Il Tippe Top Design: uno strumento per la progettazione nel XXI secolo

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    L’incontro tra la riflessione teorica del testo Fragile (F. Monico, Meltemi, 2020) e la metodologia sistemica BIP – Brand in Product (Datti – Rullo), ha prodotto il metodo del Tippe Top Design, ovvero una progettazione fondata sulla rivoluzione dell’immaginario. Oggi l’asse dell’immaginario è in precessione rispetto all’asse della tecnica, dalla quale desumiamo i nostri bisogni, desideri e aspettative. Tanto più utilizziamo i dispositivi tecnici tanto più tale precessione ci impedisce di cogliere i mutamenti e si rafforza. Per questo non dobbiamo più risolvere il problema all’interno delle condizioni poste dal problema stesso ovvero in maniera convergente, bensì analizzare e progettare in maniera divergente, oltre le condizioni poste dallo stesso problema, che vuol dire allargare la gamma di soluzioni possibili generando idee senza timore e restrizioni. La cultura umana è fondata su significati che per essere ritenuti veri devono essere condivisi, partecipati da almeno (per convenzione) 50 milioni di individui; questo fatto implica una sistematica obsolescenza dell’immaginario, poiché per poter raggiungere un tale numero vi è necessità di un ampio lasso di tempo. Ma compreso ciò, allora abbiamo un metodo per aggirare tale limite e invertire il punto di vista. Oggi nel XXI secolo dobbiamo pensare il mondo non con lo sguardo rivolto al passato ma con lo sguardo proiettato a un contemporaneo che ancora non è dato. Il Tippe Top Design è fondato proprio sullo sforzo di vedere le cose da punti di vista opposti, secondo la logica che dobbiamo uscire da un immaginario obsoleto nel quale siamo immersi e porci nelle condizioni di agire un sempre e comunque nuovo XXI secolo. È un artificio progettuale-percettivo che ha lo scopo di far uscire il designer “dall’automatismo della percezione”. È un volontario smarrimento del progettista, il cui scopo è quello di abituare il soggetto a un’apertura mentale verso nuovi, inattesi ed estranianti aspetti di un progetto. È un training che consente nuove percezioni ed esperienze estetiche attraverso cui i soggetti e gli oggetti si riconfigurano. La progettazione diviene quindi l’occasione per una trasformazione anche politica del designer che si dota così di una nuova consapevolezza. 

    Keyworld: socially engaged design, design sistemico, design dell’immaginario, ventunesimo secolo, antropocene, capitalocene, ecologia, progresso, sistemi complessi, accademia di belle arti, fragile, bip, trottola, spin, precessione, sindrome dello specchietto retrovisore, leggi dei media, thinking outside the box, effetto eureka, momento Aha!, uncanny valley, pensiero divergente, decostruzione, interferenza culturale, brand activism.

    ***

    Premessa

    Noi siamo docenti ISIA Roma Design (ISIA è l’acronimo di Istituto Superiore per le Industrie Artistiche), istituzione del comparto AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale) del MUR (Ministero Università e Ricerca) italiano, con sedi a Roma e a Pordenone. È il primo istituto universitario pubblico di Design in Italia, ideato da Giulio Carlo Argan nel 1973 e formalizzato nel 1977 sulla base di una vecchia legge del Ministro dell’Università e Istruzione Giovanni Gentile. Da oltre 45 anni ISIA Roma Design forma i futuri professionisti attraverso un modello didattico sperimentale unico, premiato con due Compassi d’Oro, e una costante ricerca con aziende e territori.

    Circa un anno fa nel giugno 2020, l’editore Meltemi di Milano ha dato alle stampe il testo di Francesco Monico, Fragile – Un nuovo immaginario del Progresso, un saggio di filosofia della tecnica ma anche di theory, ovvero che ibrida filosofia, antropologia, narratologia, psicologia e anche un po’ di ‘fiction’. Il sociologo dei media Derrick de Kerckhove (Il Manifesto, settembre 2020) lo ha definito un’opera che suggerisce di reintrodurre l’immaginario nell’arena delle forme di pensiero utili, poiché esso diventa un requisito per non rimanere prigionieri del pensiero tecnico. La semiologa Gianna Angelini su Agenda Digitale (ottobre 2020) arriva a sostenere che per elaborare contro-immaginari il valore dei riferimenti non è dato dalle realtà in sé, ma dalla chiave di lettura alternativa che questi stessi contro-immaginari offrono. Quindi Giorgio Cipolletta dalle pagine proprio di cheFare (L’epoca dell’Homo Fictus, perché l’essere umano esiste per generare esperienze immaginarie, marzo 2021) scrive che Fragile è un archivio aperto, un atlante ‘quasi-warburghiano’ che ci aiuta a capire il futuro per interpretare il presente. 

    L’opera è stata adottata come testo del corso di Linguaggi Multimediali del corso di product design triennale che si tiene annualmente a una settantina di studenti del secondo anno dell’ISIA Roma sede decentrata di Pordenone. È un corso di teoria ma tutti assieme, docente e discenti, sperimentano, lavorano, studiano, teorizzano, come in un laboratorio di ricerca, un work in progress aperto tra docenti e discenti, da autori della theory e del design.

    Massimiliano Datti da più di un decennio lavora su una metodologia denominata “BIP, Brand in Product”, il cui approccio teorico è stato pubblicato nell’omonimo libro nel 2016 Brand in Product: a cura di Massimiliano Datti e Mario Rullo, con Marco Ripiccini, edizioni ISIA Roma Design 2016, e consiste nell’orientare la progettazione di prodotto verso una specifica brand value. Ulteriore caratteristica della metodologia BIP è quella di “stimolare” efficacemente innovazione tipologica di prodotto, previa analisi dei sistemi in cui il brand specifico opera e la successiva elaborazione di strategie progettuali “aperte”, visualizzate attraverso strumenti di infografica. BIP ha origine da un incontro, quello fra il Prof. Datti e il Prof. Rullo, quest’ultimo Coordinatore del biennio in Design dei Sistemi – Indirizzo di Comunicazione dell’ISIA di Roma. Massimiliano Datti è stato Lighting Designer e Manager per multinazionali del settore illuminotecnico, fra cui spicca l’azienda tedesca ERCO Lighting.

    Questa esperienza professionale gli ha permesso di confrontarsi con gli studi di progettazione di Brand, facendo maturare in lui la profonda consapevolezza che il prodotto senza un Brand che lo contiene, non è, non vale, non dice nulla. Le agenzie di comunicazione adottano le varie declinazioni tecniche del branding un pò ovunque per il mondo. Corsi di formazione si sono specializzati e diffusi specificatamente in questi ambiti. Tutti però impostati prevalentemente dal punto di vista della comunicazione. Il Prof. Rullo si occupa proprio di questo. L’incontro tra questi due docenti e professionisti ha permesso di immaginare un diverso approccio, in cui i brand vengono analizzati come sistemi organici che interagiscono fra loro, dentro svariati sistemi complessi. L’analisi di questi sistemi (approccio basico del Design dei Sistemi), permette l’elaborazione di strategie operative complesse, in cui la progettazione di prodotti, servizi, comunicazione, viene “tecnicamente” sviluppata in maniera integrata e decisamente più persuasiva ed efficace. In questi sistemi i Brand così concepiti e organizzati hanno la forza e l’agilità di imporsi sul mercato, influenzandone in maniera sostanziale i comportamenti individuali e le ricadute sociali, i linguaggi, i consumi, definendo e condizionando l’Immaginario collettivo, l’idea di progresso e di sviluppo, piegandolo necessariamente alle proprie finalità ed esigenze, tecniche, economiche, finanziarie.

    Meditando su questa efficacia tecnica, sulla sua persuasività, sulla sua seducente bellezza, sulla sua capacità di tranquillizzare – almeno per il tempo che intercorre fra un acquisto e il successivo-, ci si trova a riflettere sul perché tutto questo ha effetto e su quali siano le conseguenze di una disciplina così persuasiva, nel momento in cui viene usata solo per indurre al consumo e non utilizzata per un reale miglioramento della società e del pianeta. La considerazione cui Datti è arrivato, forse semplicistica ma immediata, è che “Dio è morto e il vuoto che ha lasciato lo abbiamo riempito di Brand”. Siamo diventati così schiavi di marche e dei relativi prodotti. I Brand possiedono il nostro immaginario mentale. Acquistiamo prodotti di Brand ancor prima che vengano concepiti. Quanti di noi, entro massimo tre anni, compreranno il prossimo smartphone Apple, pur non essendo questo ancora sul mercato? Nel frattempo però, con questa fame d’acquisto perenne, abbiamo fragilizzato il nostro pianeta e le molte vite che contiene oltre quella umana. 

