Da qualche anno, si è radicato un dubbio profondo riguardo la promessa delle reti digitali. Se esso è nato tra gli hackers e gli “hacktivisti”, che sono generalmente i meglio informati dell’evoluzione tecnologica, tale dubbio ha attecchito oggi nel grande pubblico, incluse le organizzazioni non governamentali, quali Amnesty International, che sottolineava in un recente rapporto la minaccia costituita dai giganti del digitale per i diritti fondamentali.
Come è stato mostrato da Geert Lovink, tale “blues del Net” è intrinsecamente legato all’evoluzione dei media digitali: il passaggio dal web all’Internet delle piattaforme, così come l’apparizione dei grandi “social” network, delle “app” e degli smartphone, generano una degradazione delle “pratiche” in “economia del like”, “captologia” e “nudging”, provocando diverse forme di tossicità sociale: user profiling, bolle di filtraggio informazionali, sfruttamento economico distruttore delle relazioni sociali altamente antropizzate e delle risorse psichiche con estreme conseguenze per tutta la popolazione, compresi i neonati.
Da un punto di vista geopolitico, l’egemonia delle piattaforme è giunta a sostituire alle sovranità territoriali (urbane, nazionali e internazionali) una “sovranità” funzionale o efficiente, sottomettendo le popolazioni al controllo dei giganti del web e non più alle autorità dei rappresentanti politici, intensificando al contempo i cortocircuiti delle località e quindi l’aumento dei tassi dell’entropia termodinamica, biologica e dell’informazione.
Per quanto riguarda la pratica del design, queste evoluzioni antropiche tendono a sostituire l’imperativo dell’innovazione all’esercizio dell’invenzione. Come è stato descritto da Pierre-Damien Huyghe, il design tende così a “lasciarsi andare nella gestione delle innovazioni”, a detrimento della riflessione sull’utilità e la cura delle forme che lo caratterizzano.
I designer stessi subiscono quindi il processo di proletarizzazione e ciò che quest’ultima genera: il lavoro senza qualità.
Vi sono numerose ricerche nei campi del design specializzato, design dell’esperienza utente (UX), design di interfaccia (UI), design thinking e così via, ma sono rare le ricerche sulla trasformazione dei metodi e delle tecnologie per rinforzare i legami sociali e la produzione del valore pratico.
Ebbene, si tratta di praticare un “design per un mondo reale”, cioè un design iscritto nel suo contesto e cosciente delle sue “responsabilità morali” che non ignori né il milieu tecnico contemporaneo digitale, né la sua funzione sociale.
Si porrà così la questione di come saper trarre vantaggio dalle trasformazioni digitali per reinventare e trasformare gli usi individuali e standardizzati della vita quotidiana in pratiche singolari e collettive.
I designer subiscono il processo di proletarizzazione e ciò che quest’ultima genera: il lavoro senza qualità
In vista di un’economia contributiva, al contempo economia contributiva politica ed economia contributiva psichica, si parlerà qui di design contributivo legato alla ricerca contributiva.
Ciò suppone la riqualificazione della funzione dell’attività pluridisciplinare che costituisce il design all’interno di una funzione di socializzazione e consumo, così come il sapere diviene una funzione di produzione.
Nel contesto dell’Antropocene e del disincanto rispetto alle reti digitali, il design, nel quadro delle sue funzioni sociali e politiche, deve ripensare fondamentalmente il funzionamento delle tecnologie digitali se vuole pretendere di organizzare nuovi modi di vita collettivi, integrando la funzione negantropica delle località reticolate e scalari.
Tale processo permette agli abitanti di adottare attraverso delle economie contributive i nuovi milieux tecnici caratterizzati oggi dal processo d’infrasomatizzazione (David M. Berry).
Si tratta quindi di favorire l’invenzione di nuove pratiche del design – che all’interno del digital studies network rientrano nell’ambito della organologia pratica – associando tra loro gli abitanti e permettendo loro di prescrivere localmente le trasformazioni dei loro ambienti quotidiani.
