I festival hanno ancora senso? Una stagione in bilico

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    Sembra quasi di aver scoperchiato il vaso di Pandora. A pronunciar la parola Festival – e l’abbiamo fatto con un primo articolo dedicato al tema un paio di settimane fa, e continueremo in altri appuntamenti – si resta sopresi. Intanto perché sono tanti quelli che, giustamente, si sono sentiti “dimenticati” in quel primo articolo che non aveva, però, pretese di esaustività: dunque molti ancora erano da citare, a coronamento di quella riflessione.

    In secondo luogo perché se quel pezzo sollevava qualche domanda, interrogandosi sullo stato di salute e sul senso delle iniziative festivaliere, in qualche modo abbiamo dato la stura a ragionamenti più ampi, radicati, ampli. Non per merito nostro, per carità, ma perché certi temi erano, evidentemente, nell’aria. Certo non mancano esempi più che positivi, modelli di grande efficacia e successo, buone pratiche concrete, ma la questione Festival di teatro e danza in Italia è più complessa di quel che potrebbe sembrare a prima vista. E se pure ci si diverte, si fa davvero festa, si tira tardi a parlar di estetiche e poetiche, ci si scontra su questo o quel lavoro al fresco della brezza marina, resta il fatto che per molti festival il futuro non sembra né roseo né, tantomeno, garantito.

    Ci sono manifestazioni che aprono i battenti con programmi scintillanti: a Pergine Valsugana, ad esempio, dal 6 luglio con il Pergine Festival giunto nientemeno che alla 43esima edizione, ricchissimo di proposte (www.perginefestival.it), o nella bella San Gimignano, con Orizzonti Verticali (dal 3 luglio www.orizzontiverticali.net) o ancora a Lucca, dove la compagnia Aldes si confronta in danza con il mondo, la cultura, l’arte africana in una rassegna dedicata, si legge nel comunicato, «all’esplorazione di una piccolissima parte dell’enorme e variegata produzione musicale di qualità africana di cui spesso in Italia non si ha grande consapevolezza. Musica di qualità, nel senso di musica suonata dal vivo, che incrocia tradizione e una coraggiosa innovazione, un fenomeno che interessa tutta l’Africa esprimendosi in forme molto diverse» (www.spamweb.it). E ancora: si apre il 7 luglio la 37esima edizione delle Orestiadi di Gibellina, edizione speciale a cinquanta anni dal terremoto del Belice: nel cretto di Burri, il festival diretto da Alfio Scuderi propone eventi prodotti in esclusiva, prime nazionali, un laboratorio, un premio teatrale e due produzioni rivolte a giovani artisti, un weekend dedicato al decennio 68/78, e ancora incontri, letture, performance (www.orestiadi.it).

    Così, correndo da nord a sud, registriamo il fatto che, mentre si apre un nuovo festival a Alvito, in provincia di Frosinone (Castellinaria, dal 21 luglio, http://www.compagniahabitas.it/castellinaria/) un altra importante manifestazione chiude i battenti. Stiamo parlando del Festival di Terni, diretto con tenacia e straordinaria capacità da Linda Di Pietro, che quest’anno non si farà. Il festival della città umbra ha alle spalle un percorso di dodici anni, dedicato alla sperimentazione, alla contaminazione e ai nuovi linguaggi, con eccellenze internazionali e nazionali. Ma questo, evidentemente, non è bastato.

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    Una istallazione sitespecific al Festival di Terni 2017 del gruppo MAMAZA

    Abbiamo chiesto a Linda Di Pietro come valuta la situazione: «Siamo in un momento in cui “mutare” è più importante che sopravvivere. Mirare alla propria sopravvivenza o alla propria crescita, in termini di organizzazione, è meno importante che introdurre il principio che dobbiamo abitare la complessità in modo aperto, anche a costo di trasformarci radicalmente, disperdere le forme che conosciamo, attendere che ne emergano delle nuove.

