Enzo Mari, prima del design

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    Enzo Mari ha lasciato un vuoto. Da quando se ne è andato, il 19 ottobre scorso, molte voci ne ricordano l’opera, il contributo essenziale al design – alla disciplina, alla professione, ma soprattutto alla coscienza della missione del design. Alessandro Mendini l’aveva dichiarato esplicitamente, diversi anni fa, “Mari è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa…”

    In questo breve testo, vorrei ricordare Mari, prima del design: rievocare rapidamente alcune delle tappe di un percorso che, partendo dall’arte conduce al design. In questa prima fase del suo itinerario, Mari non solo incrocia (e in parte anticipa) i protagonisti internazionali di quella che Lea Vergine, sua compagna di vita, ha chiamato “l’ultima avanguardia”, ma pone i fondamenti dell’intransigente prospettiva di impegno sociale e politico che animerà poi il suo lavoro di designer – e che costituisce sicuramente la sua eredità più importante.

    Quando nel 1952 approda all’Accademia di Brera di Milano, il novarese Mari aveva già iniziato a studiare arte, frequentando dei corsi serali di affresco e nudo. Aveva anche già iniziato a lavorare come progettista, disegnando degli allestimenti per negozi o fiere.

    A Brera, mentre il dibattito del mondo dell’arte è monopolizzato dall’informale, Mari focalizza le sue ricerche “sulla psicologia della visione, sulla programmazione di strutture percettive e sulla metodologia della progettazione”, con l’obiettivo di “verificare i fenomeni percettivi e individuarne e sperimentarne i modi di linguaggio ai fini dell’ottimizzazione dei mezzi di comunicazione”1 Enzo Mari, Funzione della ricerca estetica, Milano Edizioni di Comunità 1970, p. 6..

    Milano, 30 maggio 1968. Un gruppo di contestatori occupa la Triennale il giorno dell’apertura con l’esposizione sul tema “Il grande Numero”, curata dall’architetto Giancarlo De Carlo. De Carlo, a destra, discute con uno degli occupanti, l’artista Gianni Emilio Simonetti, sulla destra Enzo Mari.

     

    Risoluto (e scontroso) autodidatta, non termina l’accademia, ma produce comunque una tesi polemica “sui diversi modi di piantare un chiodo” (formula che riprenderà più tardi come titolo di un luminoso volumetto autobiografico). Il clima culturale a Milano in quegli anni è incandescente. Mari si avvicina dapprima alle attività del MAC (Movimento Arte Concreta), ma poi le sue ricerche sulla percezione e la comunicazione lo portano a interessarsi alla teoria dell’informazione che, tramite dei passeurs come Gillo Dorfles, Luciano Anceschi e Umberto Eco – alla fine degli anni ‘50 e all’inizio degli anni ’60 – è impiegata per rifondare “scientificamente” non solo la creazione artistica ma anche la disciplina filosofica dell’estetica, pietrificata nel monopolio idealista e crociano.

    Insieme ai “giovani” dei gruppi N e T, e al più vecchio, ex-futurista e inarrestabile Bruno Munari, Mari si definisce, più che artista, “operatore visivo” o culturale. Le loro sperimentazioni costituiscono i primi passi dell’Arte programmata, corrente italiana di una tendenza cinetica che movimenta in quegli anni l’arte internazionale. Contro quella che Lea Vergine chiamerà la “mistica dell’informale”, i programmati difendono una visione dell’arte non più come vaga espressione individuale ma come azione di gruppo, basata su principi verificabili e condivisibili.

    Per Mari, non ci sono dubbi, l’orizzonte dell’arte non può prescindere dalla dimensione sociale.

    All’interno della complessa costellazione dei cinetici e dei programmati, Mari traccia un percorso singolare, di impegno intransigente, per cui la creazione si fonda allo stesso tempo come “lavoro” e come “autocoscienza”. Per Mari, non ci sono dubbi, l’orizzonte dell’arte non può prescindere dalla dimensione sociale. Per questo, il linguaggio utilizzato dagli artisti deve essere semplice, comprensibile, oggettivo:

    “Quando un pittore del Rinascimento faceva un certo discorso usava dei mezzi comprensibili a tutti; quando un pittore della nostra epoca fa il suo discorso, usa dei mezzi comprensibili a se stesso soltanto. (…), l’arte – o quello che si intende per arte – deve essere comunicabile”2Enzo Mari, Intervento al dibattito « La ricerca estetitca di gruppo », Milano, Istituto di Architettura, 1963, in Ibid., p. 98., annota nel 1963.