    Queste considerazioni si trasformano in Socially Engaged Design nel momento in cui il BIP-Brand in Product incontra la speculazione di “Fragile”, innescando la domanda: e se per de-costruire e ri-costruire un nuovo immaginario per il XXI secolo usassimo le tecniche sistemiche di BIP, applicandole non più ai prodotti, bensì alla società stessa? E se costruissimo strumenti strategici di pubblica utilità, per aiutare la società e la politica che la governa a recuperare lo scempio che il passato immaginario del progresso ha prodotto, recando danni al pianeta e ai suoi abitanti tutti, in parte già irreversibili? Il Design dei Sistemi ha la capacità di decifrare la complessità e di ideare soluzioni aperte e resilienti. Gli stessi linguaggi e le tecniche di progettazione, che ci inducono a consumare compulsivamente, possono guidare la società a prendere coscienza e a cambiare i propri modelli di vita. Occorre un’inversione urgente, perché il tempo a nostra disposizione è scaduto e le conseguenze potranno essere drammatiche per tutti gli abitanti del pianeta Terra, uomini, animali o specie vegetali che siano. Siamo tutti insieme sulla stessa barca alla cui guida però ci siamo posti noi, dopo aver scalzato la natura.

    Attorno a questo work-in-progress si è iniziata a percepire la volontà di testare un percorso sperimentale di Socially Engaged Design ispirato, influenzato dal testo Fragile e dalla metodologia BIP. L’esperienza didattica suggerisce che il punto delle nuove generazioni, specificatamente gli allievi del corso triennale in Design, sia in sintonia con quello espresso nell’opera citata: decostruire e ricostruire l’immaginario, ovvero cambiare punto di vista. In questo gruppo di docenti e discenti è nata così l’idea di un seminario + workshop che si poneva l’obiettivo di lavorare su “Il ruolo politico del design sistemico nella società contemporanea”. (settembre 2021)

    Siccome il modello formativo ISIA è funzionalmente caratterizzato da un corpo studentesco selezionato e motivato, che garantisce efficienza e rendimento, e da un corpo docente costituito da professionisti selezionati, oltre che sulla base del piano degli studi, rispetto alle esigenze emergenti della didattica, della produzione, dalla diffusione di nuove tecnologie, dalle mutazioni sociali, quindi in grado di adeguarsi rapidamente alla domanda di nuovi profili professionali, è stato semplice per Massimiliano Datti trovare in Diletta Damiano, neo diplomata in Design dei Sistemi con Indirizzo Comunicazione, con una tesi sulla partecipazione politica, quella figura con cui costruire lo storytelling visuale del workshop e soprattutto sviluppare la comunicazione del lavoro affrontato, di natura profondamente sistemica. 

    È così nato nel dialogo e nel confronto spontaneo tra Francesco Monico, docente di Filosofia della Tecnica e di Multimedia Design, Massimiliano Datti, designer e docente di Design specializzato sul Product e sul Brand e la designer della Comunicazione Diletta Damiano, un progetto di Design dell’Immaginario, che ricercava e proponeva un approccio sistemico per affrontare la fragilità contemporanea. Facendo tesoro della lunga esperienza di Massimiliano sul branding applicato alla progettazione di prodotto, utilizzando come sfondo culturale i dati e le nozioni espresse nel testo Fragile, ha preso forma una sperimentazione accademica, che faceva in tempo reale ricerca strategica applicata, prototipata in modelli grazie alle mappe visuali di Diletta. 

    La visualizzazione

    La visualizzazione costituisce una forma di comunicazione importante per la trasmissione di informazioni complesse. L’organizzazione logica e semantica unitamente alla progettazione visuale permette di avere una visione d’insieme dell’informazione complessa, una lettura d’insieme in grado di indicare relazioni e gerarchie oltre a consentire una lettura non lineare. 

    Il progetto Laboratorio Politico Cartotecnico, sviluppato da Diletta Damiano in seno all’ISIA di Roma nel 2021, è un progetto editoriale e laboratoriale finalizzato a favorire nei cittadini la ricerca della consapevolezza e di comportamenti partecipativi per migliorare il contesto democratico del Paese. La ricerca, le strategie per il coinvolgimento e la progettazione delle interazioni e della fruizione visuale, proprie del progetto, sono state spunto per immaginare nuove strade progettuali volte al cambiamento e al coinvolgimento.

    Un nome

    Quindi fu una telefonata durante il salone del mobile di Milano 2021 a definire e sintonizzare il macro titolo del corso, che ne avrebbe specificato lo scopo e il metodo. L’idea era venuta a Massimiliano, ispirata a suo dire da un oggetto acquistato in oriente anni prima, un oggetto che lo aveva incuriosito e che lo forzava a dare una collocazione pratica a tale curiosità-intuizione. Infatti nel 2019 a Taiwan aveva acquistato una trottola ribaltina, meglio nota come trottola Tippe Top.

    La trottola 

    La trottola è un giocattolo a forma di cono con una punta resistente a una estremità, tradizionalmente misura circa da 4 a 6 centimetri di altezza e il suo diametro massimo diminuisce gradualmente. Ne esistono vari tipi: la “tedesca” che ha una rotazione molto prolungata e ronzante, la “cuspe” a cui manca la punta, la “tagua” che presenta una punta appiattita, la “cucarro” che ha una punta acuminata e ruvida, la “sedita” la cui punta incrociando l’asse centrale rende il movimento molto fluido, e la “cascareto” il cui movimento è irregolare e persino imprevedibile in quanto il ferro non è in linea con l’asse centrale della cima. Esiste poi la trottola Tippe Top, che ha la capacità di capovolgersi completamente, per spostare il suo punto di rotazione dal puntale sferico al codolo di rotazione.

    Lo spin

    Tutte le trottole sono caratterizzate dallo ‘spin’ ovvero dalla rotazione che è esempio e modello di qualche cosa molto presente nella società contemporanea governata dallo spinning, ovvero dalle tendenze di una gestalt culturale sempre più affidata ai media. Spin è termine usato nel gioco del baseball o del cricket per indicare il moto rotatorio o l’effetto impresso alla palla dal lanciatore: di qui il senso figurato di presentazione di una informazione in un particolare modo o prospettiva, specialmente favorevole. Ma lo spin è utilizzato anche nella fisica della materia ed è definito una forma di momento angolare che descrive la rotazione di una particella fisica intorno al proprio asse (viene anche definito come momento angolare intrinseco). Ovvero è un costituirsi dell’oggetto fisico e dei suoi effetti fisici ed è legato a un altro termine-processo quello della precessione. 

    La precessione

    In fisica tale termine indica il cambiamento della direzione dell’asse di rotazione di un corpo in movimento rotatorio: se l’asse di rotazione di un corpo sta ruotando attorno ad un secondo asse si dice che quel corpo è in precessione rispetto al secondo asse. E proprio sul retro di copertina di Fragile vi è la dichiarazione che “Ogni epoca possiede un immaginario, che è un sistema valoriale capace di stringere le persone attorno a vincoli che nessuno ha il coraggio di negare, pena l’estromissione dal corpo sociale. Ma oggi l’asse dell’immaginario umano è in precessione rispetto all’asse della tecnica, dalla quale desumiamo i nostri bisogni, desideri e aspettative. Tanto più utilizziamo i dispositivi tecnici tanto più tale precessione ci impedisce di cogliere i mutamenti e si rafforza”. 

    La sindrome dello specchietto retrovisore

    L’immaginario comune delle persone è ancorato a un immaginario passato secondo quella che il critico letterario e sociologo della tecnica Marshall McLuhan definì con una definizione british-pop come “sindrome dello specchietto retrovisore” (“Rear View Mirror Syndrome”); indicando il fatto che il vecchio “medium” costituisce sempre il contenuto del nuovo, quindi essendo gli studenti di design tutti rivolti al passato perché immersi in un immaginario obsoleto. Essi (gli studenti) sono troppo intenti a guardare indietro, al XX secolo, senza accorgersi del presente e del cammino che stanno facendo verso un nuovo XXI secolo che non è detto sia solo migliorativo. Cosa e dove stanno guardando i loro occhi? È una vera e propria sindrome l’ossessiva coazione di guardarsi alle spalle. Come Narciso, il retrovisore è lo specchio d’acqua nel quale si riflette l’immagine, di cui ci si innamora perdutamente senza poterla mai amare. Oggi a causa della crisi climatico-ecologica il pianeta è in fiamme, andiamo a tutta velocità verso il futuro come abitanti di una astronave alla deriva nello spazio, col rischio di finire dentro un buco nero. Ovvero operiamo la ricostruzione storica non come indagine sul mondo che abbiamo perso, ma come necessaria evoluzione di quello che abbiamo costruito. E, guardando dall’oblò posteriore dell’astronave proviamo a dare un senso alla rotta, anche quando un senso non c’è più! 

    Per evitare la “sindrome dello specchietto retrovisore” ecco che dobbiamo invertire gli immaginari e per farlo dobbiamo riuscire a far fare uno spostamento di sguardo (e pensiero) agli studenti così, seppur sembrando che nulla sia cambiato, poiché l’individuo è saldo e centrato, tutto è cambiato perché lo sguardo è nuovo e contemporaneo. 

