La partecipazione culturale vive di visioni ampie e d’insieme, una conversazione con Francesco De Biase

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    Il nostro modello di sviluppo non da oggi si dimostra messo in crisi già da prima del Covid. Incapace di rispondere alle esigenze ambientali e alle diseguaglianze sociali sempre più crescenti è sempre più evidente come anche in ambito e forse soprattutto in quello culturale sia necessario cambiare, innovare e in alcuni casi rivoluzionare. Rimediare. Ri-mediare (Franco Angeli), il volume a cura di Francesco De Biase pone le basi per un ragionamento lucido ed efficace sulle necessità oggi irrinunciabili per chi fa cultura e per il suo pubblico.

    Ho incontrato in questo scorcio di fine estate Francesco De Biase, dirigente dell’Area Attività Culturali del Comune di Torino e da anni attento osservatore delle dinamiche delle professioni culturali su cui ha prodotto riflessioni e pubblicazioni da sempre punto di riferimento per chi si occupa di cultura oggi in Italia.

    Partiamo dall’inizio, come hai scelto le autrici e gli autori per comporre il volume Rimediare Ri-mediare? Che tipo di riflessioni e profili cercavi e hai voluto?

    Penso che l’unico modo proficuo per analizzare, comprendere e cercare di affrontare la complessità delle tematiche e delle problematiche sociali, economiche e culturali odierne sia la messa a confronto di esperti di diverse discipline, saperi ed esperienze. Già nel 1999 Edgar Morin nel testo Educare gli educatori sosteneva che “saperi disgiunti, frazionati e specializzati diventano profondamente inadeguati di fronte a problemi che sono sempre più trasversali, multidimensionali, globali rendendo impossibile cogliere la tessitura d’insieme”1Edgar Morin, Educare gli educatori, Una riforma del pensiero per la Democrazia cognitiva. Intervista di Antonella Martini. EdUP1999.

    I 27 autori dei contributi del testo Rimediare Ri-mediare – Saperi, tecnologie, culture, comunità, persone – sono esperti in diverse discipline e ambiti: ambiente, economia, alimentazione, salute, medicina, cultura, tecnologia, media, giurisprudenza, welfare, antropologia, psicologia, sociologia, ed esprimono le proprie riflessioni in merito a temi e problemi ampi e complessi: il modello di sviluppo occidentale con tutte le sue ingiustizie e distorsioni, l’impoverimento continuo di alcune fasce di popolazione, l’accrescimento delle ricchezze di ristrette élite; i rischi dei processi di disintermediazione in ambito economico, politico, culturale e informativo; la riduzione del welfare, del sostegno alla ricerca, all’educazione e alla formazione; la necessità di coniugare attentamente lo sviluppo di tecnologie con il bisogno di contatto, cura, socialità, comunità; la continua messa in crisi degli esperti e il non riconoscimento delle competenze e dei saperi; le luci e le ombre di molte pratiche di engagement; le forti accentuazioni dell’individualismo e delle differenze contro il senso di comunità e di appartenenza; la distruzione dell’ambiente. I temi vengono affrontati in modo interconnesso e interdisciplinare.

    In questa crisi generale del sistema di sviluppo che va dall’ambiente all’alimentazione, dalla salute fino al sociale come si posiziona la professione culturale?

    La cultura nella sua accezione più ampia e complessa potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo centrale per “ri-mediare”, intendendo con ciò sia il trovare soluzioni, risposte e rimedi, sia il rinegoziare, riformulare e riprogettare i diversi ambiti della nostra vita.  Per far ciò è necessario che la cultura assuma un ruolo più rilevante e centrale in tutte le politiche e in tutti i diversi ambiti e comparti sociali ed economici.

    Intendo dire che non vi è ancora la consapevolezza e quindi la conseguente messa in campo di tutto il potenziale trasformativo e generativo che la cultura potrebbe mettere in gioco. Capita ancora che venga invitata ai tavoli per ultima, le siano assegnati ruoli marginali, collaterali e strumentali. Altre volte viene intesa come una fabbrica di divertimentificio, o portatrice di pura funzione estetica o di abbellimento. Se concordiamo con l’idea che la cultura sia la cifra essenziale che caratterizza l’umanità e sia in grado di attivare e trasformare persone, città, individui, la cultura allora deve essere posta al “centro” di strategie, interventi e azioni per trasformare il nostro paese.

