In bilico tra architettura e design, Franco Raggi si racconta

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    Architetto, designer, curatore, critico ed editorialista, Franco Raggi ha attraversato, come protagonista impegnato e allo stesso tempo come osservatore smaliziato, le vicende più importanti dell’architettura e del design degli ultimi 50 anni. Gli abbiamo fatto una serie di domande – sul design come disciplina (ma non solo), il suo passato e il suo destino. 

    Colonne a metri e “tempiopieghevole 1981.

     

    Hai una formazione di architetto, ti sei laureato nel 1969 al Politecnico di Milano. Ma nella tua lunga carriera, non hai progettato solo architetture, allestimenti, e ambienti ma anche oggetti. Quale é per te la relazione tra architettura e design?

    La stessa che c’è tra qualsiasi progetto e la realtà che cerca di modificare, anche solo per immagini. Il design lo fa alla scala del corpo e dell’ambiente, l’architettura a quella dello spazio e della città. Non c’è differenza. Qualsiasi progetto cerca di introdurre una variante dinamica e critica nel contesto esistente. Quelle che contano sono le procedure e la interpretazione utile dei vincoli. Senza vincoli e procedure non c’è progetto. Poi una differenza notevole c’è: il design lo puoi fare da solo (o quasi), l’architettura impone relazioni complesse e compromessi.

    Protagonista, in quanto progettista, ma anche osservatore e critico, hai analizzato le trasformazioni in atto, a partire dai ruggenti anni 60, quando in Italia si é affermata la cultura del design. Prima come redattore di Casabella (1971-1976), poi come caporedattore di MODO (1977-1981) e poi come direttore (1982-1983), non hai smesso di commentare tali trasformazioni e di dialogare con altri architetti e designer. Come hai conciliato l’azione e la critica? 

    In realtà io non ho mai fatto il critico nel senso del critico specialista militante. Ho fatto forse l’osservatore e il cronista usando la mia curiosità come un viatico per osservare il mondo del progetto con un occhio antiaccademico, cercando di scoprire modi di fare capaci di interpretare la trasgressione come una condizione utile. Posso semmai dire che per me l’azione è sempre stata una forma di critica. Il progetto se è buono, o come diceva l’amico Enzo Mari, “proprio”, cambia qualcosa, introduce nuove consapevolezze, svela l’inatteso, rivela le possibilità occulte di una materia, di un gesto, di una forma, gioca ironicamente con le convenzioni del linguaggio prevalente invita alla riflessione e ammette anche il piacere. Mentre il progetto “improprio”, quello che l’amico Alessandro Mendini chiamava “progetto scemo”, rielabora il già visto, lo riveste senza cambiamenti, non induce né squilibrio né imbarazzo, ma anzi conferma l’esistente nella sua mediocre autoreferenzialità.

    Quali sono stati i tuoi rapporti con l’architettura radicale? 

    I primi contatti li ho avuti nel 1970 a Firenze dove partecipai (come “inviato” dello studio Nizzoli) al concorso per il progetto della Nuova università. Nel gruppo di lavoro c’erano Remo Buti, Mario Preti e Giovanni Sani che insieme al gruppo 9999 gestivano lo Space Electronic, uno spazio multifunzionale high tech, luogo di eventi alternativi e di incontro di molti personaggi delle avanguardie fiorentine (UFO, Superstudio, Archizoom, Zziggurat). Fui emotivamente ed intellettualmente risucchiato da questa ipotesi lucida, anarco-visionaria, con riferimenti concettuali e figurativi espliciti alla cultura pop e alle aporie futuribili dei gruppi inglesi, austriaci ed americani. L’Architettura Radicale fu una spinta intellettuale e comportamentale fortissima che mi aprì verso un universo culturale internazionale e inedito con collegamenti fondamentali anche verso il mondo dell’arte di avanguardia (Land Art, Arte Concettuale, Body Art, Arte Povera). Cominciai a scrivere e a fare disegni e progetti che in qualche modo si allineavano con lo sperimentalismo visionario e dirompente dei gruppi radicali. La cosa che posso dire ora è che questa improvvisa immersione fatta di rapporti personali di confronti esistenziali e di pratica progettuale dissipò ogni “senso di colpa” dovuto al fatto di pensare che si poteva discutere e fare architettura anche senza costruirla. L’assunto provocatorio di Hans Hollein “tutto è architettura” poneva l’accento sulle possibilità che azioni progettuali surreali, ironiche, sconvenienti e anomale potessero cambiare il punto di vista e gli equilibri culturali convenzionali rispetto al mondo stagnante del pensiero d’architettura.