    Il Tippe Top Design

    Per figurare ciò e costruire una reale ‘teoria’ l’ispirazione è giunta dalla trottola Tippe Top, e ha spinto il gruppo di lavoro a teorizzare e immaginare un Tippe Top Design. Nella trottola Tippe Top, a differenza delle trottole “normali”, alle forze di precessione dovute alla gravità si aggiungono gli effetti legati alle forze di attrito, infatti quando la trottola si capovolge, ruota più lentamente, perché parte dell’energia del moto rotatorio è stata utilizzata per innalzare il baricentro. Quindi la differenza di momento angolare viene assorbita dall’“universo”, cioè dal pavimento, fonte della forza d’attrito. Così l’asse di rotazione della Tippe Top non è fisso, ma libero. Per questo motivo il capovolgimento della trottola gira nello stesso senso, per l’osservatore esterno, ed in senso opposto per lo gnomo all’interno. 

     Comprendere bene la meccanica della Tippe Top non è affatto semplice: in Svezia nel 1952 i due fisici Wolfgang Pauli e Niels Bohr si misero a osservare con perplessità lo strano comportamento della magica trottolina. Il rovesciamento della trottola tip top è provocato da una velocità di lancio angolare sufficientemente elevata per innescare un’energia che attiva il rovesciamento (per chi fosse interessato in fisica il fenomeno è legato all’integrale di Jellet).

    L’interesse verso la trottolina Tippe Top, oggi reperibile nei negozi di giocattoli, sta nel fatto che il suo comportamento sembra, a prima vista, violare le leggi della meccanica. Dopo essere stata ‘spinnata’ in rapida rotazione nella sua configurazione di equilibrio a riposo (con il codolo in alto), la trottola attua un progressivo abbattimento dell’asse di figura, finché il codolo inizia a strisciare sul piano d’appoggio; dopodiché la trottolina si rizza verticalmente sul codolo stesso e continua a ruotare stabilmente in tale configurazione. 

    Da qui nasce la teorizzazione del Tippe Top Design, ovvero di un particolare metodo di progettazione che si occupa di far cambiare punto di vista nell’osservatore-progettista, il che equivale a dire che il progettista, sia esso un senior designer che uno studente, deve mutare il proprio immaginario in modo da attrezzarsi per affrontare il XXI secolo. Laddove lo gnomo interno della trottola è la configurazione dello sfondo degli effetti, la realtà di un presente che normalmente non ci è dato percepire, poiché immersi nella narrazione culturale condivisa e quindi sempre obsoleta. Di fatto il Tippe Top Design è un design dei sistemi radicale che ribalta i punti di vista e cerca di essere ri-voluzionario, ovvero di invertire il punto di vista sulle cose aggiornandolo.

    Pensare fuori dagli schemi

    È vero che ci sono stati tutta una serie di approcci e teorizzazioni della progettazione su punti di vista alternativi alla cultura tradizionale. Iniziamo con il Thinking outside the box, una metafora che significa ‘pensare in modo diverso’, non convenzionale o da una nuova prospettiva. Quindi l’effetto eureka, noto anche come momento Aha! riferito all’esperienza umana comune di comprendere improvvisamente un problema o un concetto precedentemente incomprensibile. E quindi il pensiero laterale ovvero un modo di risolvere i problemi utilizzando un approccio indiretto e creativo attraverso un ragionamento che non è immediatamente ovvio. E infine il disruptive, parola che è sempre più presente nei convegni, nelle presentazioni, nelle conversazioni legate al design e al contemporaneo. Il significato è «rottura» e indica cambiamenti repentini che portano a modi nuovi e differenti rispetto al passato di fare, pensare o interpretare ciò che ci circonda. Il termine è oggi spesso collegato all’innovazione e al mondo del design digitale. Il tutto porta o già si trova nell’uncanny, che vuol dire perturbante, tutto ciò che si presenta come estraneo e non familiare, e che diventa Horror Philosophy generando in noi angoscia e terrore, e la cui origine si connette, contraddittoriamente, a ciò che ci è già noto da lungo tempo.

    Il pensiero divergente

    E quindi il Tippe Top Design indica una nuova postura mentale di immaginazione-progettazione fondata sul pensiero divergente, ovvero sulla soluzione del problema in maniera contro-intuitiva e fuori dagli schemi posti dal problema stesso. Il pensiero divergente è un tipo di pensiero tipico del pensiero artistico-critico che coincide con la capacità di produrre risposte che siano allo stesso tempo originali, inusuali e efficaci in relazione ad un determinato compito o problema. È strettamente correlato alla creatività, e non meramente correlato con l’intelligenza razionale o storica. Si giustappone al pensiero convergente che è invece caratterizzato dalla capacità di produrre risposte basate sulle regole di inferenza logica e di conoscenze precedentemente apprese, nonché sulla base di strategie precedentemente impiegate. Il Tippe Top Design è quindi fondato sull’originalità, ovvero sull’attitudine a formulare idee uniche e personali, differenti da quelle prodotte dalla maggioranza.

    Il designer e il pensiero democratico

    Ogni cittadino, in quanto tale e in base alla propria capacità, possibilità e vocazione, è tenuto a essere parte attiva della società democratica. Il designer, poiché cittadino e in quanto progettista, può dare un contributo importante alla società e alla vita democratica coinvolgendo, comunicando, informando, progettando prodotti, contesti, modalità di incontro, interazione, relazione e intervento che favoriscono la diffusione di comportamenti e di una cultura volta al cambiamento e a favorire la partecipazione nel contesto democratico. 

    Nel 2017 i professori Victor Margolin, storico del design, ed Ezio Manzini, studioso ed esperto nel campo del design per l’innovazione sociale e per la sostenibilità, scrivono la lettera aperta Stand Up for Democracy1The Democracy and Design Platform, DDP, è un’iniziativa iniziata dalla Lettera Aperta di Ezio Manzini e Victor Margolin nel marzo 2017, sotto l’egida scientifica del Dipartimento di Design del Politecnico di Milano in collaborazione con DESIS Network. È progettato e coordinato dal Design Policy Lab del Politecnico di Milano e dal Philosophy Talks Team del DESIS Network. nella quale esortano tutti i progettisti ad agire e rispondere alla crisi che colpisce la democrazia. Nella lettera dichiarano: “Lo sviluppo di forme e processi democratici ha sempre coinvolto il design e dovrebbe continuare a farlo. Ma dobbiamo fare di più, ora. Il modo migliore per resistere alle tendenze anti-democratiche è concepire, sviluppare e collegare nuove possibilità per la democrazia e il benessere in ogni possibile ambito in cui il design ha voce. Questo significa concepire azioni altamente visibili ed efficaci che affrontino le sfide cruciali di oggi: creazione di posti di lavoro, riforma del welfare, sostenibilità ambientale. Poiché questi fili d’azione interagiscono e si supportano a vicenda, possono diventare una forma dinamica di resistenza proattiva”. Il Tippe Top Design vuole essere una possibile risposta a questa chiamata; un modo di progettare che si interroga sul rapporto tra design e democrazia, conduce ricerche e coltiva una progettualità volta ad affrontare le problematiche attuali e a promuovere la partecipazione democratica.

    L’immaginazione: Rivalutare e Riconcettualizzare

    La nozione di immaginario ritorna in tutta la riflessione umana come un’idea ossessiva, funzionale alla necessità di sottrarre il pensiero all’occultamento che di essa ha operato il pensiero calcolante. Noi siamo artisti. All’incirca quarantamila anni fa nel continente europeo arrivarono dal vicino oriente dei nuovi esseri umani. Li abbiamo chiamati Cro-Magnon ed erano come noi, con le stesse proporzioni cerebrali, fisiche e le stesse capacità. Ed esattamente come noi hanno subito mostrato una capacità artistica. Il fondamento è quindi l’arte che nasce dalla proiezione sul pianeta che circonda l’uomo e la donna di un’immagine mentale. Questa immagine mentale colora la realtà e la trasfigura nella materia (la ricrea). La base sono i racconti, storie di avvenimenti che si svolgono secondo una sequenza cronologica, allora l’essere umano moderno è tale all’interno di un sintagma, di una lineare progressività. Questa progressività, iniziata nella caverna, si è rivelata essere un formidabile adattamento, una strategia evolutiva che ha regalato un vantaggio naturale sulle altre grandi scimmie. Di fatto un acceleratore evolutivo che ha permesso di moltiplicare e accelerare le risposte adattive all’ambiente. Un fenomenale dispositivo per stare al mondo. Ciò è avvenuto utilizzando la narrazione, l’affabulazione all’interno di mondi immaginari che hanno funzionato da simulatori di possibili mondi, preparandoci così ai reali mutamenti del mondo reale. Tutto questo è l’immaginario. E significa riconoscere come fondamento “l’Arte”, intesa come capacità di creare forme e figure che non esistevano precedentemente e riconoscere, altresì, nelle istituzioni sociali e in tutti i prodotti del soggetto psichico come dell’individuo sociale, delle creazioni immaginarie e artistiche. Possiamo chiamarlo immaginario radicale o homo fictus ma resta che la nozione di immaginario ritorna in tutta la riflessione umana come un’idea ossessiva, funzionale alla necessità di sottrarre il pensiero al disconoscimento/occultamento che di essa ha operato il pensiero calcolante nell’affrontare le tematiche che vertono sulla società, sul mutamento o divenire storico, sul linguaggio, sulla psiche, inconscia e conscia2in F. Monico, Lessico Accademico – Immaginario pubblicato il 18.11.2020 in Accademia Unidee url consultato il 21.09.21 https://accademiaunidee.it/it/lessico-accademico-immaginario/ e vedere Fragile (2020) su Homo Fictus..

