Quello che il design non può fare

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    “What design can’t do” è il titolo che Silvio Lorusso ha dato al suo ultimo libro; una riflessione sui limiti di una disciplina che ha da tempo valicato tutti i limiti delle altre. Abbiamo cercato di capire direttamente dalle parole di Lorusso il pensiero dietro al suo libro. Per comprendere appieno queste riflessioni bisogna però inquadrarle nel panorama attuale del progetto e fare qualche digressione utile a focalizzare il punto.

    Che il design fosse una disciplina poco inquadrata e non confinabile era chiaro, ma che proprio per questo suo non avere nessuna specificità potesse finire per arrogarsele tutte è una tendenza estrema a cui assistiamo ormai da qualche anno. Se i confini del design sono stati abbattuti, l’autocelebrazione salvifica della disciplina è un unicum la cui l’eco, però, difficilmente oltrepassa i confini degli addetti ai lavori. Forse occuparsi di tutti i mali del mondo è un carico troppo pesante per chi oggi, si appresta ad esempio a studiare design. Ed è qui che si inserisce il libro di Lorusso, visual designer, artista e scrittore con base a Lisbona, assistant professor all’Università Lusófona di Lisbona e co-direttore del Center for Other Worlds nella stessa Università nonchè tutor in information design alla DAE, insomma qualcuno che di design sa qualcosa ma che ha sentito la necessità di riflettere sul contemporaneo. Una voce che non stona, ma fa da controcanto a certa eco autocelebrativa.

    Nel libro tu scrivi che il design è rotto. Mi puoi spiegare meglio che cosa intendi?

    Nel libro scrivo “design is broken”, riferendomi al sistema design come se fosse una macchina in avaria. Con ciò intendo dire che si è definitivamente conclusa un’era per certi versi messianica, caratterizzata da un entusiasmo diffuso per il design quale forza trasformativa della società e addirittura del mondo. L’eroe (e in un certo senso il martire) dell’epoca in questione è stato sicuramente Steve Jobs. Ora è sufficiente fare un confronto con Elon Musk e le sue bizzarie, per rendersi conto del cambio di registro che si è avuto. C’è uno scarto evidente tra le promesse sociali e tecnologiche del design e la loro effettiva realizzazione. Un’ulteriore prova: nei giorni scorsi Fast Company ha sancito la fine del design thinking, ovvero la pratica progettuale che ha riscosso il maggiore successo negli ultimi anni, sia in termini economici che di popolarità.

    Abbiamo assistito e assistiamo ancora oggi ad un mantra “I designer hanno una responsabilità incredibile e possono cambiare il mondo” Perché hai sentito il bisogno invece di scrivere un libro quasi cinico?

    Ritengo che sia proprio quel mantra a risultare cinico quando confrontato con una visione più terrena del ruolo del design e dei designer. E questo non era stato ancora detto per esteso in un libro.

     

    Immagine di copertina di Ronak Jain su Unsplash

    Note

    Clicca qui per leggere l’articolo completo