    L’obiettivo di una comunicazione chiara e di un’utilità sociale radica le ricerche programmate di Mari in una prospettiva etica più che estetica: “nell’attuale momento storico, i valori etici si identificano con la necessità di verificare sistematicamente, con procedimenti analoghi a quelli della ricerca scientifica, i fenomeni artistici; e di impegnarsi in una conseguente azione didattica ai fini di demistificare tutto l’apparato delle convenzioni a carattere estetico che ancora oggi, il luogo di chiarire le proprie funzioni (e di conseguenza, essere realmente alla portata di ogni uomo), continuano a essere lo strumento e lo sfogo di una cultura borghese”3Enzo Mari, “Nuova tendenza: Etica o Poetica?”, prefazione per il catalogo della quarta manifestazione “Nuova Tendenza”, 1969, in Ibid., p. 99. Sull’esperienza di Mari nell’Arte programmata, cfr. Alessio Fransoni, Enzo Mari, o della qualità politica dell’oggetto 1953-1973, Milano, postmedia books, 2019, p. 95 ss. .

    In un testo del 1969, Mari non usa mezze parole: l’artista-operatore culturale “ricerca e progetta ciò di cui l’uomo ha bisogno (per la sua salute, per la sua conoscenza, per il suo divertimento, per la sua consapevolezza, per la sua possibilità di comunicare con gli altri): dalle idee agli oggetti di uso comune4Enzo Mari, Testo dell’11 Giugno, 1968, con la collaborazione di Enrico Castellani, Manfredo Massironi, R. Pieraccini, M. Spinella, L. Vergine, in Ibid., p. 99. .

    Nell’ottobre dello stesso anno, al Seminario ADI, riprenderà gli stessi termini per definire il designer : “il designer deve essere quella volontà collettiva che, mediante la coordinazione delle tecniche appropriate, programma, progetta e realizza quanto è utile al progredire della società, utilizzando lo strumento dell’industria”5Enzo Mari, Discorso conclusivo del Seminario ADI, 26 Ottobre 1968, in Ibid., p. 101. .

    “Il designer deve essere quella volontà collettiva che, mediante la coordinazione delle tecniche appropriate, programma, progetta e realizza quanto è utile al progredire della società, utilizzando lo strumento dell’industria.”

    Impegnandosi a livello internazionale, nel 1961 Mari partecipa a Zagabria alla prima riunione delle Nuove Tendenze, rete internazionale che unisce gli artisti e i ricercatori della costellazione cinetico-programmata. Nel 1963 coordina il gruppo italiano della seconda edizione, contribuendo poi all’organizzazione della terza edizione, che si tiene, sempre a Zagabria, nel 1965.

    Anche se le sue opere sono già esposte da Danese a Milano nel febbraio 1960 e poi nella personale Ricerche visive, strutture, design (Firenze, Palazzo Strozzi, aprile-maggio 1962), è soprattutto con l’esposizione Arte Programmata, curata da Munari e Soavi nello showroom Olivetti di Milano, del 1962 (ma che avrà poi una larga circolazione negli Stati Uniti), con la Biennale di San Marino, “Oltre l’informale”, curata da Giulio Carlo Argan, del 1963, e la Biennale di Venezia del 1964, che esse acquisiscono una risonanza internazionale.

    Nei lavori di quegli anni, come Progetto 725 B (1963), Mari compone delle strutture a partire da sequenze di moduli, in alluminio anodizzato e altri materiali duttili. La forma deriva dalla libera declinazione di una matrice: “il processo di prefabbricazione implica la possibilità-necessità di preordinare, con un margine di eccedenza, quantitativi di componenti prima ancora di aver definito uno specifico modello dimostrativo. La disponibilità delle componenti in eccedenza permette di sperimentare e verificare (facilmente e velocemente) una serie di varianti prima di ‘fissare’ la soluzione definitiva.

    Questa disponibilità è lo strumento di cui il ricercatore si serve per definire un modello. La modularità degli elementi (cioè la loro proprietà di aggregazione) permette, nel corso della verifica, di individuare, oltre quelle previste dalla progettazione, altre possibilità di relazione insite nella loro stessa costituzione.