    C’è un punto focale ed è l’opera di un filosofo italiano, Giambattista Vico. In piena epoca illuministica egli individua proprio nell’immaginario il tema centrale della sua opera principale (La scienza nuova), come facoltà capace di dare un senso al mondo in cui si vive. In altre parole, Vico tematizza ciò che nella maggior parte dei pensatori era stato solo presupposto, cioè che l’immaginazione non è contrapposta alla ragione, ma è il modo di essere proprio della ragione: «“Logica” vien detta dalla voce logos, che prima e propriamente significò “favola”, che si trasportò in italiano “favella”» 3G. B. Vico, «Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni», in Id., Opere, Milano, Mondadori, 1990, vol. I, 595; cfr F. Monico, Fragile, cit., 266-270.. Logica come logos, parola narrata. Vico sostiene che nel corso della storia le due facoltà sono state separate: si è puntato a istruire la razionalità restando analfabeti nell’immaginazione, con gravi conseguenze per la progettazione storica (era infatti uno storico). Al contrario è la favola e la capacità di affabulare-narrare che possono rappresentare il mondo e renderlo abitabile o spettrale. Quindi estendendo all’insieme del pensiero le gravi conseguenze di una facoltà razionale separata dall’immaginazione, ovvero un analfabetismo dell’immaginario le conseguenze negative sono state proprio per la progettazione tout-court.

    È quindi il grande pensatore del novecento europeo Paul Valéry che descrive l’immaginazione come uno spazio di indeterminazione, un quasi mentale, scatenato dalla instabilità del referente e da accesi accoppiamenti verbali e capovolgimenti di fronte. Quando si de-costruisce l’immaginario la formula convenzionale della lingua condivisa si trasmuta in un accordo nuovo, stridente e indistinto sul piano del contenuto ma musicale su quello del suono – qualcosa, appunto, di molto simile a una alterazione musicale, che crea, nella rottura dei rapporti comuni, una nuova intensità: “il notevole potere eccitante” di questa de-costruzione, ha notato ancora Valéry con acutezza impareggiabile, “obbliga a creare”, ovvero “ri-creare”, a produrre il nuovo, il non già percepito. Quindi comunque la provocazione delle de-costruzioni dell’immaginazione apre a una rottura in vista di un’unione inattesa (la “armonia meravigliosa” di O. Wilson) e ha un ruolo essenziale nella creazione della valle inaudita, Uncanny Valley, delle “invenzioni d’ignoto” più vere del passato.

    È quindi un teorico dell’immaginario come Jacques Ellul a teorizzare che l’immaginario vada prima de-costruito con un’operazione di messa in discussione della narrativa presente e quindi ri-costruito con una sapiente organizzazione di verosimiglianza e adattamento a un presente che non è dato se non nel passato. L’immaginazione, come ogni attività umana, conosce modalità sane e malate. Quella del progresso come crescita a tutti i costi è stata una modalità malata, soprattutto perché imposta in maniera massiva e acritica, ma può essere corretta presentando opportuni contro-immaginari. L’operazione da fare è Rivalutare e Riconcettualizzare il presente attraverso un corretto utilizzo dell’immaginario.

    Le leggi dei media

    La legge dei media è una summa mcluhaniana: è centrale oggi perché recupera uno strumento di gestione e produzione dell’immaginario che veniva utilizzato nell’epoca in cui gli strumenti tecnologici non esistevano, ovvero non vi era tecnica per misurare, calcolare, analizzare se non quella del pensiero e del far di calcolo con gli appunti. Era l’epoca in cui si utilizzava il Trivium e il Quadrivium, l’epoca classica dei greci e dei romani, e con essi tutto l’oriente. Oggi siamo in una situazione molto simile poiché il ‘ritorno accelerato della tecnica’, (possiamo dire anche con una certa licenza: accelerazionismo) ha reso concreto e reale il rendersi antiquato dell’essere umano dichiarato da Gunther Anders nell’omonimo best seller del XX secolo. Il pensatore tedesco-americano descrive la crescente divergenza tra ciò che è diventato tecnicamente possibile (ad esempio, la distruzione di tutto il globo), e ciò che la mente umana è in grado di immaginare. Ovvero la tecnica nel XXI secolo è così accelerata da non potere ricadere culturalmente nella società umana, di fatto impedendo l’analisi. Per questo tecniche come quelle del citato Trivium e Quadrivium oggi tornano attuali poiché permettono di analizzare cose di cui non abbiamo ancora né visione né memoria.

    Ne La legge dei media, l’immaginario è utilizzato per mettere a dura prova i raggiungimenti del pensiero calcolante. È uno strumento che utilizza la letteratura come veggenza (in quanto modello psicologico) e come comunicazione (in quanto catalogo di archetipi narrativi), in quanto condivisione e presa di coscienza, come salvaguardia contro la automatizzazione-robotizzazione dell’umanità, recuperando la figura dell’autore4P. Naldini, Quattro farmaci contro l’automatizzazione, Doppiozero, 19.06.2021, url consultato il 21.09.21: https://www.doppiozero.com/materiali/quattro-farmaci-contro-lautomatizzazione. Herbert Marshall McLuhan è sicuramente il teorico che più di ogni altro – analizzando i mezzi di comunicazione di massa – ha rivoluzionato il modo di pensare il mondo in cui viviamo, un mondo che, nell’era dell’elettronica, assume le caratteristiche di un Villaggio Globale. La sua opera affonda le radici in Aristotele e in Giovan Battista Vico ed è proprio la lezione imparata da questi maestri che Mcluhan applica allo studio della società del compiersi della tecnica, e la applica non ai loro messaggi ma al loro linguaggio, al loro processo.

    Quindi da lui e da tutta la cosiddetta ‘Scuola di Comunicazione di Toronto’ viene recuperato uno strumento che permette di analizzare qualsiasi tecnica e artefatto umano ponendolo in risonanza con il presente. Tale strumento con il suo agire ci svela i significati nascosti di un contemporaneo non ancora narrato e quindi non ancora reso consapevole. Tale strumento è utilizzato sia nella pratica didattica e di progettazione con ottimi risultati, sia nella pratica professionale della consulenza e progettazione per le industrie e per la ricerca e sviluppo.

    Il Tippe Top design: cambiare il verso, l’intenzione.

    Con la metodologia Tippe Top si risolve il problema tecnico attraverso la tecnica stessa, cambiandone però il verso, l’intenzione. Si parte dal presupposto che l’uomo contemporaneo, in crisi esistenziale, compensi il proprio Mal-Essere identificandosi nei valori rappresentati da Brand commerciali e, in maniera compulsiva, ne acquista, consuma e scarta i prodotti, spingendo l’acceleratore del “progresso passato” verso il consumo di mondo. Il Tippe Top Design interviene utilizzando proprio il linguaggio e le tecniche operative di BIP, che servono per sviluppare innovazione tipologica orientata alla Brand Value, normalmente per creare prodotti. Si vanno ovvero a sviluppare analisi e strategie operative finalizzate alla ridefinizione di nuovi valori sociali e ambientali realmente condivisi o da condividere ancora. Si stimola pertanto una nuova percezione della società e del mondo, orientandola attraverso azioni individuali e collettive, in particolare riferendole a nuovi Sistemi Ben-Essere. Si elaborano poi mappe aperte, per visualizzare queste strategie sul breve, medio e lungo termine, relativamente a contesti umani di piccola, media, grande dimensione. In sintesi, si sviluppano strumenti tecnici e “linguistici” di gestione della complessità, per reindirizzarli in maniera sistematica verso i Nuovi-Valori-Benessere. Il risultato finale è uno strumento aperto e upgradabile a uso della politica e dei vari stakeholder sociali.

    Il gioco    

    Una certa filosofia contemporanea sostiene che l’interpretazione e la comprensione siano un gioco e il designer Tippe Top “gioca” con il mondo, nel senso che fa del progettare se stesso nel mondo un modo della propria esistenza. La progettazione gioca con i designer, ovvero il designer è giocato dal progetto oltre a essere protagonista di un gioco. Il gioco ha un’essenza propria che va oltre i giocatori, quando noi giochiamo a un gioco non siamo dei giocatori ma siamo giocati. E dentro il gioco come reagiamo all’evento giocato ci fa conoscere a noi stessi. In questo senso il Tippe Top Design si sforza di intendere la progettazione come un gioco, ma è un gioco tremendamente serio perché ci forma e ci cambia e nel XXI secolo dobbiamo cambiare, perché siamo di fronte a un bivio: o saremo in grado di rinascere o ci costruiremo un futuro terribile. 