    Non vi è ancora la consapevolezza di tutto il potenziale trasformativo e generativo che la cultura potrebbe mettere in gioco

    L’antropologo Arjun Appadurai parla espressamente di futuro come fatto culturale e dice che “nella battaglia contro la povertà per creare un rapporto più produttivo fra l’antropologia e l’economia, la cultura e lo sviluppo è necessaria una profonda trasformazione della maniera in cui consideriamo la cultura. Questa trasformazione richiede di porre il futuro anziché il passato al cuore della riflessione sulla cultura. Ciò non significa che dobbiamo lasciare perdere la cultura nel suo senso più generale, tradizionale, di tessuto della conoscenza quotidiana, archivio della memoria e produttore di monumenti, arti e mestieri. Nemmeno dobbiamo denigrare l’idea che la cultura sia la fonte dell’espressione umana, intesa in tutta la sua estensione, inclusi arte, musica, teatro e linguaggio. La cultura è certamente tutte queste cose. Tuttavia, è anche un dialogo tra aspirazioni e tradizioni sedimentate. Noi, con il nostro encomiabile zelo verso queste ultime a spese delle prime, abbiamo autorizzato l’insorgere di una contrapposizione inutile, dannosa e artificiale tra cultura e sviluppo.” L’autore continua ribadendo che “riprendendoci il futuro, considerando le aspirazioni come capacità culturali, siamo certamente in una posizione migliore per comprendere realisticamente come le persone si orientino nei propri spazi sociali. E, nei termini della relazione tra democrazia e sviluppo, questo approccio fornisce una ragione di principio a favore dell’accrescimento della capacità di aspirare di coloro che hanno più da perdere da una diminuzione, ovvero i poveri stessi”2Arjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale, Raffaello Corina, Milano, 2014.

    Oggi è necessaria una profonda riflessione sul lavoro culturale, da un lato dobbiamo interrogarci su come continuare a salvaguardare, in modo nuovo, l’importante e qualificato tessuto culturale del nostro paese, dall’altro dobbiamo domandarci quali siano le sfide attuali e come si possano affrontare. Nel testo Rimediare vi sono molte indicazioni in tal senso, espressione, come dicevo, di 27 diversi esperti, proprio perché, come ho già sottolineato, penso che la metodologia che non a caso abbiamo adottato nel volume, vale a dire proporre e sollecitare interconnessioni tra aspetti diversi, sia un fattore indispensabile per andare alla ricerca di risposte adeguate alla complessità delle questioni in campo.

    Quali temi e quali strumenti sono oggi necessari per il lavoro culturale?

    I temi sono tanti dalla disintermediazione in ambito culturale, all’organizzazione e conduzione di centri e organismi, alle dinamiche della fruizione e partecipazione, al lavoro interculturale, alle potenzialità dei videogame e della rete…ecc. In questa occasione vorrei sottolineare un argomento che mi sta molto a cuore.

    Dalle diverse analisi è risultata evidente sia l’inadeguatezza di alcuni modelli di mediazione e di engagement, sia la necessità di riprogettare le policy per la partecipazione, i modelli e gli istituti di partecipazione. Una riprogettazione dovrà individuare atteggiamenti e competenze che dovrebbero possedere le diverse figure di “rimediatori, ri-mediatori”, agenti in ogni ambito e disciplina per favorire e innescare le trasformazioni messe a fuoco nel volume Rimediare e di cui si discute in più occasioni in questi mesi.

    Puoi indicarci qualche esempio?

    Abbiamo bisogno, come dice Renato Quaglia, di figure professionali “meticce, che scavallino le rigide specializzazioni, le competenze verticalizzate, le metodologie tradizionali,…..per applicare con nuove sensibilità nuovi modelli.”3Renato Quaglia in Rimediare, Ri-mediare, saperi, tecnologie, culture, comunità, persone, Franco Angeli 2020. Sarà necessario “avere alcune competenze proprie degli architetti, degli urbanisti, ma anche della sociologia, dei mediatori culturali, di un amministratore di condominio, di fund-raising, di gestione economica e culturale. Nessuna specificatamente e tutte insieme, ognuna in qualche modo e in qualche percentuale compresente alle altre”.