    Ingresso ornamental/monumentale 1975.

     

    Potresti fare un esempio? 

    In quei giorni fiorentini partecipammo anche al concorso “Forum design” di Linz in Austria. Il tema era progettare nella città provocando riflessioni, contraddizioni e possibilità future. Decidemmo con Remo Buti e gli altri di “costruire” un’azione collettiva che influisse sulla percezione della città. Stampammo 10.000 volantini formato A4 con scritta in tedesco una esortazione a fare tutti ad una ora precisa di un giorno preciso “1 minuto di silenzio”. Questi volantini erano impilati in parallelepipedi bianchi che furono lasciati in mezzo alle piazze di Linz e ognuno poteva prenderli leggerli e alle ore 12,00 di un giorno di giugno, fare silenzio. L’assenza di rumori avrebbe offerto la percezione di una città, forse antica o futuribile, sicuramente inattuale. Ho ripensato a quel progetto durante il lockdown di marzo 2020. Le città erano ferme, silenziose e terribilmente magnifiche come forse è stata Linz in quel lontano 1970. 

    Commentando la mostra “Italy: the New Domestic Landscape”, che ha celebrato le diverse correnti del design italiano al MoMa di New York, spieghi che l’occasione ti “fornisce alcuni spunti per un discorso generale”1 Franco Raggi, “Italy: The New Domestic Landscape”, in Casabella 366, giugno 1972.. In modo inatteso, dai ragione al curatore, Emilio Ambasz, “quando parla di “senso di colpa” dei designers italiani che, operando in una situazione dove l’impegno sociale, a molti livelli e per conseguenza nella progettazione, è carente, vedono, dietro la brillante facciata del “design”, nascondersi l’abdicazione ai veri impegni di gestione del territorio e della città”. É la critica che anche Manfredo Tafuri esprime, nel suo testo Design and Technological Utopia, contro le “derive surrealiste”2Manfredo Tafuri, “Design and Technological Utopia”, in Italy: The New Domestic Landscape, catalogo dell’esposizione, a cura di Emilio Ambasz, New York, Museum of Modern Art, 1972, p. 388 ss. del design radicale. Ma la tua riflessione ti porta oltre la cronaca dell’episodio newyorkese, e sembra condurti a criticare il fondamento stesso di una definizione del design come ambito disciplinare separato dall’architettura. Scrivi: “la pretesa di costruire per il “design” un universo conoscitivo autonomo è certamente funzionale agli obiettivi produttivi e consumistici di una società che ha nell’obsolescenza dei modelli culturali la premessa alla sua sopravvivenza economica. La condizione di necessità di apparente rinnovamento, che tale meccanismo impone, ha innescato un processo di involuzione, di autoconsumo, che ha determinato lo scollamento disciplinare della progettazione su piani diversi nei quali naturalmente l’architettura, non rientrando facilmente nella logica del consumo, è stata la meno vezzeggiata”…3Raggi, “Italy: The New Domestic Landscape”, op. cit.  

    Certo, il grande dilemma per chi, architetto, voleva essere impegnato a sinistra era tra ortodossia centralista con forte dipendenza ideologica e etica (ed anche estetica) nei confronti del Partito Comunista e della linea culturale cosiddetta organica all’impegno sociale del partito, e denuncia radicale verso ogni modello riformista dall’altra. Ma chiederei oggi a Tafuri se la coerenza ideologica a questo impegno da parte degli architetti abbia prodotto alla fine della buona architettura o almeno un positivo e progressivo rapporto con l’evoluzione del paesaggio costruito. É davanti a tutti noi il disastro estetico/ecologico del concetto di megalopoli e il fallimento dell’urbanistica nel governare i processi di crescita e di organizzazione armonica della città. Posso dire che il design, allora rampante e culturalmente pervasivo, fu un luogo ideale di sperimentazione e pratica di un approccio critico antiformalista e antifunzionalista senza nulla togliere alla forza rivoluzionaria che sul piano del costume e della cultura dell’abitare ebbero le figure degli architetti/designers degli anni 60/70. Insomma la rivoluzione che non riuscì a fare o rappresentare l’architettura la fece in modo caotico e vitale il design proponedosi come una disciplina inclusiva, antitecnica e direi anche filosofica. 