    Criteri di impostazione iniziali del workshop e del seminario

    La struttura del workshop è stata impostata sulla base delle prime riflessioni e concettualizzazioni emerse dall’incontro Datti/Monico, ovvero delle teorie di “Fragile” sull’immaginario del progresso e di “BIP” sul potere attrattivo/coercitivo dei Brand, con l’idea di utilizzare la proposta/produzione di un “nuovo immaginario” collettivo, come generatore di “mix valoriali” precisi, riconoscibili e sui quali identificarsi (in analogia a quanto sostenuto nella teoria BIP, ovvero che un Brand è un mix unico di valori identitari e identificanti di una marca e di questa ne costituisce l’elemento più potente e persistente), in grado a loro volta di attrarre, generare, indurre, stimolare nuovi trend/comportamenti sociali virtuosi, necessari per apportare quei cambiamenti profondi che l’Antropocene impone al genere umano. I campi di azione in cui il cambiamento/ribaltamento si attua sono i vari “sistemi” che definiscono la complessità della nostra epoca. Fra questi però si è ragionato di rendere l’azione del cambiamento Tippe Top prioritaria verso quelli del benessere, pertanto definiti nuovi “sistemi benessere” ovvero: Ambiente, Società, Persona, Alimentazione, Educazione, Economia, Politica, e quindi Cultura. 

    Il seminario che ha preceduto il workshop, toccava proprio alcuni di questi sistemi benessere, coinvolgendo persone di provata esperienza politica sugli stessi5Hanno partecipato i parlamentari On. Lorenzo Fioramonti (già Ministro dell’Università e della Ricerca) e On. Alessandro Fusacchia e il Dirigente del Ministero dei Trasporti Avv. Michele Torsello.. I sistemi sopra elencati hanno fortissime interazioni fra loro e stimolare una tensione positiva su di essi, a nostro avviso, comporta cambiamenti radicali nel breve, medio e lungo termine, su ogni ambito dell’esistenza sul pianeta. 

    I partecipanti al workshop sono stati gli studenti6Camilla Campisano, Alessio D’Angeli, Ginevra Della Ventura, Sofia Genna, Giovanni Parente, Marta Piraccini, Marco Porpora, Barbara Rossi, Elisabetta Tempesta, Andrea Togni, Alessandro Torre, Flaminia Tundo, Ilaria Venga, Rebecca Venzi. del terzo anno del triennio ISIA Roma Design, anno accademico 2020/2021. I ragazzi, membri della Generazione Z con una formazione da progettisti, hanno reso possibile un interessante confronto e offerto un punto di vista inedito per immaginare i nuovi “sistemi benessere”.

    Workshop sperimentale di Socially Engaged 

    Qui di seguito riportiamo la struttura integrale del seminario e del workshop.

    FASE 1

    Analisi dello stato dell’arte, ovvero della tecnica, in Italia

    (Identificazione delle problematiche e disvalori del nostro Paese, delle nuove istanze che devono emergere e dei valori che ci accomunano)

    • Focus 1 Sulla base di quanto emerso nel seminario, qual è lo scenario “fragile” italiano? 

    Analisi delle criticità e analisi delle risorse dei sistemi benessere in Italia (Ambiente; Società; Persona; Alimentazione; Educazione; Cultura; Economia; Politica) >> Mappa 1

    • Focus 2 Quali sono gli stakeholder del sistema società? Chi sono i decision maker? Come funzionano i processi decisionali? Quale ruolo/azioni giocano le persone, i cittadini, le organizzazioni, gli apparati più in generale, in questo scenario? 

    Individuazione e mappatura degli stakeholders >> Mappa 2

    • Focus 3 Quali sono i valori realmente praticati e quali i valori emergenti negli scenari analizzati? 

    Individuazione e mappatura dei valori >> Mappa 3

    FASE 2

    Riflessioni/Dibattito/Impostazione Ricerca Strategica

    A fronte di quanto prodotto nella FASE 1, sarà utile indagare:

    • Focus 4 Come sono strutturate le Società diverse dalla nostra? Gli altri Paesi che soluzioni hanno trovato a problematiche simili alle nostre?

    Ricerca di casi studio relativi a sistemi benessere (Ambiente; Società; Persona; Alimentazione; Educazione; Cultura; Economia; Politica) che offrono un punto di vista inedito, consentendoci di immaginare sistemi diversi e alternativi.

    • Focus 5 Analisi dei valori individuati nel Focus 2, individuazione di uno strumento di mappatura descrittivo, clusterizzazione e individuazione dei valori fondamentali per una nuova idea di Società >> Mappa 4
    • Focus 6 Un Immaginario alternativo è possibile? Come decostruire l’Immaginario del XX secolo per ricostruire un immaginario proprio del XXI? Come si interroga l’Arte sulle problematiche individuate? Quali linguaggi/metodi utilizza e quali display utilizza per comunicare?

    Ricerca degli elementi costitutivi dell’immaginario del XX secolo >> Mappa 5

    FASE 3

    Un progetto immaginato per una società reale

    • Sulla base di quanto emerso dalla ricerca dei casi studio durante il Focus 4, fissare obiettivi a breve, medio, lungo termine sulla base dei Valori/Limiti scelti >> Poster 1
    • Sulla base di quanto emerso nelle fasi precedenti, individuare come stakeholders, valori e scenari convivono in un nuovo ecosistema sociale del Ben-Essere >> Poster 2
    • Sulla base di quanto emerso nel Focus 6, sperimentare una visualizzazione dell’immaginario che ha caratterizzato il XX secolo e pensare come possa figurare un nuovo immaginario del XX secolo >> Poster 3

    Punti della metodologia Tippe Top Design

    Il workshop ci ha permesso una prima esperienza teorico/operativa, la quale ci ha dato modo di comprendere e dedurre, anche se a posteriori, gli elementi cardine necessari per la definizione del nuovo approccio metodologico: gli Immaginari, quello di partenza e quello di arrivo; i Valori generati e/o indotti dagli Immaginari; l’insieme di “Pratiche” coerenti con i campi di influenza valoriale, tali da determinare cambiamenti sostanziali sui sistemi in cui agiscono; i Sistemi Benessere.

    La conclusione, o teoria, alla quale siamo giunti, è che, in generale, l’immaginario collettivo comporta valori indotti, coerenti con esso. Quello che può essere ritenuto valore in un tipo di Immaginario, può però essere un disvalore in un altro. La definizione quindi di un nuovo immaginario del progresso è fondamentale per esercitare, prendendo a esempio la fisica, quello che potremmo definire un campo di forze valoriale attivo, rispetto a due Immaginari contrapposti, uno futuribile, l’altro pregresso. La forza attrattiva del nuovo Immaginario deve essere comunemente intesa come positiva, tale da orientare il campo di forze valoriale creatosi dall’antitesi con l’Immaginario a cui si contrappone. 

    Come sappiamo i valori determinano le scelte umane, individuali e collettive, non necessariamente in maniera razionale (nel branding questo è noto e l’induzione al consumo mirato, targettizzato, è la conseguenza). La metodologia Tippe Top ha dunque l’obiettivo di individuare quelle pratiche coerenti col campo valoriale generato dall’innesto o dalla produzione di un nuovo immaginario rispetto al precedente. Per fare un esempio ciclistico, è come se scegliessimo il mezzo giusto per uno specifico tipo di percorso: se dovessi fare un percorso ciclistico urbano sceglierei una bicicletta da passeggio, comoda e confortevole; se dovessi affrontare un percorso downhill preferirei di gran lunga una mountain bike. Quindi, per essere chiari, il campo valoriale traccia le tipologie di percorso per spostarci da un Immaginario all’altro mentre le pratiche sono i mezzi, gli strumenti fattivi, con cui intendiamo affrontarli.

    L’obiettivo della metodologia Tippe Top è indurre un cambiamento positivo, condiviso e radicale al tempo stesso, graduale ma intensamente progressivo, capace di ri-formare sistemi compromessi, particolarmente dal punto di vista ecologico (nel suo senso più ampio).

    Una volta chiarite le intenzioni del nostro agire per il cambiamento, dobbiamo dunque definire delle pratiche specifiche, secondo strategie mirate, tarate specificatamente sui contesti, ovvero sul fattore di scala degli stessi. Per fare un esempio: il percorso che devo fare è lungo? Misto? Serviranno poche ore o molti giorni? Se occorresse, potrei cambiare bici o adattarla? In funzione di queste domande sceglierei il/i mezzo/i più adatti, in base alle reali possibilità del sistema.

