Domande aperte sul futuro

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Un umanista che riflette sul futuro potrebbe apparire una bizzarria, nel momento (ed è un momento molto lungo) in cui si pensa il futuro in termini soprattutto tecnologici. Sono dunque costretto a una superficiale quanto noiosa premessa. Però l’avviso ai lettori è: alla fine di questo intervento arrivano gli effetti speciali, cioè le notizie fresche fresche che sono già à la page, le nanotecnologie e l’intelligenza artificiale e i robot e tutto il resto, compresa l’immancambile nevrosi apocalittica.

    Il futuro che è stato pensato, e che spesso si è creduto di vedere, non è stato affatto pensato e tantomeno è stato visto. Perlomeno ciò è vero per quanto concerne coloro che, nel comparto occidentale, si sono considerati o sono stati stimati come filosofi. Non parlo di scrittori, genia di cui faccio apparentemente parte, o di artisti di vario genere: dico proprio i ilosofi, coloro che pensano il mondo e lo spazio e il tempo e l’essenza o le essenze. Parrebbe in ogni caso una affermazione provocatoria, oppure secondaria, soprattutto se qualcuno guardasse alla cosa con le lenti del nostro presente.

    Quale nostro presente? Si è del tutto d’accordo che viviamo un presente. Soltanto in termini di astrazione, che è stata spesso classificata appunto come “filosofia”, si può obiettare alla questione del presente storico. Eppure qualcosa è successo, sempre nel dipartimento occidentale, se si domanda cosa sia presente, che so?, da un punto di vista economico.

    Precisamente: quando sarebbe iniziata l’economia dei derivati? Un italiano che ha vissuto gli anni Settanta si rendeva per caso conto davvero che si stava in un presente di ordine finanziario e non semplicemente economico? Qualcuno a dire il vero lo diceva, e si applicava anche più che a dirlo, però la norma comune qual era? Quella di vivere in un presente dominato dall’economia cosiddetta produttiva (o “reale”, secondo il gergo allucinatorio che domina qualunque presente) oppure da un’economia di pura speculazione? Si tratta tra l’altro di due forza separate? E dal punto di vista religioso come stavano le cose? Io sono cresciuto non battezzato, in un’Italia irretita dal conato ipocrita che alcuni bollarono come borghese (con tutte le varianti del macro e del micro). Pareva un’immensa platea pretelevisiva che televisionava il simbolo religioso, cioè lo guardava senza contatto perlopiù. Che Dio italiano era quello cattolico ad altezza dell’omicidio di Aldo Moro? E quello attuale? “Attuale” in che senso? Si ha in mente un’attualità precrisi o dopocrisi? Predigitale o digitale?

    Per quanto noiosa e molto superficiale, la premessa serve per dire in maniera vaghissima, nondimeno per nulla confusa nelle intenzioni, che la linearità e la stabilità del presente storico è una categoria abortita almeno da inizio Novecento. Avranno avuto dunque ragione i filosofi che hanno incentrato il discorso sulla tecnica, sulla velocità, sull’abbattimento delle barriere tra simulazione e supposta realtà? No. Ecco un vantaggio ermeneutico del presente in cui siamo immersi: si può rispondere negativamente alla domanda. E non per un puntiglio generazionale (anche qui: a questa altezza temporale, sappiamo cosa significa “una generazione” o per caso si tratta di una categoria che non cattura il tempo e non ha prensione sul mondo della vita, della nostra vita?). Si può dire che coloro che hanno visto una “svolta” in termini di accelerazione non erano filosofi per nulla: erano sociologi e futurologi, che hanno meditato sulla “essenza” o sui processi in modo non filosofico. Nessuno di loro ha comunque colto il sintomo fondamentale, che consiste nella nebulizzazione del testo.

    La lettura del mondo come testo, l’orientamento nel gran libro del mondo, lo spazio letto come àmbito testuale, e il tempo pure, e la memoria come attività testuale e l’essere qui a questo mondo come quintessenza di una testualità meno divina che umana: si è fatto e visto di tutto in nome del testo, anche quando lo si disarticolava o si cercava ciò che al testo era estraneo. Leggibilità dell’immaginario, della storia, del pianeta, anche quando si allargava lo sguardo al cosmo e alle origini del cosmo: sono tutte relazioni con la testualità. Sembra di giungere in queste osservazioni al livello di un bignami erroneo e cialtronesco: ecco un’osservazione testuale, che fa conto su un canone sia storico sia qualitativo. L’impressione generale, nel gregge occidentale, almeno in quello autodefinitosi “umanistico” è proprio la perdita di riferimento al canone, cioè al protocollo di leggibilità della storia secondo insegnamenti che risalgono a volte a Hegel, altre volte a San Tommaso, altre volte ancora ad Aristotele. E’ tale, la rilevanza del fenomeno, che perfino a livello letterale si manifesta la delusione per la testualità che se ne è andata: non si legge abbastanza, non si legge più come prima, le giovani generazioni (ancora questa chimera…) non leggono affatto.