    Dovremmo chiudere più festival, festival che dopo 50 anni sono tenuti in vita da un ossigenatore, festival usati come etichette per camuffare le rassegne dei teatri stabili, e dovremmo sostituirli con nuove progettualità. Dovremmo chiudere per aprirci e liberare spazi di manovra a formule nuove o forse solo più rilevanti per il presente. La nostra comunità ha reagito di pancia difendendo la creatura festival anche in un’ottica di posizionamento regionale della città di Terni, individuando sorprendentemente in esso un presidio in grado di dar voce a Terni come città del contemporaneo in Umbria. Subentra anche una sfumatura di nostalgia e rabbia, e il velo dell’espropriazione, che tuttavia non assecondiamo ma vogliamo trasformare in un atto produttivo e occasione di riflessione. Riferendoci poi alla comunità diffusa di amici del festival – continua Di Pietro – la solidarietà si è fatta ancora più estesa e composta da tutti quelli che hanno firmato e sostenuto il nostro appello contro la chiusura: una popolazione colorata e generosa che racconta un mondo nazionalità, professionalità e istanze le più vivaci e disparate».

    Di fatto, a Terni e non solo, resta un vuoto, una mancanza, una sparizione legata a motivi di opportunità politica e territoriale oltre che artistica. La questione, infatti, è legata alle scelte del Teatro Stabile dell’Umbria, cui il Festival di Terni si era unito tre anni fa, in una jointventure che avrebbe dovuto portare giovamento a entrambe le istituzioni. Il teatro di Perugia, presieduto dall’industriale Brunello Cucinelli, si è trovato in dote il finanziamento di circa 150mila euro, poiché il festival era reso possibile dal contributo regionale (sin dal 2007) e da quello nazionale (fino al 2014). Poi, nel 2015, arriva l’accordo triennale con lo Stabile dell’Umbria che cambia il panorama: «noi – dice ancora Linda Di Pietro – trasferivamo a loro la titolarità del contributo Fus e regionale storicamente assegnati al Terni Festival, loro ci sostenevano finanziariamente e operativamente. Lo abbiamo fatto non solo per soddisfare i nuovi criteri voluti dal Mibact, ma anche per avviare una collaborazione virtuosa, capace di rispondere alla vocazione artistica del territorio umbro, ibridando tradizione e contemporaneità, storia e innovazione. A dicembre 2017, la direzione del TSU ha deciso di non riconoscere più il Terni Festival come componente strategica della propria attività, di non farsi più garante di un bene così prezioso».

    Nino Marino, neo direttore dello Stabile dell’Umbria dopo la lunghissima direzione di Franco Ruggieri, ribatte ai microfoni del magazine TeatroeCritica: «A seguito del commissariamento del Comune di Terni e della decisione da parte dell’amministrazione di revocare del 50% il contributo per la realizzazione della stagione di prosa, diventa insostenibile per il TSU la totale gestione del festival e abbiamo bisogno di altri, e più strutturali, interventi. Mi dispiace se quest’azione viene letta come un segno di negligenza: il Terni Festival è indubbiamente una realtà da proteggere, in questi tre anni abbiamo fatto da garante cercando di consolidare il sostegno ma ora è giunto il momento di dover riquadrare la situazione con il Ministero».

    Dunque? È una questione di soldi? Di politica culturale?  E soprattutto vale la pena chiedersi che succederà a Terni.

    «Terni è una città complessa, spigolosa, umile per certi versi – conclude Linda Di Pietro – una città dove se si vogliono fare, e condividere con altri, incontri straordinari, bisogna avventurarsi in luoghi sconosciuti, come è stato nel 2006 quando abbiamo cominciato a riportare all’uso collettivo l’ex stabilimento SIRI, oggi rinominato CAOS, Centro Arti Opificio Siri. Uno spazio in cui la produzione artistica contemporanea riesce a rendere il patrimonio pubblico realmente accessibile e vissuto, rigenerato e riconsegnato alla cittadinanza grazie a processi partecipativi e condivisi, con una forte base di propulsione civica e con sostegno pubblico e privato. CAOS dimostra che esiste un’Italia “efflorescente”, fatta di organizzazioni innovative, che escono dai canoni predefiniti delle tradizionali istituzioni culturali e che abitano tantissime province del nostro paese. Mi auguro quindi che accanto alla geografia della grande manifattura siderurgica e dell’industria chimica in Italia, Terni resti sempre anche nella mappa della cultura e dell’innovazione per la propria capacità di ripensare il ruolo dell’arte nei processi vitali delle città».