    Mappa cognitiva/teorica del Tippe Top Design 

    Per rendere più chiaro il nostro approccio metodologico, abbiamo elaborato un modello figurativo. In generale la rappresentazione attraverso le mappe è un escamotage molto utilizzato nel design dei sistemi, perché aiuta a visualizzare meglio i sistemi esaminati, gli elementi del sistema e le interazioni che intercorrono fra gli stessi. Il modello Tippe Top lo abbiamo rappresentato, tridimensionalmente, con due “gocce” disegnate in wireframe, le cui cuspidi, poste sul medesimo asse di rotazione, sono orientate in maniera contrapposta, una verso l’”immaginario dato”, posto convenzionalmente a “sud”, l’altro verso il “nuovo immaginario”, posto convenzionalmente a “nord”; le gocce si toccano ai “poli” dei rispettivi emisferi. Il punto di contatto è concettualmente il “punto Tippe Top”, ovvero quello in cui accade l’inversione del paradigma. I fili del telaio delle gocce, o meglio le generatrici, rappresentano le “pratiche” negative o virtuose con le quali si agisce o si agirà sui sistemi. Gli immaginari sono rappresentati da dischi concentrici, e l’attrazione che sviluppano fra di essi genera il “campo valoriale”, rappresentato da un tronco di cono, anch’esso in wireframe, all’interno del quale è sospeso il “Tippe Top”. All’interno delle due gocce del Tippe Top, in prossimità degli equatori, giacciono orizzontalmente dei “fiori elicoidali”, rappresentanti i sistemi sui quali si sta agendo col Tippe Top. Più in dettaglio, ogni petalo rappresenta un preciso sistema. 

    Come funziona il modello? Gli immaginari, abbiamo detto, determinano inevitabilmente dei valori di riferimento, i quali mettono in moto delle pratiche, o azioni o comportamenti per essere più chiari, degli attori del sistema. Per esempio, se il vecchio immaginario, da cui partiamo, suggerisce modelli che inducono a un consumo delle risorse, i valori indotti saranno quelli dell’individualismo, della crescita fine a sé stessa, etc., e i comportamenti che ne conseguiranno saranno quelli dell’induzione al consumo, dell’acquisto compulsivo di beni, del consumo di risorse. Questi comportamenti determinano delle conseguenze sui sistemi in cui vengono agiti. Immaginando di voler ribaltare questi comportamenti, dovremmo agire “ri-formando” gli stessi. Questa trasformazione, affinché sia “sostenibile” dal sistema, nel senso di sopportabile, dovrà essere indotta, rendendola “naturale”. Produrre un nuovo immaginario ha l’obiettivo di generare nuovi valori, più potenti di quelli che si vogliono superare e tali da indurre, in maniera spontanea e sostenibile comportamenti virtuosi all’interno del sistema stesso. Per esempio, se il nuovo immaginario impone l’emergenza climatica come condizione della nostra era, i valori precedenti verranno superati dall’attenzione nella gestione delle risorse, dal senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente, dalla necessità di maggiore equità. Questi valori genereranno comportamenti della collettività tali da spostare, per esempio, l’attenzione verso il consumo di beni meno impattanti, più durevoli, più accessibili, etc.

    Quello che accade è che lo stesso sistema, attraverso l’influsso di valori nuovi generati dall’innesto di un nuovo immaginario, viene indotto a un cambiamento orientato, ma spontaneo. La stessa prassi che induce i consumatori a farsi guidare spontaneamente dai Brand, può essere applicata per modellare la società verso una consapevolezza ecologica maggiore, a ogni livello, cioè per ogni sistema. Per questo abbiamo individuato i sistemi benessere, perché sono quelli che secondo noi fungono da driver per il cambiamento complessivo.

    In realtà il modello può essere applicato su scale differenti, contesti fisici e culturali di riferimento distinti, con strategie di breve, medio e lungo termine.

    Approfondendo potremmo parlare di immaginari globali e immaginari locali. E l’azione di questi immaginari, in funzione dei contesti, può generare valori comunemente intesi, cioè globali, oppure esclusivamente locali. Questo strumento serve a nostro avviso per decifrare la complessità e a guidarne i cambiamenti. Occorre però nell’applicazione del modello estrema attenzione, per evitare di incappare in banalizzazioni dello stesso. 

    Di conseguenza potremmo avere piani dell’immaginario più complessi, all’interno dei quali si muovono più Tippe Top.

    Il caso Slow Food: come invertire la percezione del cibo

    «Questo nostro secolo, nato e cresciuto sotto il segno della civiltà industriale, ha prima inventato la macchina e poi ne ha fatto il proprio modello di vita. La velocità è diventata la nostra catena, tutti siamo in preda allo stesso virus: la vita veloce, che sconvolge le nostre abitudini, ci assale fin nelle nostre case, ci rinchiude a nutrirci nei fast food. Ma l’uomo sapiens deve recuperare la sua saggezza e liberarsi dalla velocità che può ridurlo a una specie in via d’estinzione…» 

    Manifesto Slow Food, 1987, incipit

    Slow Food è un movimento di pensiero che ha messo al centro della sua riflessione l’esperienza qualitativa del cibo. Nato in Italia, a Bra, nel 1986, con il nome di Arci Gola, un’associazione ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana) che opera senza scopo di lucro. È stato fondato da Carlo Petrini ed è attualmente guidato da un Comitato Esecutivo che si adopera a livello globale coinvolgendo milioni di persone in oltre 160 paesi. Opera nell’ambito della formazione attraverso la casa editrice Slow Food Editore e l’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Slow Food si pose come obiettivo il diritto a vivere il pasto come ben-essere e piacere. Nel 1986 fu una risposta al dilagare delle abitudini frenetiche del fast food, e del cibo spazzatura, il Junk food. Ma la cosa da cogliere è che all’epoca dei ‘ruggenti anni ‘80’ il pensiero comune verteva su una compiaciuta accettazione acritica di nuove abitudini alimentari fondate sul fast and junk food. All’epoca in città come Milano le aperture dei vari McDonald, Burgher King, Burghy, Wendy, Kentucky Fried Chicken erano vissute come progressi migliorativi della società e della qualità della vita, i ragazzi amavano ritrovarsi in questi luoghi consumando patatine e carni cotte con salse bbq, ketchup e maionesi, ma anche i manager della ‘Milano da bere non disdegnavano di ritrovarsi per parlare di affari e business in luminosissimi locali in Piazza San Babila, in via Torino o in corso Buenos Aires. L’idea di quegli anni intrisi di entusiasmo e ancora immersi nell’idea di un progresso migliorativo era che avremmo consumato pasti veloci, congelati precotti, confezionati in vassoi per il servizio in una tavola che andava sempre più scomparendo fino a ridursi a tavolini e postazioni da telespettatori per consumare bastoncini di pesce, sofficini, crocchette, mousse proteiche spalmabili e vari cibi messi in commercio dalle multinazionali che nessuna nonna avrebbe riconosciuto come tali. Inoltre questo cibo fu anche associato alla salute e quindi fu un dilagare di proposte di cibi dietetici e percepiti come benefici il cui epigono era Weight Watchers (letteralmente controllori del peso), un prodotto food destinato a diventare uno dei più popolari negli anni Settanta e Ottanta, nonché una vera e propria multinazionale con tabelle, prodotti e community a pagamento. Era un cibo congelato, precotto e confezionato ed era considerato dietetico e sano. Era un immaginario totalmente egemone, tutti erano convinti che le multinazionali del cibo avrebbero imposto la loro offerta di mercato in quanto controllavano l’immaginario. Associated British Foods (ABF), Nestlé, PepsiCo, Coca-Cola, Danone, General Mills, Kellogg’s, Mars, Mondelez International, Unilever di fatto controllavano il cibo del mondo globale. Ma una piccola associazione culturale italiana iniziò a produrre un contro-immaginario e lo fece studiando, difendendo e divulgando le tradizioni agricole ed enogastronomiche italiane e di ogni parte del mondo. Così Slow Food si impegnò per la difesa della biodiversità e dei diritti dei popoli alla sovranità alimentare, battendosi contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura massiva e le manipolazioni genetiche. Uno dei cavalli di battaglia di Slow Food fu il sostegno alle piccole realtà contadine che producono generi alimentari con mezzi tradizionali svolgendo attività in forma puramente artigianale. La sua azione ribaltò completamente l’immaginario delle persone sul cibo, creando consapevolezza dell’ambiente e puntando su agricolture pulite in grado di produrre senza l’utilizzo di OGM, rispettando la stagionalità degli ingredienti. Lo fece riscoprendo e pubblicizzando cibi dimenticati, valorizzando le tradizioni locali e portando alla luce conoscenze antiche custodite nei diversi territori. Il fine era di garantire a tutti l’accesso a un cibo “buono, pulito ed equo”, capace di salvaguardare la terra, i produttori e infine i consumatori. E facendo questo attuò un ‘momento tip top’ quando riuscì ribaltando un immaginario allora egemone a sconfiggere le multinazionali e a cambiare radicalmente il modo con cui ci nutriamo e sollecitò una nuova attenzione pubblica verso le tematiche ambientali e la salvaguardia della biodiversità e delle tradizioni culinarie. Il caso Slow Food è un caso di successo che ha dell’incredibile, è un caso di eccellenza italiana, è riuscito dove si riteneva impossibile attuare una politica dell’immaginario che potesse disinnescare una traiettoria già data e resa egemone dallo strapotere finanziario e lobbistico delle Corporazioni globali del junk food e della distruzione eco ambientale. Quello che Slow Food ha reso concreta è un’azione di ‘Culture Jamming’ traducibile in italiano con “interferenza culturale”, che oggi possiamo definire una pratica contemporanea che mira alla contestazione dell’invasività dei messaggi culturali veicolati dai mass media nella costruzione dell’immaginario in totale sintonia con il Tippe Top design.