    Il modulo e le sue possibilità di programma, in quando nel modulo sono direttamente o indirettamente impliciti i diversi modi di relazionarsi, sono il momento determinante della ricerca del suo progetto6Enzo Mari, in Lea Vergine, Arte programmata e cinetica 1953-1963, L’ultima avanguardia (catalogo della mostra Milano Palazzo Reale, 4 novembre 1963 – 27 febbraio 1964), Milano, Mazzotta, 1984, p. 106. . In breve, la tecnica modulare permette all’utilizzatore di comporre liberamente le forme. Lo stesso processo è alla base di alcune delle sue produzioni di design più importanti, come i multipli per Danese, la libreria componibile Glifo (Gavina, 1966) o il sistema di mobili venduti in kit di montaggio Bric, sviluppato con Antonia Astori per Driade nel 1977.

    Nel 1970, Mari pubblica Funzione della ricerca estetica7Enzo Mari, Funzione della ricerca estetica, Milano, Edizioni di Comunità, 1970., che riunisce le sperimentazioni e gli scritti degli anni ‘60, articolati intorno a due assi: “ricerca come verifica”, e “ricerca come progetto”. I due titoli appaiono come un’indicazione dell’evoluzione del suo percorso: dalla verifica al progetto. O, parafrasando la celebre tesi marxista: se gli artisti hanno da sempre interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo.

    E infatti, Mari, mosso da una pulsione etica che diviene sempre più imperiosa, mentre continua a sperimentare come artista, matura – come Munari prima di lui – la scelta del design. Sempre di più, il mondo dell’arte gli sembra paralizzato tra esibizionismi espressionisti e logiche mercantili, incapace di rispondere all’appello di una società in crisi profonda.

    Sempre di più, il mondo dell’arte gli sembra paralizzato tra esibizionismi espressionisti e logiche mercantili, incapace di rispondere all’appello di una società in crisi profonda.

    Alla VI Biennale di San Marino del 1967 (ben 5 anni prima dell’inchiesta sui Visitor’s Profiles di Hans Haacke8Il primo dispositivo di analisi del profilo dei visitatori è stato presentato da Hans Haacke, in un’esposizione collettiva, che si è tenuta nel 1972, alla John Weber Gallery di New York: https://www.artforum.com/print/197306/hans-haacke-s-gallery-visitors-profile-36288), Mari presenta un’installazione, Modulo 856, allo stesso tempo immersiva e concettuale: una cabina di legno, posta alla fine del percorso espositivo, “il visitatore si introduceva nel suo interno e lo trovava vuoto all’infuori della propria immagine affaticata (riflessa da uno specchio sul fondo) e come cristallizzata nello spazio illusorio nitidamente definito; l’ipotesi era che il visitatore risalisse dal proprio disagio a quello provocato dalla congerie delle immagini ridondanti di una grande mostra collettiva”9Enzo Mari, Funzione della ricerca estetica, cit., p. 97. Questo processo era accentuato dai formulari, redatti da Umberto Eco, che il visitatore compilava all’uscita dell’installazione. Diverse interpretazioni erano indicate, tra cui il visitatore era invitato a scegliere; l’opera “è un atto di protesta contro le mostre d’arte”?; “ripropone il mito di Narciso?”; “irride, prendendoli alla paraola, a coloro che si lamentano che dall’arte contemporanea è assente l’uomo?” .

    Nel 1968, la sua posizione critica è espressa in modo plateale, con il rifiuto di partecipare alla Documenta di Kassel. Insieme a Julio Le Parc, scrive un testo veemente contro il processo in atto, di “sacralizzazione dell’arte”, e insiste sulla necessità di rifondarne le basi, come “contributo simbolico alla presa di coscienza collettiva in vista della rivoluzione culturale10Enzo Mari, 26 Giugno 1968, con la collaborazione di Julio Le Parc, in occasione della Documenta IV di Kassel, in Funzione della ricerca estetica, cit., p. 100. .

    Enzo Mari, Falce e martello, prova della bandiera, 1973. Foto di Aldo Ballo. Courtesy Galleria Milano, Milano.

     

    In quell’anno agitato da onde tumultuose di protesta, Mari segue da vicino l’occupazione della Triennale di Milano (una celebre foto lo immortala tra il pubblico che affronta sul selciato davanti al Palazzo dell’arte un furibondo Giancarlo de Carlo), e decide di non partecipare più a esposizioni collettive.