    Simone Arcagni parla di un “biologo della complessità, un biologo digitale che studia e interviene in tutti i processi della vita: vita vegetale, umana e digitale, la vita-non-vita”4Simone Arcagni in Rimediare, Ri-mediare, saperi, tecnologie, culture, comunità, persone, Franco Angeli 2020; una complessità che secondo Lucio Argano richiede una nuova capacity building cognitiva, che tenga conto di alcune priorità: ”avere capacità esplorative, costruire competenze che consentano di saper leggere con curiosità e rapidità la ricchezza e la criticità dei contesti in cui si agisce cercando di comprendere come si muovono le differenti trame che si intrecciano”5Lucio Argano in Rimediare, Ri-mediare, saperi, tecnologie, culture, comunità, persone, Franco Angeli 2020.

    Manzini già in Politiche del quotidiano (cheFare/Edizioni di Comunità) – del quale in Rimediare è riportato un contributo sulle comunità come spazio di opportunità – pone alcune domande in merito a quei professionisti che definisce “progettisti del quotidiano”: Qual è il ruolo dell’esperto del progetto in un ecosistema che sia al tempo stesso “abilitante e partecipativo”? Come opera nella normalità trasformativa, bilanciando accessibilità e produzione di valori relazionali? Come stimola e supporta una cultura diffusa e capace di autonomia rispetto alle idee dominanti? E più in generale qual è il suo ruolo nella costruzione di un’intelligenza progettuale collettiva che, coltivando la diversità e il senso critico, catalizzi le risorse positive per portarci fuori dalla catastrofe ambientale, sociale e culturale in cui stiamo precipitando?6Ezio Manzini, Politiche del quotidiano, Edizioni di comunità, 2018

    A seguito di queste e altre riflessioni si potrebbe ipotizzare che l’atteggiamento e l’ambiente che meglio potrebbero favorire la disseminazione, la sperimentazione e lo sviluppo di alcuni “enzimi” quali catalizzatori di processi per le trasformazioni necessarie sia “L’ESSERE IBRIDI”. (Ma questo sarà oggetto di un prossimo testo…)

    In questa dinamica ormai generalizzata a livello globale come si posiziona il caso italiano? Quali sono i principali limiti e quali i pregi del nostro sistema?

    Tale domanda richiederebbe ore intere di discussione e confronto. Mi limiterò a qualche considerazione ed elencazione. Credo che il nostro Paese abbia uno dei sistemi culturali tra i più articolati e qualificati al mondo in ogni ambito e su tutto il nostro territorio. Vi sono decine e centinaia di associazioni, cooperative, fondazioni, istituzioni, musei, biblioteche, ecc. di natura pubblica e privata che fanno un qualificato e pregevole lavoro culturale.

    Potremmo dire però che in alcuni casi scontiamo ancora il pregiudizio della divisione tra cultura alta e cultura bassa, vi è ancora un’eccessiva compartimentazione dei generi (teatro, musica, cinema, arte, ecc.). Come dicevo prima non è ancora riconosciuto sufficientemente il ruolo centrale che la cultura potrebbe svolgere nel panorama di sviluppo generale del nostro Paese. Avremmo bisogno di maggiore sostegno in ambito formativo e per le giovani generazioni. Dobbiamo ancora individuare, elaborare e sperimentare maggiormente le concezioni, le relazioni, gli strumenti, le pratiche che attengono alla cultura digitale.

    Altro tema riguarda la partecipazione e la fruizione di attività culturali. In altri miei testi ho sottolineato la necessità di lavorare per incrementare e qualificare l’accesso e la partecipazione in alcuni ambiti del comparto culturale. Non solo come intercettare, ma anche come dialogare con i nuovi strumenti, mezzi e piattaforme di creazione, produzione e distribuzione culturale che possono utilizzare sia i professionisti del settore sia tutti i cittadini.

    Come è possibile coniugare uno sviluppo tecnologico ed economico con una sensibilità sociale e culturale?

    Qualche anno fa, nel 2003, insieme ad Aldo Garbarini – autore anche di un contributo oggi in Rimediare sugli intellettuali e i corpi intermedi – abbiamo scritto un testo dal titolo già significativo in relazione alla tua domanda: High Tech – High Touch – Professioni culturali emergenti tra nuove tecnologie e relazioni sociali (Franco Angeli). In questo volume indicavamo già come una delle sfide che avrebbe caratterizzato i decenni successivi sarebbe stata la necessità di coniugare l’immenso e pervasivo sviluppo di tecnologie e media con il bisogno di contatto e relazioni fisiche, come si direbbe oggi “in presenza”.