    Adbusters: un modello

    La pratica della “interferenza culturale” consiste nella decostruzione delle narrative attraverso un ribaltamento narrativo-percettivo che ha lo scopo di far uscire la persona “dall’automatismo della percezione”. Infatti lo spostamento di immagini, oggetti e azioni dalla loro collocazione abituale li inserisce in un diverso contesto semantico dove il loro significato risulta mutato, se non capovolto. Il risultato è la trasmissione di un messaggio di ripensamento generalizzato. Oggi i flash mob, il graffitismo, il teatro di strada, l’arte di strada, l’hacking, sono tutte parte di questa necessità di de-costruire un immaginario anestetizzato dalla narrativa egemone di un XX secolo che ormai è stato superato dal XXI secolo. La Adbusters Media Foundation è un’organizzazione no-profit, fondata nel 1989 da Kalle Lasn e Bill Schmalz a Vancouver, British Columbia, Canada. Può essere descritta come un network di artisti, attivisti, scrittori, studenti, educatori e imprenditori che vogliono de-costruire e ri-costruire l’immaginario. 

    Il Brand activism: l’azienda nel XXI secolo

    È un rivoluzionario modo di fare impresa proposto nel 2020 dal pioniere del marketing sociale Philip Kotler. Con la permeabilità sociale per cui si mischiano e si fondono la vita privata, culturale e lavorativa, le aziende per prosperare devono avere un ruolo attivo nel sociale prendendo posizione rispetto alle impellenti questioni ambientali, sociali e politiche del nostro tempo. Siccome queste tematiche vanno a toccare nel profondo la vita privata, culturale e politica delle persone non basta più la Corporate Social Responsibility, e tantomeno operazioni di facciata e campagne di comunicazione. Bensì nel XXI secolo bisogna passare dal brand purpose (lo scopo) al brand activism (l’azione concreta). È un approccio strategico che cambia il ruolo degli amministratori e le regole delle proprietà, e che riguarda in primo luogo gli impiegati che nelle aziende ci lavorano, per poi estendersi al mondo esterno, ai clienti e a tutte le parti che hanno interessi con l’azienda. In questa nuova rivoluzione, l’azienda e il brand non operano più come semplici attori di un mercato, ma attribuendosi un ruolo attivo nelle iniziative volte a favorire il bene comune, ovvero assumendosi l’onere e la responsabilità come promotori dei processi di cambiamento che le problematiche del nostro tempo richiedono. È l’affermarsi di un nuovo Marketing militante denominato 3.0, nel quale i valori sostenuti dall’impresa e condivisi con tutto il pubblico della stessa (portatori di interessi e famiglie) guidano un programma di sviluppo economico attento al futuro della comunità e alla salute del pianeta. È un vero e proprio modello di business nel quale gli obiettivi economici sono reciprocamente implicati con un impegno attivo dell’impresa in cause di rilevanza sociale, politica e ambientale. Per far sì che un’azienda utilizzi il Brand Activism c’è bisogno di una rivoluzione copernicana nella tradizionale modalità di percepire lo scopo dell’azienda, ovvero non solo i profitti degli stakeholder bensì una nuova visione fondata sulla partecipazione a una cultura etica dell’azienda che è contemporaneamente cultura etica dell’individuo e della comunità. Potremmo dire che il brand Activism è dunque funzionale al Tippe Top Design e viceversa. Per esempio: un CEO decide di fare Brand Activism, può quindi imporre delle scelte o può farle emergere, applicando il Tippe Top Design, ovvero costruendo un immaginario narrativo adeguato al cambiamento interno, dei collaboratori e persino degli azionisti, per poi agirlo all’esterno. Tuttavia dobbiamo considerare che il Brand Activism sta a buon diritto all’interno di quell’insieme che chiamiamo oggi stakeholder capitalism, ovvero quella forma di generazione, produzione e gestione del valore, che sostituisce le imprese private in qualità di fiduciari (trustee) del patto sociale. Tale rappresentanza è fondata sulla convinzione che le imprese private siano meglio equipaggiate delle strutture pubbliche per offrire la migliore risposta alle sfide sociali e ambientali. Lo stakeholder capitalism si contrappone allo shareholder capitalism che mira ad accrescere il valore dell’investimento dell’azionista. Quindi sembrerebbe positivo, ma solo all’apparenza, poiché Klaus Schwab, il fondatore guru di Davos e grande sostenitore dello stakeholder capitalism, ha più volte sostenuto che le aziende non dirotteranno il loro fine di lucro, semplicemente si muoveranno in accordo con ordini sovranazionali aderendo alla visione neoecologista, inclusiva di tutte le minoranze, basata sulla digitalizzazione e sulle nuove tecnologie. Così l’obiettivo dell’azienda resterà sempre il profitto e la sua massimazione, anzi ne sarà enfatizzato spostandosi a occuparsi anche della vita intera o della, per usare un termine filosofico ‘nuda vita’. Quindi è legittimo il dubbio se il sostituire dispositivi etici pubblici non finalizzati all’incremento esponenziale del guadagno con dispositivi aziendali sia corretto. È banale, ma chi lo capisce, capisce buona parte di quello che sta succedendo. Ovvero le aziende, i loro brand, la loro mentalità si sostituiscono allo stato e ai suoi processi nella generazione e gestione dello spazio delle relazioni pubbliche. Quindi le pratiche da utilizzare non sono scontate e, potremmo dire, che il metodo Tippe Top non impone un cambiamento in un verso (privato) o nell’altro (pubblico), ma in una modalità meta-strutturale induce, sollecita, in maniera neutra ma coerente l’attivazione di pratiche contro-intuitive tra privato e pubblico. Perché in un piano esteso di cambiamento Tippe Top, fra i vari stakeholders figurano di sicuro le imprese/brand locali, le quali, se virtuose, entrano nel sistema Tippe Top come protagonisti “attivi” appunto e non passivi, generando quindi contro-immaginari e approcci divergenti.

    Le illusioni perdute tra tokenism, attivismo performativo, slacktivism, washing e greenscam

    Ernst Junger dall’alto della sua esperienza già nei primi anni ‘50, in pieno boom industriale, ammoniva del pericolo implicito dei sistemi democratici di limitare la reale libertà dando parola a una minoranza che appare libera ma che, proprio in quanto minoranza, non sarebbe in grado di avere un impatto critico reale. Di fatto descrivendo un modello di percepita apparente libertà. Negli anni ‘50 è Martin Luther King Jr. a denunciare la pratica di creare finte inclusioni a numeri e soggetti minoritari del sociale per viceversa comunicare l’inclusività di un sistema. Il tokenismo è così la pratica di fare solo uno sforzo apparente o simbolico di inclusione nei confronti dei membri di gruppi minoritari, in particolare reclutando persone da gruppi sottorappresentati per dare l’impressione di uguaglianza razziale o di genere all’interno di un contesto lavorativo o educativo. Lo sforzo di includere un individuo simbolico nel lavoro o nella scuola è solitamente inteso a creare l’impressione di inclusione sociale e diversità (razziale, religiosa, sessuale, ecc.). Al fine di deviare le accuse di discriminazione. Da qui deriva l’attivismo performativo ovvero l’attivismo fatto per aumentare il proprio capitale sociale piuttosto che per la propria devozione a una causa. È spesso associato all’attivismo di superficie, indicato come slacktivism, ovvero la pratica assai economica per le corporate di sostenere cause sociali con mezzi social che appunto richiedono pochissimo sforzo o impegno. E tutto incontra poi alla fine il Il washing ovvero il dichiarare degli sforzi etici il cui vero obiettivo è invece l’aumento del profitto che diventa greenscam ovvero una forma naturale di mimetismo aggressivo. L’azienda si camuffa per quello che non è per massimizzare le strategie di vantaggio evolutivo in una logica di competizione. Di fatto utilizzando un modello innocuo le aziende evitano di essere identificate correttamente. Bisogna saperlo, basta osservarlo.