    Una specola possibile da cui guardare al movimento in cui siamo immersi è proprio quella che ravvede ne tempo la frenesia aumentata nell’impatto che le tecnologie sortiscono di anno in anno. Il digitale è una buona parabola, quindi una buona testualità, per dirsi che è così. Nel 1992 giravo per Milano come un cretino, lavorando in nero per un’emittente privata che pretendeva la reperibilità e mi aveva fornito di una valigetta esoterica, una miniventiquattrore pesantissima e un po’ lugubre, contenente un telefono portatile. Era evidente che quell’apparecchio si sarebbe rimpicciolito nel corso degli anni, tendendo a entrarmi nel corpo.

    Infatti è accaduto. C’è chi considera un’epopea questo automatismo che è imbecille ma non imbelle: in venticinque anni “grazie al digitale” si sono mutati i costumi occidentali – e occidente non è per nulla un’esclusiva di ciò che sta a ovest di Milano e, quand’anche lo fosse, Pechino sta comunque a ovest di New York e quindi di Milano: sembra un’approssimazione al claim da start-up, ma la questione è ben più profonda. Non mi pare per nulla eroico un’epoca che assiste al proprio eroismo, mettendoci al massimo un po’ di stress postraumatico per via del difficoltoso adattamento, per non parlare dei tumori che ha affrontato causandoli e dei chilioni di chili di carne umana fresca che ha macinato, pur di vivere distrattamente l’eventuale cifra eroica del tempo di cui è stata protagonista.

    Che lo strumento chiami da sempre la mano è un’ovvietà di base, che i filosofi hanno avuto tempo e voglia di verificare in ogni modo. Si potrà dire forse che il tempo vissuto in questo quarto di secolo è stato il momento in cui è emersa la possibilità che le macchine ce la facciano da sole, che gli algoritmi si verifichino nella prassi, in evidente continuità evolutiva con i calcoli più letali e salvifici, comunque assai pragmatici e che qualcuno ha verificato per tutti noi: da quelli di Enrico Fermi a quelli di Marie Curie, per scomodare due simbologie storiche.

    Ciononostante la coscienza resta l’inconosciuto, mentre per i padri dell’intelligenza artificiale essa è scontata, al punto che essi si muovono e teoricamente e praticamente (questa distinzione salta nel futuro presente che l’occidente va a vivere) su una funzione della coscienza, che è per l’appunto l’intelligenza. L’intelligenza può essere non umana. Questo è oggi accettabile, lo era meno qualche decennio fa. C’è un’ulteriore tappa da doppiare, che è quella dell’autoconsapevolezza dell’inorganico, la quale viene commisurata con l’autoconsapevolezza umana, in un altrettanto ulteriore equivoco che presto sarà, se non sciolto, comunque superato, scavalcato o aggirato.

    Sempre nella prospettiva dell’accelerazione tecnologica, la panoramica del presente risulta apprezzabile se si guarda all’innervamento di potenze, più che discipline, che sono configurate per l’umanità attuale come genetica, robotica e nanotecnologie. Converrà utilizzare da queste materie, che sono appunto potenze, un’immagine che può fare comprendere cosa e come sta venendo toccato in questo tempo. Una volta la si sarebbe detta una metafora. Però che metafora è, se essa è letterale?

    L’editing molecolare attraverso enzimi o con uso di nanobot rischia di superare del tutto la questione dei funzionamenti di base di processi biologici: servirà comprendere davvero come funziona il nostro sistema immunitario, che è una delle porte strette attraverso cui passare per un mondo rifatto, come quello che prevede, o più precisamente si auspica, chi da decenni si occupa della convergenza disciplinare e dell’accelerazione infinita? Gli entusiasti della “singolarità”, per esempio, ritengono che già ci si debba preoccupare di ben altro tipo di sistema immunitario. È il sistema immunitario della realtà materiale, riconfigurata nelle molecole dai nanobot, il quale passo sembra profilarsi nel momento in cui si tenti di espandere il supporto fisico che serve per il calcolo di un’intelligenza non umana. Dicendola in modo molto grossolano: la materia in cui viviamo potrebbe venire educata a compiere i conti che servono per un’intelligenza artificiale espansa.