    In occasione della pubblicazione di Rimediare, Ri-mediare lunedi 5 ottobre dalle 18 presso lo spazio Bolzano29 a Milano I nuovi mediatori. Prospettive per i professionisti della cultura. Con Francesco De Biase, Roberta Paltrinieri e altri autori del testo

    Una sfida che oggi ha assunto, dopo l’emergenza causata dalla pandemia da Covid19, una rilevanza fondamentale. Abbiamo visto pregi, qualità e criticità dello sviluppo tecnologico-digitale in tutti i campi (educativo, culturale, economico…). Non penso siano appropriati o quanto meno in grado di farci comprendere le dinamiche e criticità di media e tecnologie, atteggiamenti e giudizi, per dirla alla Umberto Eco, da apocalittici o da integrati. È in atto, ed anche in uno stato avanzato, una vera e propria rivoluzione che sta cambiando tutti i connotati della nostra vita e della nostra società. Il filosofo Luciano Floridi a proposito del modo e dell’ambiente in cui viviamo parla di “onlife” e di “infosfera”7Luciano Floridi, La quarta rivoluzione, come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2014, proprio ad indicare i cambiamenti strutturali che stanno avvenendo in noi e intorno a noi. Spesso anche in ambito culturale vi sono un utilizzo e una relazione con i media e le tecnologie diciamo di tipo strumentale alla comunicazione, alla pubblicizzazione e al marketing. Ma questo non esaurisce ed è solo un marginale utilizzo della potenzialità della cultura digitale.

    Sappiamo che dobbiamo tenere molto presenti le trasformazioni in atto perché riguardano non solo l’ambito informatico, ma anche quello biologico, comportamentale, psichico, che secondo alcuni potrebbe portarci verso una condizione post-umana. Morin dice che è necessaria una mediazione nei confronti di tali cambiamenti che deve essere “accompagnata, regolata, controllata, guidata da una metamorfosi etica-culturale-sociale”8Edgar Morin, Conoscenza, Ignoranza, Mistero, Raffaello Cortina,2018.

    Come è evoluto il concetto di partecipazione, soprattutto in ambito culturale negli ultimi anni?

    In questi anni vi è stata una maggiore attenzione ai processi e alle dinamiche della partecipazione e della fruizione culturale, parallelamente si è anche diffusa un’ampia retorica dell’audience engagement. Accade a volte, come descrive nel suo contributo la professoressa di Psicologia di Comunità dell’Università di Torino, Norma de Piccoli, che le pratiche partecipative siano limitate a proclami, interazioni banali, condivisioni strumentali, abbiano creato aspettative poi disattese. Vi sono, al contempo, numerose e pregiate iniziative in Italia di partecipazione civica, inclusione, partecipazione, appunto.

    Quali esperienze presenti nel testo ci puoi indicare?

    Nel testo vengono descritte diverse esperienze come quella che Renato Quaglia realizza come direttore generale della Fondazione FOQUS nei quartieri spagnoli a Napoli; I laboratori di quartiere di Bologna come spazi di ricostruzione delle comunità, di cui parlano Roberta Paltrinieri e Giulia Allegrini, I progetti dell’abitare di Torino, che vengono narrati da Francesco Maltese; Agostino Riitano racconta l’esperienza di Matera Capitale della Cultura Europea, le comunità del cibo sono raccontate da Stefano Colmo e da Carlo Petrini. Altri come le psicologhe Alma Gentinetta, Saura Fornero e Alice Mulasso raccontano come si possano attivare processi e percorsi individuali, gruppali e di comunità che pongano al centro la persona per curarne i disagi e le difficoltà di natura psicologica, relazionale, sociale.

    Francesco De Biase

    Vi sono poi numerose esperienze e pubblicazioni. In questi ambiti cito, come esempi non esaustivi, quelli di Alessandro Bollo, Cristina Da Milano, Alessandra Gariboldi, e molti altri ancora. In modo sintetico si tratta di rendere più stabile e meno episodica l’attenzione ai pubblici e analizzare e conoscere le dinamiche che ostacolano o favoriscono l’accesso. Sappiamo infatti che sono fattori interconnessi e interdipendenti e riguardano aspetti economici, psicologici, architettonici, di comunicazione e informazione, formazione, istruzione, ecc. Alessandro Bollo, Anna Maria Pecci, Annalisa Cicerchia, Ludovico Solima, Fabio Viola, Matteo Pessione e altri indicano strumenti ed esperienze valide in tal senso: progettare la partecipazione, non solo in fase finale dell’iniziativa/progetto culturale; progettare e ripensare gli spazi culturali; confrontarsi attentamente con la cultura digitale e con i nuovi strumenti e media.