    Nel 1973, hai collaborato insieme a Aldo Rossi e Gianni Braghieri, per il film Ornamento e delitto, un’opera manifesto… 

    In realtà è stato un caso della storia nel quale sono entrato volentieri. Io non ero rossiano ma mi piaceva il suo mondo figurativo metafisico e antimoderno. A Rossi interessava la mia conoscenza di contesti internazionali e di architetti interessanti per la sua visione “razionale” extraeuropea e mi chiese di collaborare alla Triennale del 1973. Rossi amava il cinema, voleva fare un film sull’architettura usando frammenti di film, immagini di repertorio, citazioni letterarie. Una sorta di Città Analoga fatta di immagini in movimento, di parole, di citazioni e suoni. Ornamento e delitto è comunque un’opera di Aldo Rossi e per una svista notturna del titolista finii tra gli autori. 

    Il 1973 é un anno chiave. La XV Triennale di Milano é il luogo del confronto tra due “ipotesi di lavoro radicali sul Progetto come strumento di conoscenza e trasformazione sociale”4Franco Raggi, Radicalismi e diaspora creativa, testo inedito, 2017.: la Sezione di Architettura curata da Aldo Rossi e la Sezione Design curata Ettore Sottsass e Andrea Branzi, ovvero Tendenza versus Radical Design. Tu collabori contemporaneamente con Rossi alla mostra e presenti attraverso Casabella il lavoro dei gruppi Radical. Come spieghi in un commento più tardo, hai da sempre identificato una matrice comune ai due movimenti – che Branzi ha chiamato “gemelli eterozigoti”5Andrea Branzi, Una generazione esagerata. Dai radical italiani alla crisi della globalizzazione, Milan, Baldini & Castoldi, 2014, p. 16.. Per te anche la Tendenza esprimeva una forma di radicalità “nel momento in cui propugnava la totale autonomia della architettura dalle teorie economiciste e sociologiche e dalle forme omologanti dell’International Style allora imperante”6Raggi, Radicalismi e diaspora creativa, op. cit.. Situandoti tra i due fronti, hai tentato una mediazione? 

    Sì, è vero, forse ho tentato una impossibile mediazione. In effetti, la vicinanza ai gruppi radical e la contemporanea collaborazione alla Triennale di Rossi possono sembrare una contraddizione. Ne ho scritto per spiegarla anche a me stesso. Ritengo che la Tendenza rossiana e l’Architettura Radicale fossero entrambi atteggiamenti “radicali” con fondamenti di grande interesse e modi diversi di opporsi alla deriva tecnocratica non tanto dell’architettura quanto dell’economia e della società stessa. Scelsi però di appartenere al movimento che non mi chiedeva militanza, rigore formale e fedeltà al Maestro, ma lucidità critica, disponibilità sperimentale e nomadismo culturale.

    Sedia travestita da finestra, 1982

     

    Sempre nel 1973 l’IDZ (Internationale Design Zentrum) di Berlino ti ha commissionato la curatela e l’allestimento della prima mostra critica sul Design Radicale Italiano. Quale è stato il tuo approccio? 

    La mostra all’IDZ, voluta da Francois Burkhardt, riguardava il “caso Italia”, presentava tre diversi approcci italiani alla cultura del progetto (gli altri due erano il Design affidato a Vitttorio Gregotti e il contesto sociale affidato a Carlo Guenzi). Io partii immaginando che dovevo raccontare per la prima volta un movimento o un fenomeno che nel frattempo aveva già dissolto la sua compattezza teorica e mediatica. Quindi impostai il racconto sui personaggi singoli e descrissi tassonomicamente in un saggio opere, storie, intrecci, fondamenti, visioni e avversioni presenti in questa nebulosa. E conclusi parlando proprio dell’unico e ultimo progetto possibile, un progetto collettivo dei gruppi Radicali: una scuola, “un luogo dove provare” come lo definì di lì a poco Ettore Sottsass.