A tal fine è necessario affiancare queste pratiche con una riflessione critica fondata sui digital studies e concepire con gli informatici teorici e con i programmatori nuovi dispositivi digitali (funzionalità ermeneutiche e reti sociali deliberative) che permettano di sostenere e di intensificare delle pratiche contributive o generative[…]:
L’intensificazione delle pratiche di design contributivo, coinvolgendo gli abitanti nella concezione e costruzione dei loro ambienti tecnici e urbani attraverso delle “azioni sociali generative”.
La concezione e lo sviluppo di tecnologie digitali contributive, che permettano l’espressione degli individui, il confronto dei loro punti di vista, generando così processi di discussione, dibattito e deliberazione costitutivi di un’intelligenza collettiva.
Si tratta di avviare lo sviluppo di una nuova cultura tecnica, fondata su pratiche collettive e non su usi individuali, e di una nuova politica industriale e tecnologica che sostenga lo sviluppo di dispositivi aperti, deliberativi, contributivi e comunità di cura e capacitazione, in vista di un’economia contributiva psichica e politica.
Città aperta, design territoriale ed etica della cooperazione
Richard Sennett considera la città come un sistema aperto suscettibile di trasformarsi nel tempo e di accogliere eventi improbabili poiché pone l’incompiutezza e l’incompletezza delle infrastrutture come condizione di possibilità della città aperta, contrariamente ai sistemi chiusi, caratterizzati dalla loro sovradeterminazione funzionale, la loro integrazione, la loro omogeneità e predicibilità.
Il design, nel quadro delle sue funzioni sociali e politiche, deve ripensare il funzionamento delle tecnologie digitali
[…] Il design della città aperta deve, secondo Sennett, implementare le forme architetturali incompiute o incomplete, modificabili dagli abitanti nel corso del tempo in funzione dei loro propri bisogni.
Le forme devono poter trasformarsi assieme alle funzioni degli edifici, diventando così delle strutture evolutive e viventi.
A questo principio di incompletezza, si aggiunge la necessità della densità urbana e della diversità sociale e culturale che rendono possibili, nell’ambiente urbano, incontri inattesi e biforcazioni improbabili.
Saskia Sassen e Richard Sennett invitano a pensare le frontiere tra città, quartieri e edifici come delle membrane e non come dei muri, cioè dei limiti sempre porosi, luoghi di interazione e di scambio.
In tali forme urbane deve svilupparsi ciò che Sennett descrive come un’“etica della cooperazione”, secondo la quale gli individui si associano attraverso attività collettive per affrontare le difficoltà della vita quotidiana.
Il design della città aperta si riannoda così ai progetti di architettura partecipativa sviluppati da Lucien Kroll, costituendo delle comunità di sapere (saper-fare, savoir-vivre, saperi tecnici, saperi teorici) che si oppongono all’aumento tendenziale dell’individualismo e della concorrenza in seno alle società capitalistiche contemporanee.
La generatività sociale – in quanto processo dinamico collettivo che si dispiega in una varietà di organizzazioni, per il quale il gruppo apporta nel mondo la propria contribuzione originale lasciando una traccia del suo passaggio – permette di lottare contro gli effetti entropici dell’istituzionalizzazione producendo così, a partire da un entusiasmo condiviso, nuove dinamiche socio-economiche.
L’individuo psichico riscopre grazie a tale processo che la sua realizzazione contribuisce alla realizzazione degli altri, cioè alla loro libertà al di là di ogni logica di controllo o di dominio.[…]
Il valore condiviso, chiamato qui più generalmente valore pratico, oltrepassa il semplice valore commerciale o finanziario. Infatti, questa produzione di valore proviene, sul piano economico, dalla interrelazione dei contributori con il loro ambiente, costituendo così delle comunità di sapere negantropiche.
In effetti, è il valore dei saperi che circolando tra gli individui che permette loro di prendersi cura dei loro milieux comuni exosomatizzati – che costituiscono gli exorganismi complessi – partecipando attivamente alla produzione dei loro ambienti di vita quotidiana
Immagine di copertina: ph. Mohnish Landge da Unsplash