    Il caso Langhe: come un territorio è radicalmente mutato

    Quindi c’è la storia quasi fiabesca di un successo planetario con le radici sempre in Italia, in Piemonte, anzi nella Langa, un territorio agricolo e di campagna che era conosciuto come poverissimo e che, grazie a un rivolgimento dell’immaginario, un momento Tippe Top, si è trasformato in un giardino coltivato di lavoro, rispetto e identità. Questa storia dimostra, a differenza di quello che si pensava negli anni ‘60 e ‘70, che la vecchia civiltà contadina non solo si può ben saldare alla moderna era tecno-industriale ma pure ne può rappresentare un elemento di identità preziosissimo, un patrimonio di attaccamento territoriale più forte di qualsiasi facile speculazione. Infatti mentre le colline d’Italia si spopolavano e dalle campagne la gente si inurbava nelle grandi metropoli, la Langa fu al centro di una precessione dell’immaginario secondo un modello in cui l’industria e la campagna potevano convivere. Se non fosse successo non avremmo più il Barolo, la Nocciola, la Fassona, il Tartufo bianco. Non ci sarebbe più stato nulla di tutto ciò, perché una volta che il legame con la terra fosse stato tagliato, non si sarebbe più rinsaldato (negli altri territori è successo così); e quindi senza questo salto incredibile di immaginario le colline delle Langhe sarebbero restate zona depressa (come ancora negli anni ’50 recitavano i cartelli) e i borghi sarebbero a poco a poco scivolati nell’abbandono come successo a moltissimi paesi dell’Appennino. Il modello trainante fu la Ferrero con il suo modello produttivo-logistico voluto dal fondatore Michele Ferrero. Egli contro ogni tendenza alla delocalizzazione, come imperava dagli anni ‘80 in poi, riuscì a proporre un modello di fabbrica localizzata nel territorio dove i pulmini aziendali che andavano a prendere gli operai tutte le mattine nei comuni limitrofi ne erano il segno. E quindi il processo, visto all’inizio come inaudito, portò al successo planetario sia della proprietà (oggi la più ricca d’Italia) che dell’azienda e del suo modello ripetuto quindi in Germania e in Francia (dove infatti sono convinti che l’azienda sia rispettivamente Tedesca o Francese) per quel modello di prossimità territoriale che ha riproposto. L’inversione straordinaria fu tra fabbrica e operai (o se si preferisce tra macchine e braccia, tra capitale e lavoro) e non era una cosa facile da pensare e immaginare. Bisognava per gli anni ‘70 e ‘80 fare un capovolgimento di immaginazione, e mettere al centro quello che il linguaggio aziendale chiama oggi il capitale umano, ovvero le persone, i dipendenti; e per farlo tutto fu realizzato attorno a una fabbrica territoriale. Per cui la fabbrica andò dalle persone e non il contrario. Invece di sradicare migliaia di persone dalle loro abitazioni per “deportarle” alla fabbrica, la Ferrero decise che la fabbrica sarebbe restata ad Alba, che è nel cuore delle colline, e i suoi operai e operaie sarebbero stati portati in Fabbrica da tutti i paesi della Langa ogni giorno coi pulmini, così si fece in modo che essi continuassero a occuparsi delle nocciole, dei campi, del vino, delle stalle. In modo che non abbandonassero le loro case, i loro territori. Quindi il territorio proprio per le eccellenze che venivano con passione coltivate, prodotte, mostrate, ebbe il suo ‘momento Tippe Top’ quando iniziò il processo per chiedere il riconoscimento UNESCO. Il processo di candidatura è stato lungo e complesso, avviato nel 2006 con l’iscrizione nella Tentative List italiana del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, e seguito nelle diverse fasi dall’Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione (SiTI) del Politecnico di Torino, e supportato dalla Regione Piemonte, dal Segretariato Generale del MiBACT, dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Province di Torino, Asti, Cuneo, Biella e Vercelli. Poi finalmente nella riunione del Comitato del Patrimonio Mondiale che si è tenuto a Doha in Quatar dal 15 al 25 giugno 2014 i Paesaggi Vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato sono stati riconosciuti come parte integrante del Patrimonio Mondiale UNESCO, attribuendo l’eccezionale valore universale al paesaggio culturale piemontese. Così oggi le Langhe da territorio depresso sono diventate un territorio di grande valore nazionale e internazionale, il costo della terra ha raggiunto un valore così alto da rappresentare un asset di valore che ha arricchito tutta la popolazione, la capacità di attrazione culturale ha intercettato discorsi e narrative di respiro globale di fatto trasformando un territorio anonimo e povero in un ricco ‘hortus conclusus’ della biodiversità, della bellezza, di fatto realizzando e ridistribuendo quindi un valore a chi lo gestisce oggi e lo gestirà domani. Tutto è avvenuto per un cambiamento radicale dell’immaginario, per una immaginazione all’opposto di quella dominante all’epoca. Per un approccio ‘Tippe Top’ ante litteram. 

    Matera da inferno dantesco a capitale europea della cultura

    Questi coni rovesciati, questi imbuti si chiamano Sassi, Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui a scuola immaginavo l’inferno di Dante. La stradetta strettissima passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. 

    Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli

    Non è esagerato sostenere che Matera sia oggi una delle città più belle del mondo: chi la vede per la prima volta rimane a bocca aperta di fronte a un’urbanistica così peculiare. Da quando nel 2019 è stata incoronata Capitale della Cultura Europea le è stato riconosciuto il valore che merita. Stranieri e italiani, la conoscono. Ma è stata valorizzata solo negli ultimi anni, perché fino agli anni ‘60 la città era quanto di più degradato, malsano, misero, disperato la società italiana potesse partorire. Infatti la particolare conformazione rocciosa su cui sorge aveva prestato anfratti e grotte come rifugio sin dal Paleolitico, e quindi l’espansione dell’agglomerato, e il contemporaneo aumento della popolazione, portarono nel tempo a un problema nello stoccaggio delle acque e nella gestione degli scoli fognari. Non vi era un sistema di raccolta dei rifiuti, le famiglie finivano a vivere assieme agli animali dentro spelonche di tufo. Lo scrittore Carlo Levi, nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli, racconta la scoperta dei contadini del Mezzogiorno ‘fuori della Storia e della ragione e le terribili condizioni igieniche dei sassi. Grazie al successo del libro Matera salì alla ribalta nazionale e diventò il caso più eclatante di come l’arretratezza e la povertà avevano scavato radici profonde nell’Italia meridionale. Secondo le statistiche, la mortalità infantile raggiunse qui una percentuale catastrofica. Il leader del partito Comunista italiano Palmiro Togliatti senza mezze parole nel 1948 definì i Sassi “Vergogna nazionale”, un male da estirpare con la forza bruta per restituire dignità alle persone. Altri intellettuali si interessarono alla vicenda, Tommaso Fiore, Francesco Compagna, Manlio Rossi ed il sociologo americano George Peck. Adriano Olivetti, già illustre imprenditore, ingegnere e politico italiano diede il proprio apporto alla causa. Per suo volere nacque la “Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera”, composto da un gruppo di intellettuali presieduto dallo stesso Olivetti e dal sociologo tedesco Frederic Friedmann. Lo scopo fu quello di proporre soluzioni per trasferire gli abitanti in quartieri nuovi, le cui case dovevano necessariamente essere dotate dei servizi di base per vivere. Nel luglio del 1950 il primo ministro Alcide De Gasperi dopo una visita a Matera incaricò il ministro lucano Emilio Colombo di studiare un disegno di legge per favorire il risanamento e la soluzione del problema. Il 17 maggio 1952 lo Stato Italiano con la “Legge Speciale per lo sfollamento dei Sassi” impose a circa diciassettemila persone, di abbandonare le proprie case per trasferirsi nei nuovi rioni. I Sassi furono, di fatto, svuotati, divennero una città fantasma. Ed è a questo punto che avvenne un cambiamento dell’immaginario grazie a chi è appunto predisposto a vedere le cose da un punto di vista diverso, divergente, fuori dagli schemi, ovvero gli artisti e in particolare due artisti cinematografici. La prima pellicola girata a Matera fu “La Lupa” di Alberto Lattuada nel 1952, mentre una decina di anni dopo il regista Pier Paolo Pasolini vide, cambiando radicalmente il punto di vista sulla città, in Matera la Gerusalemme d’Europa e ambientò negli antichi rioni in tufo uno dei suoi più grandi capolavori: “Il Vangelo secondo Matteo”. Quindi furono girate decine e decine di produzioni italiane e straniere (tra cui La Passione di Cristo di Mel Gibson). La visione cambiò radicalmente, l’immaginario ebbe una precessione di 180 gradi, ci fu il ‘momento Tippe Top’ e i sassi divennero luogo di nostalgia e di bellezza fino a che nel 1986, una Legge Speciale consentì ai cittadini di tornare a far vivere i vecchi rioni in tufo, invertendo quello che era stato il flusso verso i nuovi quartieri. Fu l’inizio di una nuova alba per la città, i cui sassi si apprestavano a diventare icona del bello, iniziò quindi un processo di riqualificazione che portò Matera a passare dall’essere la ‘vergogna d’Italia’ a ‘orgoglio nazionalè. Nel 1993 l’UNESCO dichiarò i Sassi Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Il 17 Ottobre 2014 Matera fu designata Capitale Europea della Cultura per il 2019.

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