Marco Trulli intervista per cheFare Alessandra Pioselli, curatrice della mostra La terra è bassa
La terra è bassa. 10 luoghi per 10 progetti è una mostra curata da Alessandra Pioselli e allestita negli spazi di Farmacia Wurmkos, spazio no profit che da anni opera a Sesto San Giovanni (Milano). La mostra propone un ragionamento sulle modalità di produzione artistica di dieci esperienze disseminate lungo la penisola italiana che, negli ultimi anni, sono riuscite a radicarsi nei contesti territoriali e ad attivare in maniera continuativa ricerche artistiche sui luoghi, contribuendo a ridefinirne gli immaginari attraverso dinamiche processuali e collaborative.
È un primo tentativo di costruire una geografia delle pratiche artistiche territoriali in Italia, l’inizio di un percorso di ricognizione di quelle realtà che, in ambito artistico, si pongono come obiettivo prioritario quello di lavorare in stretta relazione con un contesto territoriale per rileggerlo, mapparlo nelle sue trasformazioni o costruire nuove narrazioni, intime o corali. I dieci progetti operano su territori differenti, perlopiù periferici rispetto al cosiddetto sistema dell’arte contemporanea e in maniera trasversale sui diversi aspetti della promozione artistica: dalla produzione alla didattica, dalla ricerca all’inclusione sociale. Ed è, in effetti, solo attraverso un approccio multidimensionale che si può affrontare la sfida di connettere l’arte al presente del territorio e dell’immaginario pubblico.
Questa ricognizione è curata da Alessandra Pioselli che, tra l’altro, è autrice di un saggio come L’Arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi (Johan & Levi, 2015), che ha avuto il compito di organizzare una lettura dell’evoluzione delle pratiche artistiche nella sfera pubblica dal dopoguerra ad oggi, e degli innesti con la dimensione urbana e con la partecipazione politica.
In questo senso, viste in una prospettiva storica, le progettualità presentate ne La terra è bassa rappresentano probabilmente un piccolo tassello della storia dell’arte del presente e del futuro del nostro paese, una geografia minore ma dinamica, interconnessa, con una dimensione operativa fondata sul territorio locale ma con un piano di ricerca e sperimentazione molto spesso di carattere internazionale.
Proprio per questa capacità di rappresentare un sistema diffuso e permeabile, dinamico e fluido, la realtà dei progetti cosiddetti indipendenti (ma la stessa definizione sarebbe argomento di un approfondimento a parte) è sempre più frequentemente oggetto di mappature, piattaforme, mostre o convegni. È il caso ad esempio di Nesxt, network dei centri di produzione indipendenti e The independent, progetto di ricerca incentrato sull’identificazione e promozione degli spazi e del pensiero indipendente.
I dieci progetti della mostra La terra è bassa sono:
A Cielo Aperto (Latronico, Basilicata), Aperto_art on the border (Valcamonica, Lombardia), Cantieri d’Arte (Viterbo, Lazio), Case Sparse (Malonno, Lombardia), Progetto Diogene (Torino, Piemonte), GAP Guilmi Art Project (Guilmi, Abruzzo), Giuseppefraugallery (Gonnesa, Sardegna), Kaninchen-Haus (Torino, Piemonte), Ramdom (Gagliano del Capo, Puglia), Viaindustriae (Foligno, Umbria). Di alcuni temi affrontati dalla mostra abbiamo parlato con la curatrice Alessandra Pioselli.
Come è avvenuta la selezione delle dieci realtà che partecipano a La terra è bassa? Quali criteri hai adottato per scegliere quelli che definisci progetti territoriali? Che tipo di caratteristiche comuni possiedono?
La mostra è nata in seguito al convegno “Abitare l’arte. Incontro nazionale di residenze d’artista” che si è tenuto in Valcamonica nel 2017, che ho curato con Giorgio Azzoni, promosso dal Distretto Culturale di Val Camonica, FARE e AIR – artinresidence. L’evento rientrava nell’ambito di AIR tour, un progetto di AIR – artinresidence e di FARE, che ha l’obiettivo di sviluppare una forma di turismo culturale che nasce come valorizzazione delle residenze d’artista.