    Veniamo appunto all’utopia breve della Global Tools. Che bilancio fai di quest’esperienza? 

    La mostra del MoMA celebra i Radicals e ne sancisce anche la mutazione lasciando intuire percorsi e destini divisi e incrociati, che tuttavia si ricompattano in un nuovo progetto collettivo, antiautoriale e anzi didattico. In effetti la necessità di confronto e di evoluzione aprì una discussione sul “cosa” e sul “come” fare e l’ipotesi Global Tools sembrò un’appropriata camera di scoppio per far decollare nuove sperimentalità legate non tanto alle opere in sé, quanto ai procedimenti e ai modi di coinvolgimento verso l’esterno. Insomma un progetto didattico per agire, indagare e fare sperimentazione sui temi e comportamenti primari della creatività individuale come forma di liberazione. I documenti preparatori testimoniano un notevole lavoro di confronto teorico e programmatico. Il seminario della Sambuca nel ’74 fu un vero momento di ri(e)voluzione dei gruppi radicali e se non fosse abortito avrebbe portato a risultati imprevedibili… Ma forse proprio per questo fallì7Cf. Valerio Borgonuovo, Silvia Franceschini (a cura di), Global Tools 1973-1975. Quando l’educazione coinciderà con la vita, Roma, Nero, 2018.. 

    A Global Tools, accanto agli architetti radical, hanno aderito e, in alcuni casi, partecipato, anche artisti e critici d’arte, in particolare quelli dell’Arte Povera – tra cui Germano Celant e Luciano Fabro, ma anche Giuseppe Chiari. Qual é stato il loro apporto?

    Fu un apporto di sincera adesione e condivisione del progetto ma purtroppo a parte nel caso di Davide Mosconi, Nazareno Noia e Franco Vaccari, non divenne mai veramente operativo. 

    Vorrei che mi parlassi del seminario Il corpo e i vincoli. 

    Nei programmi Global Tools ci dividemmo in gruppi di ricerca che dovevano approfondire i temi e progettare l’attività didattica. Io, Sandro Mendini, Davide Mosconi e Nazareno Noia scegliemmo il tema del CORPO. Gli altri gruppi erano Costruzione, Comunicazione,Teoria e Sopravvivenza. Elaborammo un elenco ricchissimo di campi di indagine nei quali il corpo umano era protagonista (corpo fisico e anche corpo mentale). Poi restringendo il campo per poter iniziare una attività di tipo seminariale, un workshop diremmo oggi, cominciammo a lavorare sul tema dei vincoli, come strumento fisico capace di generare azioni di progetto concrete sul corpo e sulle sue parti. I vincoli (al movimento, alla visione, all’ascolto, al camminare, allo stare…) erano condizioni capaci di produrre oggetti che generavano percezioni impreviste. Pensammo e costruimmo protesi, occhiali, scarpe, arredi, maschere, con questa intenzione di produrre una specie di spiazzamento sensoriale che sottintedesse una sorta di “ergonomia inversa”. Oggetti disfunzionali, invece che funzionali, come strumenti di auto indagine sul proprio corpo. 

    Facciata cieca su ruote, travestita. 2005

     

    Nel 1974 realizzi la tua Tenda rossa – come é nato questo progetto? 

    Nel 1972 e 1973, oltre al lavoro di redattore, cominciai a fare degli schizzi di “pensieri grafici”, progetti su possibili paradossi linguistici, legati all’accostamento di opposti: case dentro case, muri in bilico, roulotte incastrate in un muro, relitti di barche con dentro una capanna… Cose e visioni che mi sarebbe piaciuto veder realizzate. Un giorno ho disegnato una tenda di forma archetipa, morbida e instabile, povera ma perfetta, dipinta come un piccolo tempio dorico. Era un oggetto semplice da fare e lo feci in modo un po’ brutale con dei lenzuoli trovati e tinti e poi il tempio disegnato a mano con le colonne convergenti in un punto lontano. È stata la mia prima opera di grande dimensione, il primo progetto che capii di voler vedere fatto. Un progetto inutile però fondamentale. Un ossimoro architettonico. Stabile/instabile, ricco/povero, pesante/leggero. É strano come certe idee non vengono a te ma sei tu che quasi vieni a loro involontariamente. 