    Indichi nella comunità il nodo centrale per recuperare consapevolezza sociale, tuttavia viviamo in una situazione di frenetica precarietà sia lavorativa che abitativa che rende sempre più fragili i nostri legami e le nostre relazioni. Dobbiamo immaginare una sorta di comunità leggera o è necessario ribaltare il paradigma?

    Ognuno di noi appartiene, in modo più o meno consapevole, a diverse comunità. Vi appartiene perché ha qualcosa “in comune” con gli altri. Apparteniamo alla comunità dei consumatori, dei clienti di un certo supermercato, di fruitori di programmi televisivi, di reti telefoniche, di un condominio ecc… Ma quanto ne siamo, appunto, consapevoli, quanto è scelto, quanto diventa significativo nella nostra vita, quanto si articola in partecipazione e scambio che trasforma un insieme casuale di persone in una comunità avvertita e connessa da intenzioni e legami sociali? La crisi della pandemia, il lockdown di questi mesi hanno messo in luce in modo evidente la rete o la mancanza di relazioni comunitarie. Ha riportato il bisogno di costruire comunità inclusive, i cui denominatori comuni si trovino nelle fondamentali necessità di convivenza e supporto sociale, ha indicato responsabilità precise in questo senso perché le comunità sono di grandezze e complessità diverse e le modalità di gestione, governance, partecipazione vanno pensate e articolate da livelli più locali e di prossimità a livelli più ampi e di portata più vasta: territoriale, nazionale e internazionale.

    Perché come indica nel suo testo Maurizio Grandi – Ri-mediare è il paradigma del futuro?

    Maurizio Grandi è un oncologo clinico, immunoEmatologo, bioetico, etnofarmacologo, da anni segnala le criticità del nostro sistema del welfare e della salute. Per Grandi Ri-mediare è il paradigma del futuro che richiede di porre al centro di tutte le strategie e gli interventi che riguardano la dignità della persona e il diritto alla salute. Meccanismi di esclusione, iniquità, economicismo, profitto prevalgono sul valore della vita umana.

    Rimediare è progettare percorsi interdisciplinari, porre attenzione alle questioni etiche e morali, favorire l’accesso alle cure, curare l’ambiente. La medicina, dice Grand, i deve recuperare il suo ruolo: l’ippocratica Ars Curandi, non solo scienza, ma teoria di rapporti tra due esseri umani. Non deve solo soddisfare dei bisogni, ma alimentare desideri e progetti a largo respiro. Il cambiamento passa attraverso la cultura e a tal fine nei prossimi mesi partirà il a Torino il Master in Antropologia della salute nei sistemi complessi di cui Maurizio Grandi è il direttore che si prefigge di realizzare una formazione interdisciplinare per “ lo sviluppo del pensiero complesso e la presente presa di coscienza di tale complessità, al fine di promuovere in ogni ambito la presenza di professionisti in grado di dialogare e orchestrare la complessità del sistema, di interagire a più livelli e in forma non lineare con le sue componenti avendo a disposizione strumenti che derivano dai tre ambiti fondamentali di insegnamento: la biofisica, la biochimica e l’antropologia.”

    Quali altre strade e intuizioni ci vuoi indicare presenti in Rimediare Ri-mediare?

    Altri tasselli di strategie, percorsi e processi per Rimediare Ri-mediare provengono dai contributi di Gianmaria Ajani per quanto riguarda i diversi ambiti legislativi nazionali e internazionali; di Roberto Burlando che analizza criticità e disfunzioni del sistema economico odierno; di Francesco Remotti che da un punto di vista antropologico analizza le diverse declinazioni della figura dell’esperto in differenti culture ed epoche storiche. Marta Maddalon compie una riflessione sulla trasformazione del linguaggio avvenuta in vari contesti. L’ultimo contributo presente nel testo, a cura del filosofo Ugo Perone, ci riporta ad una delle considerazioni centrali del volume, vale a dire la necessità di resistere alla situazione frenetica del fare a favore di una posizione “contro l’immediatezza”, che deve riscoprire il valore del pensiero, dello scambio, della consapevolezza dell’insensatezza di dare soluzioni semplici a problemi complessi

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