, quindi riescono a capire come certi fenomeni si comporteranno, o quantomeno come potrebbero comportarsi. Questi sono fenomeni naturali, quindi in qualche modo sono prevedibili perché si sviluppano secondo natura in un determinato modo. I fenomeni umani invece sono imprevedibili, perché l’essere umano è imprevedibile, quindi è molto difficile prevedere quello che succederà nella società. Come reagiranno gli esseri umani a questa situazione? Nessuno lo sa, perché possono esserci risposte diverse a seconda del livello culturale, sociale, di scolarizzazione, ecc.

    Quindi bisogna distinguere tra i fenomeni naturali e quelli che invece riguardano l’uomo. A Baudrillard interessava appunto il fatto che ci fosse questa negatività, questo “Male” – lui lo chiama -, dentro un mondo che apparentemente vorrebbe perseguire il Bene, che promette la felicità e il benessere. Egli si chiede come mai questa iperrealtà esplode periodicamente, a volte anche in forma clamorosa, il Male? Ma chiaramente il suo discorso riguarda la società umana, non i fenomeni naturali. Nella società umana c’è il Male, c’è questa dimensione che noi cerchiamo di nascondere e di non considerare che ogni tanto salta fuori.

    I migliori cervelli del Novecento hanno cercato di capire per quale motivo eventi come l’olocausto e altri stermini siano potuti accadere, dal momento che sono inspiegabili per la razionalità umana. Come mai una società avanzata, come la società tedesca dei primi decenni del Novecento arriva al nazismo? Avrebbero dovuto operare in maniera razionale, eppure a un certo punto è emerso l’irrazionale. Come si fa a spiegare l’irrazionale? È inspiegabile probabilmente. Ma ancora di più, probabilmente è proprio inevitabile, è qualcosa che non possiamo evitare e rimuovere.

    In quello che secondo me resta il suo punto massimo, Baudrillard, in Lo scambio simbolico e la morte arriva a una lunga riflessione finale sulla morte in Occidente. Secondo lui la morte è stata rimossa dalle nostre società e parla di queste pratiche cosmetiche, tipicamente americane, di cancellazione della morte. Pratiche di copertura e di abbellimento della morte. Possiamo anche portare i cimiteri lontano dalle città, chiamare gli ospizi con i termini “case protette” o “RSA”, ma in ogni caso sono spazi in cui chi è destinato alla morte viene confinato. La morte è una cosa che non vogliamo vedere, ma questa esiste, prima o poi salta fuori. È una dimensione tragica della nostra esistenza, ma, Baudrillard sostiene, ineliminabile: fa parte della nostra vita. Il virus purtroppo contribuisce a farci vedere che c’è gente che muore in ospedale e che nessuno può essere lì vicino a confortarlo e a curarlo.

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