    Una simile previsione non è a breve e non è nemmeno realistica, al momento; tuttavia è educativo pensarci. I rischi del passaggio a una singolarità su basi nanotecnologiche e di intelligenza artificiale sono più alti di quelli presentati attualmente da fisica e ingegneria genetica. L’utilizzo massivo dei nanobot presuppone, allo stato attuale delle conoscenze tecnologiche, un’autoproduzione da parte dei nanobot stessi. Ne servono troppi perché l’umano riesca a produrli. Non si tratta qui dell’utilizzo che serve all’umano per questioni fisiologiche (cure mediche, mantenimento del corpo, risoluzione del problema alimentare), bensì della collaborazione tra nanotecnologia e intelligenza artificiale “forte”, ovvero quella che sorpassa quantitativamente e qualitativamente l’umana. Lo scenario, evocato ormai da molti decenni da parte dei fondatori stessi della nanotecnologia, viene denominato “grey goo” (“poltiglia grigia”). Per fare funzionare i nanobot, cioè i robot molecolari, bisogna produrne a miliardi.

    La tecnologia produttiva converge con l’intelligenza artificiale. I nanobot saprebbero autoreplicarsi, andando a utilizzare carbonio. Ciò significa che destrutturerebbero la materia per replicarsi, utilizzando il carbonio presente nella biomassa terrestre: una forma biologica verrebbe “sciolta” e ricomposta in un cumulo di nanobot. I nanobot sono sotto controllo, ma è possibile prevedere un margine d’errore e l’apparizione di quello che viene definito “nanobot malevolo”: in pratica, l’autoreplicazione dei nanobot va fuori controllo.

    I ritmi di questa autoreplicazione? Il pioniere delle nanotecnologie, Eric Drexler, così li descrisse nel suo “Engines of Creation”, che risale al 1986: “Immaginate un tale replicatore (nanobot a sintesi di carbonio: prende carbonio dalla natura che ha attorno e, destrutturando le molecole, le ricompone in nuovi nanobot) che galleggia in una bottiglia di sostanze chimicamente adatte, facendo copie di se stesso. Il primo replicatore assembla una copia in mille secondi, i due replicatori costruiscono altri due replicatori nei successivi mille secondi, in quattro si replicano in altri quattro, e gli otto costruiscono altri otto. Alla fine di dieci ore, non ci sono trentasei nuovi replicatori, ma oltre 68 miliardi di replicatori. In meno di un giorno, peserebbero una tonnellata circa; in meno di due giorni, sopravanzerebbero la massa terrestre; in ulteriori quattro ore, supererebbero la massa del Sole e di tutti i pianeti del sistema solare”.

    Poiché la biomassa è distribuita casualmente e non secondo efficienza, i replicatori nanotecnologici verrebbero arrestati nel loro sviluppo, secondo ritmi che determinano fasi più o meno lunghe, ma comunque irrisorie nel considerare che verrebbe “sciolta” l’intera massa organica del pianeta. Ecco lo scenario di un’immane “poltiglia grigia”: la quale è un’immagine unicamente evocativa, creata per comunicare il senso di una infestazione molecolare che sopravanza l’organico. Drexler aggiungeva nel 1986 che “i primi replicatori basati sugli assemblatori potrebbero battere gli organismi più moderni e avanzati. ‘Piante’ alternative con ‘foglie’ inorganiche, non più efficienti delle celle solari oggi disponibili, potrebbero competere con piante reali, affollando la biosfera con un fogliame immangiabile. ‘Batteri’ inorganici onnivori potrebbero entrare in competizione i batteri reali: essi sarebbero in grado di diffondersi come fa il polline, replicarsi rapidamente, e ridurre la biosfera in polvere nel giro di pochi giorni. Abbiamo già abbastanza problemi a controllare virus e moscerini della frutta”.

    Questa immagine apocalittica è un’ulteriore testualità, che è utile a mettere in luce fino a che punto viene toccato il fenomeno biologico: la biologia non era l’unica biologia possibile. E cosa sarebbe dunque il “bios”? In quale senso rimbalza su ciò che fu l’umanesimo, o addirittura sull’umanismo, questo scenario che ho qui utilizzato emblematicamente? Quale attrito di senso deve sopportare chi, come me, si occupa di testo? Quali configurazioni della pensabilità possiamo vedere all’orizzonte? Si tratta di uno tsunami di ordine nichilistico? Oppure di una linea di fuga verso un luogo e un tempo in cui tutto può stare? Si apre un ordine politico imperniato su una simile accelerazione? Viene trasformato il protocollo economico? Sono toccate le essenze?
    Sembrano domande aperte e lo sono davvero, se soltanto ci si rende conto che si tratta delle medesime questioni poste da Dante Alighieri nella Commedia.

    Note