    Insomma, forse valeva la pena fare come Pandora, continuare a tenere aperto il coperchio del famoso vaso: provare a far venire fuori i guai e lavarli in pubblico, i panni sporchi, smettendo di far finta che tutto vada bene, che tutti siano felici.

    Interrogarsi, ancora di nuovo, sul senso dei Festival di Teatro e Danza. L’abbiamo chiesto ad Attilio Scarpellini, critico, storica voce di Radio3Rai e sensibilissimo osservatore del mondo teatro. Per Scarpellini i festival hanno ancora un senso profondo, quello di favorire il teatro di ricerca e sperimentazione. «I festival – dice – sono un ritorno alle origini del teatro di ricerca, che effettivamente è nato in piccoli spazi, come le cantine romane, o in luoghi marginali, come Santarcangelo, Monticchiello, o più tardi a Castiglioncello. Il teatro di ricerca non è stato mai centralistico, rispondendo in parte al grande teatro di regia che abitava notoriamente a Milano, Genova, Torino, Roma… Inoltre, i festival rappresentano ancora oggi, senza dubbio, una pausa “festiva” all’interno di una vita teatrale che nelle città procede a sbalzi, secondo le programmazioni dei teatri nazionali che non sempre rispondono alle esigenze degli spettatori più preparati. Ma in questo si avverte anche un pericolo, ossia il rischio dell’autoreferenzialità dei festival stessi: ognuno di questi festival ha creato un proprio piccolo mito, un suo pubblico di chierici vaganti, di operatori erranti che passano da una manifestazione all’altra.

    Comunque, il “tempo del festival” è ancora oggi una delle poche forme comunitarie di ascolto teatrale. Il problema, semmai, è quello del pubblico futuro, ossia fuori dai festival: ogni anno vediamo spettacoli, anche abbastanza importanti, che poi non ritroviamo nella programmazione dei teatri ufficiali. Il vero vulnus, il vero punto di crisi sta nel rapporto tra il teatro di ricerca, la sperimentazione e la produzione reale, dunque nella continuità e nella distribuzione degli spettacoli stessi. In alcuni casi questo accade, ma c’è una grande dispersione, una grande entropia di opere. Senza dimenticare che i festival sono spesso finanziati o sostenuti dalle istituzioni teatrali e quando questi contatti cadono, come avvenuto per Terni, il festival semplicemente chiude. Ecco il punto: i festival rischiano la vita a ogni edizione».

    Per Scarpellini, insomma, è lo stato di assoluta precarietà a limitare fortemente il potenziale creativo e innovativo dei festival di teatro e danza: finanziamenti ridotti e spesso in ritardo, rapporti non garantiti con le istituzioni, assenza di un sistema strutturato che possa garantire programmazione con tempi lunghi e investimenti sul futuro. Tutto si consuma in fretta, e del doman, come al solito, non v’è certezza.
    Inutile ricordare che le programmazioni dei maggiori festival europei si fanno con due o tre anni di anticipo: in Italia si programma il mese prima, e ci si accontenta spesso di chi si trova libero sul mercato.

    Dunque non si semina nulla? Nulla si radica? Scarpellini risponde alla domanda con un’altra domanda: «Se non si semina nulla nell’esistente, è colpa dei festival o delle istituzioni teatrali che non raccoglie?».

    E continua pensando ai prossimi anni: «Il festival del futuro dovrebbe essere un grande luogo pubblico aperto dall’arte e dagli artisti. Il più grande possibile, rivolto a più persone possibili. E deve avere la capacità di trasformare, per alcuni giorni, il disordine in cui viviamo in un fatto comunitario.