    Nel 1975-76 sei stato segretario coordinatore della Sezione Arti visive della Biennale di Architettura di Venezia, realizzando la mostra “Europa/America” – Architetture urbane/alternative suburbane. Quale era la prospettiva di quest’esposizione? 

    Era un confronto disciplinare, teorico e poetico sul fare architettura a partire dall’eredità del Movimento moderno. Condizione vissuta nei due continenti speculari e spesso opposti, l’Europa e l’America. La storia densa e vincolante della città europea e la pragmatica libera sperimentalità del nuovo mondo e l’uso strumentale quasi accessorio della storia. 

     

    Nel 1976 il postmoderno non era ancora sdoganato e io e Gregotti cercammo di documentare in modo tematico la transizione in corso tra la ortodossia etica ed estetica del Movimento Moderno e la pluralità degli approcci che il contesto contemporaneo corrompeva in modi anche salutari. Ad esempio con letture lucide e ciniche alla Bob Venturi e i richiami all’ordine di Oswald Mathias Ungers. In mezzo figure oggi mitiche come Aldo Van Eyck, Raimund Abraham, Alvaro Siza e Hans Hollein. Credo sia stata importante anche perché alla mostra seguì un convegno dal titolo “Quale movimento Moderno?” con la presenza di tutti incluso Manfredo Tafuri. Gli atti purtroppo sono andati perduti.

    Come si é operato, per te, il passaggio dal moderno al post-moderno in Italia?

    La nostra, quella italiana, è stata una modernità attenuata e condizionata dalla presenza vitale ed ingombrante della storia e della politica. Il Fascismo assunse l’architettura razionalista strumentalmente come linguaggio rivoluzionario e di rottura, ma quando si accorse che la “romanità” esulava dal vocabolario dei moderni razionalisti sposò il monumentalismo piacentiniano. In realtà non si può parlare di transizione dal moderno al postmoderno senza considerare l’eredità cospicua del ‘900 in architettura. Movimento che ha disegnato il volto di molte città, Milano per prima e che ha mediato in chiave mediterranea e storicista il rigore intransigente dell’architettura razionalista. Figure come Andreani, Muzio, Portaluppi, Ponti, Moretti, sono il ponte tra storia, modernità, e postmodernità nell’architettura italiana e aprono la strada ad una sorta di ibridazione e mediazione continua tra storia e modernità. BBPR, Albini, Gardella, Caccia Dominioni, sono solo alcuni esempi di questa originalità italiana nell’interpretare attraverso il “mestiere” dell’architetto il passaggio al postmoderno. Che tra l’altro mi è sempre sembrata una categoria critica piuttosto vaga ed inclusiva. 

    Il progetto Metamorfosi (Medea, 1988-89) sembra rispondere alla proposta di Alessandro Mendini, di operare attraverso delle operazioni di redesign. Quale é la storia di questo progetto? 

    Non credo di poter ascrivere quel progetto alla pratica del redesign teorizzata da Alessandro. Lo inscrivo piuttosto come variante arredativa dei miei procedimenti concettuali di contrapporre gli opposti. In realtà nella metamorfosi non c’è un redesign della poltrona liberty inglese e nemmeno di una ipotetica sedia moderna. C’è solo il brutale accostamento di diversità stilistiche e temporali che genera squilibrio ed energia. Tagliare a metà le cose e vedere cosa succede sui confini è una pratica sadica che mi appartiene e mi incuriosisce. Sui confini tra diversità avvengono sempre scintille. 

    Sedia Metamprphosi 1. 1988

    Come vedi il futuro del design? 

    Non lo so, non voglio azzardare previsioni, non so farle, al massimo posso puntualizzare disagi, criticità e tensioni culturali che potrebbero e dovrebbero darci delle direzioni di pensiero e di metodo.

