ἐὰν µὴ ἔλπηται, ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει…
“Senza speranza è impossibile trovare l’insperato…”
Eraclito
È giusto, anzi necessario, denunciare la crisi che ci minaccia: illustrare gli eccessi dell’industrializzazione, la deregolamentazione del clima, lo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali, la globalizzazione. Ma è giusto, anzi necessario, mantenere viva la speranza.
Se le scienze ci offrono conoscenze fondamentali per la nostra sopravvivenza, e la filosofia e l’arte ci offrono dubbi altrettanto fondamentali, il design ci parla di speranza. Si basa sulla speranza. E, viceversa, la speranza si basa sul design: non c’è speranza se non c’è la possibilità di agire sulla realtà, di trasformare l’ambiente, di adattare l’habitat, di intervenire nella società – non c’è speranza se non c’è spazio per la progettazione. Perché l’opposto del design non è, come voleva Buckminster Fuller, il caos, ma il fatalismo.
Ma dobbiamo essere d’accordo: quale design? Non più quello che, fino agli anni ‘80 veniva chiamato “disegno industriale”, concezione e produzione seriale e standardizzata di oggetti, legata ad un sistema industriale in parte superato e in parte compromesso. Né il design come gesto autoriale, come firma di un prodotto che si inserisce in un mercato più o meno selettivo o esclusivo. Piuttosto, il design come pratica sociale. Come spiegava Victor Papanek, “la pianificazione e l’attuazione, secondo un modello prefissa- to, di qualunque atto tendente a un fine desiderato costituiscono il processo di progettazione. Qualsiasi tentativo diretto a isolare il design per renderlo autosufficiente lavora in senso opposto al valo- re intrinseco del progetto, inteso come matrice primaria della vita.”. Quindi il design come strategia di sopravvivenza, come tattica di convivenza, come tecnica di metamorfosi: il design come tecnologia della speranza.
II.
“Pensare significa oltrepassare.”
Ernst Bloch
Storicamente, il legame tra design e speranza è stato introdotto da Tomás Maldonado. Il suo libro, La speranza progettuale, pubblicato nel 1970, è stato uno dei pilastri della svolta etica che ha trasformato la definizione di design, aprendo la strada a pratiche più impegnate dal punto di vista sociale, politico ed ecologico. Basandosi sulla sua esperienza alla Hochschule für Gestaltung di Ulm, dove fu insegnante e rettore tra il 1964 e il 1966, e fedele ai principi umanistici del Bauhaus, Maldonado scrive il suo libro in reazione ai movimenti di protesta giovanile che stavano prendendo piede in quegli anni turbolenti. Se da un lato esprime riconoscenza a questi movimenti, “per averci svegliati dalla nostra sonnolenza e per averci ricordato senza eufemismi che la nostra non è un’epoca arcadica, ma angosciosamente convulsa”, dall’altro, perseguendo l’utopia di un altrove radicale e di una rivoluzione irrealistica, essi sbagliano a “continuare ostinatamente a rifiutare la speranza, a non voler ammettere che il vero esercizio della coscienza critica è sempre inseparabile dalla volontà̀ di cercare un’alternativa progettuale coerente ed articolata alla convulsione della nostra epoca”. Perché la speranza è proprio ciò che permette di stabilire “un fruttuoso rapporto tra coscienza critica e coscienza progettuale“. La speranza è ciò che rende concreta l’utopia.
Fin dall’inizio, la speranza ha segnato la nascita del design industriale, sotto la forma dell’imperativo del progresso, della spinta alla crescita, del progetto di un mondo migliore, che passa attraverso lo sviluppo di macchine e strumenti, architetture e artefatti. Tuttavia, questo impulso si è presto trasformato in un meccanismo di sviluppo esponenziale che ha portato alla proliferazione illimitata dei prodotti, alla moltiplicazione delle disuguaglianze, al condizionamento dei comportamenti e dei bisogni, all’esaurimento delle risorse e al dominio degli esseri umani sugli altri esseri viventi. Di fronte alla crisi del progetto della modernità, o almeno di una certa modernità, la speranza non può più essere la stessa: il mondo migliore a cui dobbiamo puntare deve essere un mondo costruito sul rispetto, sulla condivisione. È questa nuova definizione di “mondo migliore”, questa nuova incarnazione della speranza che, negli anni Sessanta e Settanta, è stata chiamata utopia. E, come la speranza, anche il design non può più essere lo stesso. Non può più essere industriale (o non solo), deve ridefinirsi come una pratica socialmente impegnata ed ecologica – come progetto di futuri alternativi.