Per il convegno avevamo selezionato undici soggetti. La mostra nasce da una sollecitazione di Pasquale Campanella a proseguire il discorso. Il tema della mostra non è più la “residenza d’artista” ma l’operare dei progetti in sinergia con le realtà sociali e culturali dei territori di riferimento, attraverso forme di interazione e cooperazione, processi che intendono sedimentarsi nei luoghi, scrutarne la storia, le urgenze, le identità composite per rilanciarle attraverso modi partecipati. Questo era già un focus del convegno.
Nella mostra ho accolto alcune realtà che non avevano trovato posto al convegno e viceversa ho dovuto escluderne altre, anche per le dimensioni dello spazio espositivo. La mostra non esaurisce il panorama esistente e vorrebbe essere la tappa di un percorso di ricerca.
Ho utilizzato la definizione di “progetti territoriali” per sottolinearne l’istanza. Si tratta di un nesso non strumentale con il territorio, non ideologico o idealizzato ma concreto, che avanza domande importanti sull’abitare, sulla società che vogliamo, sulla nozione di sviluppo e di cultura. Sono sollecitazioni sondate spesso in luoghi “minoritari” che diventano paradigma di questioni di scala globale.
Dalla Basilicata alla Valcamonica, dalla piccola Guilmi fino a Torino per giungere poi fino in fondo alle terre estreme del Salento, i dieci progetti disegnano una geografia articolata e multiforme del paesaggio italiano e si collocano perlopiù in aree territoriali periferiche. Perché i progetti che fanno parte de La terra è bassa operano quasi esclusivamente in contesti isolati? Come riescono ad agire all’interno di questo isolamento?
Sì, molti dei progetti nascono in contesti decentrati rispetto alle grandi città e alle dorsali dello sviluppo economico: sull’Appennino, nella media valle, in piccoli comuni del centro e Sud Italia che hanno subito una marcata emigrazione e affrontano ancora problemi di disoccupazione e spopolamento, nelle cosidette aree interne del Paese.
Non tutti si situano in tali condizioni, ad esempio Viadellafucina16 e Progetto Diogene nascono a Torino ma le sedi sono rispettivamente un condominio e un tram in quartieri decentrati. In Italia la provincia ha comunque una centralità anche per le pratiche artistiche. Negli anni sessanta-settanta molte esperienze partecipate, azioni di strada ed happening ebbero come teatro urbano la provincia, per vari motivi.
Con la mostra mi interessava disegnare una geografia antropologicamente composita, differenziata, pluricentrica e illuminare aree territoriali di cultura e socialità che sono al contempo nodo di questioni irrisolte, eredi delle contraddizioni mai sanate del rapido e spesso rapace sviluppo del paese nel secondo dopoguerra. La selezione per cui ho optato va in questa direzione, voglio dire che focalizzarsi su contesti isolati è stata una mia chiave di lettura, anche se dall’indagine emerge oggettivamente una presenza significativa di progetti nei luoghi di cui si è appena detto.
Questi progetti agiscono sulla base di un approccio collaborativo e non potrebbe essere altrimenti: sono frutto di un lavoro di gruppo. Lavorare in gruppo risponde sia alla necessità pratica di rendere sostenibile il progetto, sia alla volontà di condividere una visione che riverbera sulla ricerca artistica e interroga significati, ruoli, obiettivi. È anche un’esperienza autoformativa. Tutti i progetti si muovono tramite la costruzione di reti territoriali a piccolo o largo raggio.
Un punto interessate è la relazione con le pubbliche amministrazioni. Ci sono realtà soprattutto a Sud che scelgono di rimanere autonome finanziariamente, di non ricevere sostegno pubblico, per evitare dipendenze dalle parti politiche, in particolar modo in comuni di piccole dimensioni dove i rapporti interpersonali sono centrali.