    In realtà, posso dire che il modo migliore per fare previsioni è quello di guardare al passato, intendo un passato recente nel quale già sono presenti le criticità e le questioni che anche oggi si pongono a chi opera come progettista con l’intento di migliorare lo stato delle cose e il nostro rapporto con lo spazio abitato.

    Qualche anno fa rispondendo alla stessa domanda ricordai appunto tre personaggi che nella cultura del progetto e del design ci hanno illuminato con le loro visioni e la loro forte componente critica, concettuale e propositiva. Te li ripropongo: 

    1964. Cedric Price con il suo mai realizzato Fun Palace propose una architettura “eventuale” slegata dalla rigidità dello spazio e della funzione, aperta e disponibile, senza forma univoca, adattabile ad usi temporali e funzionali diversi. Un’architettura che interpretava fisicamente l’evoluzione del concetti di tempo e di spazio ed elaborava un linguaggio ibrido, tecnologico e circense, promotore delle forme provvisorie e nomadi di una società in movimento. Un oggetto legato alle forme dell’uso e non alle forme rigide e mute di un linguaggio autoreferenziale.

    1971. Viktor Papanek pubblicava Design for the Real World, suggerendo, in piena espansione ottimistica della società dei consumi, una prospettiva in controtendenza per la cultura del progetto8Pubblicato in italiano nel 1973, con la traduzione di Guido Morbelli, il volume Progettare per il mondo reale (Design for the Real World, 1971) di Victor Papanek è fuori commercio da più di 40 anni. Una nuova edizione critica è in preparazione, a cura di Alison J. Clarke ed Emanuele Quinz, per Quodlibet. L’uscita è prevista alla fine dell’anno 2021. . Il messaggio di Papanek, in sintonia con i movimenti ecologisti della fine degli anni ‘60, si proponeva come un pratico manuale per realizzare nei fatti quella autarchia domestica che era omologa sul piano della produzione di oggetti alla rivoluzione libertaria dei figli dei fiori e al rifiuto non violento dei modelli ambientali ed economici prevalenti. Penso a Papanek oggi proprio per la portata trasversale del suo pensiero utopico e realistico insieme. Utopico nella spinta, attraverso la diffusione di una informazione alternativa sui modi di fare, verso una diversa cultura del prodotto e del progetto. Realistico perché rivolto all’azione pratica, all’uso di strumenti e materiali a disposizione di tutti e soprattutto attento ad una fondativa ecologia del progetto come filosofia per la conservazione del pianeta. Il design come disciplina allargata ha bisogno oggi di visioni capaci di riaprire un dialogo meno distruttivo tra l’uomo e l’ambiente costruito e non. 

    2018. In una recente videointervista Dieter Rams (87 anni) ha riproposto a livello progettuale la mitologica contrapposizione tra Dioniso e Apollo. Il linguaggio asciutto, lineare di classica bellezza del “noioso” e anodino design di Rams appare oggi quasi profetico e terapeutico di fronte alla deriva dionisiaca e superficiale di molta produzione corrente. Alla domanda del perché non avesse mai progettato una automobile, Rams risponde che più che disegnare e ridisegnare sempre più sofisticate, pesanti, ingombranti automobili, gonfie di misteriosa elettronica, bisognerebbe riprogettare prima il traffico cioè il sistema nel quale le auto e le persone si muovono, vivono e si relazionano. Rams ci insegna un design riflessivo e non compulsivo che si oppone alla proliferazione bulimica di forme che si autoinflazionano, avvitandosi in una spirale narcisistica dove il senso sfugge e l’io si appaga di breve e simbolico possesso. “Meno e meglio” è un imperativo estetico e morale insieme, che chiede di applicare un pensiero progettante con parsimonia, umiltà e poesia. Ma anche penso che oggi l’inattualità e la retrospezione possano aiutare nel ritrovare un senso al proprio fare. 

    Forse, ho nostalgia per una età delle sfide dove il design era anche rifiuto, visione, rischio, e spiazzamento semantico; in una parola: politica. 

    Disegno per tessuti con frammenti di architettura. 2019

     


    Immagine di copertina: Franco Raggi, La Tenda Rossa della Architettura, 1975

    Note