    Il suo testo Un rifiuto possibile, sottoscritto da Enrico Castellani, Manfredo Massironi e Davide Boriani, ribadisce senza compromessi la funzione dell’intellettuale, e denuncia una spaccatura tra la missione sociale dell’arte e la mondanità delle rassegne, sempre più chiuse in un elitismo vuoto e retorico.

    Gli interventi polemici si moltiplicano e iniziano ad estendersi anche al mondo del design: dai seminari alle conferenze – come Etica e pratica, al congresso ICSID di Kyoto del 1973 e Ipotesi sulla rifondazione del progetto, discorso conclusivo del congresso dell’ADI a Milano del 1977 – ai testi-manifesti come la fondamentale Proposta di comportamento, scritta in occasione della mostra celebrativa del design italiano, Italy: The New Domestic Landscape del Moma di New York (1972).

    In questo testo, che ha provocato un grande dibattito, Mari afferma, in modo perentorio: “Il fare arte e il discorso filosofico ad esso inerente sono un aspetto della comunicazione tra gli uomini. Più specificamente riguardano le ricerche sulle proprietà del linguaggio nel loro divenire storico. L’utilità di tali ricerche sta nel fatto che esse denunciano (o dovrebbero), attraverso nuovi modelli, la sclerotizzazione delle comunicazioni in atto. La comunicazione è la componente più importante del rapporto sociale e della sua evoluzione. L’evoluzione sociale, oggi, è determinabile unicamente dalla lotta di classe”11Enzo Mari, Proposta di comportamento, in E.Ambasz, Italy: The New Domestic Landscape. Achievements and Problems of Italian Design, New York, Museum of Modern Art, Firenze Centro Di, 1972, p. 262-265. Il testo é stato pubblicato anche in un numero speciale della rivista NAC Notiziario Arte Contemporane, a a cura di Lea Vergine (Milano, Edizioni Dedalo, 8/9, Agosto-Settembre, 1971), seguito dalle risposte di 52 artisti e intellettuali – da Argan a Archizoom, da Dario Fo a Ettore Sottsass. .

    Le mostre dei primi anni ‘70 sono sempre più esplicitamente politiche, come Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe (1973) – ricostruita e ripresentata in questo momento alla Galleria Milano (accompagnata da un magnifico catalogo, pubblicato da Humboldt Books, a cura di Nicola Pellegrini, che, oltre a riprodurre in anastatica il catalogo originale, include dei saggi di Bianca Trevisan e Riccardo Venturi12https://www.humboldtbooks.com/it/book/falce-e-martello-the-hammer-and-sickle Il testo di Riccardo Venturi, Suonare a martello. Enzo Mari, Michelangelo dei fiammiferi, in una versione più estesa, è disponibile online : https://antinomie.it/index.php/2020/09/29/suonare-a-martello-enzo-mari-michelangelo-dei-fiammiferi/ ) : il simbolo comunista della falce e martello, glorificato dalle lotte politiche ma anche dalla retorica neorealista, è sottomesso a una serie di variazioni, che ne scavano le stratificazioni di senso, in un’operazione sistematica e vitale di liberazione del linguaggio, per attingere all’essenza della funzione.

    Serata dell’inaugurazione, 9 aprile 1973, Galleria Milano: Enzo Mari prende parola. Foto di Alberto Gnesutta. Courtesy Galleria Milano, Milano.

     

    Di fronte alla deriva isolazionista dell’arte, il design appare allora come la via più adatta all’impegno e a un’azione capace di avere un impatto sulla società.

    Già nel 1959 Mari aveva iniziato la sua storica collaborazione con Danese e dai primi anni ‘60, le sue produzioni di design si moltiplicano, spesso in collaborazione con l’industria, e sempre, in un certo modo, contro l’industria come sistema di valori.

    Passare dalla verifica al progetto significa per Mari spostare la ricerca, mossa dall’imperativo etico e da un’insaziabile “tensione utopizzante” sul terreno del quotidiano, “dell’utile collettivo”, dove essa non accende solo la coscienza critica ma permette una vera trasformazione dei comportamenti. Ma significa soprattutto passare da un progetto per pochi al “progetto per molti13Enzo Mari, 25 modi per piantare un chiodo, a cura di  Barbara Casavecchia, Milano, Mondadori, 2011, p. 60. .

    Note