Rispetto all’isolamento andrebbe, però, sottolineato che questi progetti sono un collettore di flussi e di scambi tra il piano locale, nazionale e internazionale, tra sfere pubbliche e istanze di carattere transterritoriale.
Hai delineato una mappa concettuale che costruisce una serie di coordinate comuni e ricorrenti tra i progetti. La formazione, la dimensione residenziale, quella laboratoriale, l’attitudine comune a coltivare un territorio attraverso un lavoro continuativo di semina. Pensi che queste esperienze nascano anche come stimolo (o reazione) nei confronti di istituzioni artistiche ingessate e impermeabili?
Non lo vedo come un fenomeno che nasce per forza come reazione alla gestione dei luoghi istituzionali. Semmai allarga la sfera delle opportunità e in tal senso può essere da stimolo. Diverse esperienze nascono in luoghi privi di istituzioni artistiche, vergini da questo punto di vista, ma con l’intento di collocarsi su un piano discorsivo con il contesto, recuperandone risorse e saperi.
Vi sono esigenze alla base, tra cui, come scrive Progetto Diogene, quelle di “costruire un luogo di riflessione, di ascolto e di scambio circa i temi e le modalità della pratica artistica”, di “offrire agli artisti il tempo”, “favorire la libertà di ricerca”, “recuperare il dialogo tra artisti”.
La dimensione del tempo è centrale: esteso, a disposizione, libero, non vincolato. È un tempo sottratto alle logiche (necessarie) della programmazione che un museo o un’istituzione deve fare. Non manca pianificazione ma vive in una situazione di osmosi con contingenza e quotidianità.
Pensi che in termini di cura del territorio, di inclusione, di costruzione o ricostruzione di legami comunitari, queste esperienze interroghino la necessità di rigenerare la mission e le modalità operative di una realtà artistica in un dato territorio?
Sicuramente. Tuttavia, ciascun progetto risponde in modo diverso al territorio e si pone obiettivi specifici. Voglio dire che può esistere una mission generale di relazione tra pratica artistica e territorio ma rimane generica – sul piano delle buone intenzioni – se non declinata e verificata nello specifico e continuamente rimessa in discussione.
Credo che questi progetti e anche altri non inclusi nella mostra stiano facendo molto e senza tanti proclami proprio nella direzione della cucitura di legami, con la consapevolezza dei limiti, delle criticità, della loro fragilità e mobilità.
Nella tua ricerca preliminare alla realizzazione della mostra hai riflettuto anche sulle caratteristiche di indipendenza di queste progettualità. Come e in che modi viene dichiarata e agìta l’indipendenza di queste realtà? Che tipo di economie vengono messe in moto a sostegno di questi progetti?
‘Indipendenza’ è una parola ambigua perché postularla significa presupporre che qualche altra realtà, progetto o istituzione non lo sia. Bisognerebbe definire la natura dell’indipendenza: da che cosa? Tali progetti non fondano la propria sussistenza sulla vendita di opere e in tal senso sono indipendenti dal mercato dell’arte.
Vivono, però, all’interno di cornici relazionali. Gli attori territoriali che ne fanno parte sono in rapporto di reciproca dipendenza, di correlazione. Tali interconnessioni sono fondamentali per la vitalità di questi progetti, sono mobili perchè possono variare sulla base delle proposte che i progetti realizzano sul territorio, sono frutto ugualmente di mediazioni.
Ogni progetto costruisce network che possono annoverare cittadini, amministrazioni pubbliche, università, scuole, istituzioni pubbliche e private, associazioni locali, imprese, attori internazionali o semplicemente persone.
Rispetto alle economie, Aperto_art on the border è un programma sostenuto da un ente pubblico, il Distretto Culturale della Valcamonica. I soggetti non istituzionali cercano risorse attraverso una pluralità di canali tra cui bandi pubblici, autofinanziamento, quote associative, risorse drenate attraverso la realizzazione di “servizi” come laboratori per le scuole, partnership con soggetti istituzionali o con realtà all’estero, sostegno da parte di soggetti e enti pubblici. La sostenibilità economica è un argomento delicato, cercarla e mantenerla richiede grandi energie.