    Ma tutto questo lo deve fare l’arte, altrimenti rischiamo lo faccia chi con l’arte non ha nulla a che vedere. Anche il progressivo spostamento dei festival di teatro verso la performance, l’arte contemporanea, rischia paradossalmente di mettere in secondo piano proprio il momento della creazione artistica. Ed è una falsificazione su cui bisogna riflettere. Sorprende che grandi festival di teatro di colpo dichiarino di non avere più il teatro al centro: qualcosa non va. Invece è proprio la parola Teatro a dover essere affrontata, discussa, messa a fuoco».

    Insomma il “corebusiness” va rimesso al centro del discorso, o forse della discussione, facendo piazza pulita di mistificazioni e commercializzazioni, di contraddizioni e nodi da troppo tempo irrisolti.

    Che la parola “festival” sia lievemente abusata è ormai chiaro a tutti: l’abbiamo scritto e detto.

    È d’accordo anche Fabio Masi, che con Angela Fumarola dirige il festival Inequilibrio di Castiglioncello: «Che senso ha un festival? Con Angela ce lo chiediamo continuamente – esordisce Masi – e crediamo che i festival abbiano senso se profondamente radicati in un progetto artistico da costruire nel tempo, nell’arco di un anno, insieme agli artisti. Per il 2018, ad esempio, abbiamo puntato meno sulle ospitalità per dare maggior spazio ad artisti con cui abbiamo avviato un articolato percorso di sostegno e accompagnamento. Il castello Pasquini di Castiglioncello è sempre più una casa d’artisti.

    Crediamo che questo lavoro abbia senso anche da un punto di vista politico, perché una simile azione fa dell’arte uno strumento per incidere di più nella comunità di riferimento e nella società. Anche un festival deve dunque calarsi, attraverso il lavoro degli artisti, dentro i problemi della società: invece questa attitudine si è un po’ persa in tanti festival, diventati nel tempo più “vetrine” che non luoghi di pensiero e azione».

    Per Masi occorre tenere salda la barra, ricalibrare il tiro proprio sul quel teatro di ricerca di cui parlava anche Attilio Scarpellini: «Se è vero – continua il direttore di Castiglioncello – che certe regole ministeriali, a fronte di finanziamenti, obbligano i festival a una serie di attività in qualche modo di “vetrina”, ossia basate su presentazioni e debutti o prime, mi pare necessario un richiamo a noi stessi, un appello affinché si ritrovi una identità, un tornare a quello che ci distingue. Ci sono percorsi differenti per raggiungere questo scopo, ciascuno può seguire il proprio, ma credo che il lavoro con gli artisti del nostro tempo sia prioritario: cosa che, ad esempio, tanti festival che sono rassegne-vetrine sicuramente non fanno».

    Non solo: aprire sempre più al confronto internazionale, alla transdisciplinarietà, al ricambio generazionale sono per Fabio Masi altri grimaldelli possibili per scardinare i meccanismi consunti di tanti festival.

    Ed è in atto anche un tentativo di incontro e confronto a più voci: molte strutture “storiche”, legate al teatro di ricerca italiano, si stanno trovando per avviare una discussione sullo stato e le prospettive dei nostri festival. Nella diversità di prospettive e scelte (tutte da verificare) ci saranno incontri, il prossimo previsto a settembre a Prato, per riflettere su un tema spinoso quale l’identità di simili manifestazioni e per affrontare problemi ormai sotto gli occhi di tutti: rapporti con le amministrazioni locali e centrali, pubblico, confronto con quelle iniziative di carattere palesemente “turistico”, con quegli eventi estemporanei che gratificano solo l’assessore di turno, con quei “grossi nomi”, i vari testimonial tv che farebbero tanto bene al teatro.

    Conclude Masi: «dobbiamo insistere sui codici dell’arte contemporanea per pensare al festival del futuro. È la nostra identità, la nostra storia: nella diversità, nella specificità di ogni festival, dobbiamo ritrovare quell’identità che nasce dall’arte scenica contemporanea. Attraverso gli artisti possiamo, ancora, capire il mondo».


    Immagine di copertina: IL CRETTO DI BURRI a GIBELLINA dove prende vita il Festival Orestiadi

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