il programma di Maldonado appare più che mai attuale: di fronte al fatalismo, di fronte alla tentazione di ritirarsi, di fronte alla retorica del collasso, rivendicare la speranza nel design, la speranza attraverso il design
Allo stesso tempo con rigore e impegno, Maldonado nel suo libro analizza sistematicamente i pensieri di utopia che si stavano diffondendo in questi anni turbolenti nei campi dell’architettura, dell’urbanistica e del design. Senza mezze parole, esprime il suo scetticismo rispetto al nichilismo degli approcci radicali e concettuali, che, rinunciando all’azione si rifugiano nella descrizione, nella denuncia o nella rêverie. Allo stesso modo, critica il relativismo dei postmodernisti, che, in nome della libertà di espressione, lasciano proliferare il disordine e la speculazione. In entrambi i casi, la dimensione utopica appare minata dall’eccesso e dalla rinuncia: l’illusione nasconde in realtà una forma di estrema disillusione.
È contro queste derive che Maldonado prende in prestito il termine speranza dal filosofo marxista Ernst Bloch (1885-1977), che tra il 1938 e il 1947, nel suo esilio americano, aveva compilato i tre corposi volumi de Il principio speranza (Das Prinzip Hoffnung), pubblicati tra il 1953 e il 1959. Già in Spirito dell’utopia (Geist der Utopie, 1918), Bloch aveva iniziato a riflettere sull’impulso d’anticipazione, su quella che chiama coscienza anticipante, che muove gli esseri umani e li spinge non solo a interrogarsi sul loro destino, ma a progettare costantemente un futuro migliore. Redatto in uno stile teso e denso di chiaro-scuri, in cui la dialettica materialista si mescola con narrazioni drammatiche e impennate liriche, Il principio speranza dettaglia una complessa fenomenologia di questo impulso, che si esprime nell’arte, nella filosofia e nella religione, ma anche nella cultura materiale, nelle stratificazioni simboliche che rendono significativi gli oggetti più ordinari. Bloch non nomina mai esplicitamente il design, ma sembra evocarlo in diverse occasioni (del resto, in un certo senso, il design costituisce un punto cieco nell’intera filosofia critica di questa generazione, da Benjamin a Adorno, da Kracauer a Marcuse). Descrivendo il principio della speranza come una “prassi dell’utopia concreta”, egli lo ancora all’orizzonte del quotidiano, dove l’aspettativa è incarnata nell’impegno, dove il mondo è definito come un “campo concreto di progetto”. Il punto di partenza di Bloch è la famosa undicesima tesi di Marx su Feuerbach: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, ciò che conta è trasformarlo”. E mettere in pratica questa trasformazione è il ruolo del progettista? – si chiede Maldonado
Infatti, se Bloch, sulla scia di Marx, stabilisce “che la coscienza critica è il movente fondamentale della praxis avvenirista“, Maldonado precisa che essa, “se vuole operare con efficacia nel- la sfera dell’azione, dovrebbe essere anche coscienza critica della processualità̀ tecnica“. Tuttavia, rimanendo ostile a qualsiasi approccio empirico, Bloch conserva la speranza come pura intenzione, come tensione ideale, persino idealistica. Al contrario, Maldonado sceglie il realismo: l’utopia deve diventare azione, l’analisi critica deve diventare progetto, la filosofia sociale deve diventare progettazione.
Per fare questo, l’utopia deve negoziare con la tecnica: “Il silenzio tecnico mette in fuga la concretezza ed instaura di colpo il silenzio dell’azione“. Allo stesso modo, ciò che Maldonado chiama anemia razionale offusca il pensiero utopico in una nube metafisica: “il paradiso che promette è già un paradiso perduto”. La speranza deve quindi essere legata alla ” fiducia nella funzione rivoluzionaria della razionalità̀ applicata”.
Secondo Maldonado, la trappola da evitare a tutti i costi è quella di polarizzare il rapporto tra rivoluzione (oggi possiamo chiamare cambiamento ecologico e sociale) e progettazione (che oggi possiamo chiamare design), di pensare che, per superare gli eccessi dell’industrializzazione, della produzione e del consumo di massa (e quindi del design), sia indispensabile uscire dal design, rinunciare al progetto, o di considerare che, per agire concretamente nella realtà, per investire nell’innovazione, sia necessario abdicare a tutti gli impulsi rivoluzionari, mettere la museruola alla coscienza critica. Al contrario, come afferma con veemenza, Maldonado, in una formula divenuta celebre, “una ‘Rivoluzione condotta dalla Progettazione’ ha un significato reale soltanto se si appoggia su una ‘Progettazione condotta dalla Rivoluzione’”.
Dietro la patina del linguaggio dell’epoca, il programma di Maldonado appare più che mai attuale: di fronte al fatalismo, di fronte alla tentazione di ritirarsi, di fronte alla retorica del collasso, rivendicare la speranza nel design, la speranza attraverso il design.
III.
Quasi quarant’anni dopo, Maldonado guarda indietro al legame tra design e speranza e spiega:
“Ciò che oggi si intende per progettazione non corrisponde più all’idea che allora io avevo al riguardo. Dopo quarant’anni, questa parola ha assunto un’esasperante molteplicità di significati. Un po’ com’è accaduto con la parola design. Ciò che essa ha guadagnato in estensione, l’ha perso in spessore. Della tensione ideale che io le attribuivo, è rimasto ben poco. O nulla. E in quanto alla tesi della “progettazione come speranza”, la difficoltà concerne anche l’idea stessa di speranza. In un’epoca, come la nostra, in cui imperversa il disincanto, invocare la speranza, come io stesso ho fatto in passato, può sembrare un tentativo consolatorio, un’adesione fideistica alla tradizionale ‘retorica del promettere’ […]”.
l’utopia deve negoziare con la tecnica
In un momento in cui la crisi ecologica si rivela in tutta la sua estensione e i margini di manovra si restringono, Maldonado rinuncia al termine magniloquente di speranza, per lasciare il posto a quello più moderato, “più neutrale”, e, in definitiva, più convenzionale, di positività: “una positività sempre sorvegliata da uno spirito critico”.
Dobbiamo seguirlo in questo percorso? O, al contrario, dobbiamo continuare a brandire il termine speranza come un vessillo – un termine che è certamente molto connotato, ma sempre luminoso?
Questo termine può ancora identificare un approccio impegnato, in cui la critica non rinuncia all’azione, ma al contrario ne costituisce il fondamento, la stella polare, o un atteggiamento che non rifiuta la finitudine, la consapevolezza dei limiti, ma non cede alla rassegnazione?
Ci si può chiedere se, in un momento in cui l’uso di questo termine sembra sempre più difficile da giustificare, non sia proprio una prerogativa del design continuare a rivendicarlo. Se “l’arte è il desiderio e il progetto di metamorfosi di una società”, il design, prima di essere fondato sulla speranza della tecnologia, dell’azione umana sulla realtà, è la tecnologia della speranza, l’atto tecnico di una possibile trasformazione, che non deve più allontanare gli esseri umani dal resto del mondo vivente, ma al contrario riavvicinarli. Questa è la sua inesauribile ingenuità – e la sua necessità.
In occasione della ripubblicazione del testo fondamentale di Tomás Maldonado, La speranza progettuale. Ambiente e società (1970), a cura di Medardo Chiapponi e Raimonda Riccini (Feltrinelli, 2022), ripropongo in italiano questo breve intervento, redatto, su invito dell’Institut Français all’occasione della Biennale di Design di Porto e Matosinhos 2021, e già pubblicato in inglese, francese e portoghese. (E.Q.)
Immagine di copertina: Tomás Maldonado durante il Corso Fondamentale della Scuola di Ulm. Archivio HfG, Ulm. Foto di Sisi von Schweinitz.tif