Tubula rasa. Memorie del sottosuolo di Gordon Matta-Clark

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    La famiglia Matta adorava i sotterranei di Parigi. Alla metà degli anni cinquanta, i due gemelli Gordon e John Sebastian, di tredici o quattordici anni, restano incantati non dalla Torre Eiffel ma dalle catacombe e dalle fogne, così come da un complesso sotterraneo risalente alla Rivoluzione francese e utilizzato dai tedeschi come rifugio antiaereo durante la Seconda guerra mondiale. Ufficialmente chiuso al pubblico, “tutti i clochards di Parigi lo conoscevano e quando gli studenti erano in difficoltà nel 1968, i clochards mostravano loro come orientarsi sotto i Giardini di Lussemburgo”. Questa la testimonianza di Malitte Hoch Pope, una delle cinque mogli di Roberto Matta, che frequenta il pittore tra il 1954 e il 1969.

    L’escursione di Gordon e John Sebastian non era inedita, se pensiamo alle descrizioni di Victor Hugo nei Miserabili, dove la storia degli uomini si riflette nella storia della cloaca, dove la cloaca è la coscienza della città: “Parigi ha sotto di sé un’altra Parigi, una città di fogne, che ha vie, crocicchi, piazze, una circolazione che è di fango e dove manca soltanto la forma umana”. O ancora: “La fogna di Parigi è stata una cosa formidabile; è stata sepolcro e asilo; il delitto, l’intelligenza, la protesta sociale, la libertà di coscienza, il pensiero, il furto, tutto quello che le leggi umane perseguitano e hanno perseguitato si è nascosto in quel buco”.

    Essere attratti da quel buco – buio, disabitato, angusto, claustrofobico – non va da sé per un architetto di formazione quale Gordon Matta-Clark. Ma lui, anarchitetto che non ha mai costruito niente, coglie la complessità e il potenziale dell’infrastruttura invisibile dello spazio urbano.

    Il sottosuolo però pone a Matta-Clark almeno due problemi. Anzitutto non si può picconare e sezionare come ha fatto con l’architettura di superficie. Il sottosuolo inoltre lo induce a misurarsi per la prima volta con una temporalità dilatata se non geologica, agli antipodi dei suoi interventi effimeri, fatti per essere distrutti poco dopo la loro realizzazione. Decide così che esplorerà e restituirà la fisicità e la durata di questi spazi attraverso il medium fotografico e filmico.

    Il rapporto di Matta-Clark con il sottosuolo non è mai stato analizzato in modo sistematico malgrado la nutrita bibliografia sull’artista. Qui mi limiterò a un breve viaggio cavernoso, illuminato dalla parola dei protagonisti.

    Fisicità del tubo

    Substrait, girato nel 1976 a colori e in b/n non appena si scende sottoterra, è conosciuto anche come Underground Dailies. Un titolo che, come ha spiegato recentemente l’amico-assistente G.H. Hovagimyan, si riferisce ai giornalieri, ovvero, nel linguaggio del cinema hollywoodiano, al totale del girato di una giornata, sviluppato, stampato ed esaminato dal regista. I luoghi di New York prescelti sono: la Cattedrale di St. John the Divine; l’estensione della metropolitana (BMT) su Archer Street; le fognature e la stazione di pompaggio sulla 13ima Strada; i sotterranei della Grand Central Station; il tunnel dell’acqua ad alta pressione.

    Matta-Clark non si avventura da solo: a due riprese è presente G.H. Hovagimyan e la compagna dell’artista, Jane Crawford. Ad Harlem “Gordon ha trovato un muro abbattuto nel parco circostante che permetteva d’entrare in un acquedotto abbandonato. Faceva parte della rete idrica originale di New York. Quando siamo entrati nel tunnel abbiamo visto che misurava circa due metri e mezzo di diametro, assieme a una costruzione tubolare in mattoni”. Matta-Clark riesce ad intrufolarsi anche a Grant’s Tomb, il più grande mausoleo negli Stati Uniti, allora in stato di abbandono e ricoperto di graffiti.

    Hovagimyan ricorda anche la galleria della rete idrica, cui si accedeva con un ascensore che scendeva 180 metri sottoterra: “Il tunnel si estendeva tre chilometri in una direzione e un chilometro e mezzo nella direzione opposta. Questo prima delle macchine per realizzare i tunnel ora in uso. Il processo consisteva nel praticare dei buchi nel muro e inserire la dinamite, farla esplodere e quindi rimuovere i detriti. Un processo in linea con la rimozione come scultura praticato da Gordon”.

    Altro accompagnatore d’eccezione è l’artista Chris Burden allora ventenne: “Un’altra volta siamo scesi in un tunnel vicino ai Chiostri. Abbiamo noleggiato una macchina, preso un po’ d’attrezzatura cinematografica e siamo partiti in esplorazione del tunnel”. Matta-Clark, continua, voleva esplorare “la fisicità del tubo: voleva incorporare i tunnel in un’opera”.

    Matta-Clark coinvolge infine Dennis Oppenheim: “L’ultima cosa di cui abbiamo discusso erano le gallerie che intendeva scavare. A volte era difficile dire se stesse scherzando – scherzava sull’idea di perforare un tunnel nei pressi di una banca. […]

    Il desiderio di Gordon di dissotterrare i fenomeni esteriori era molto legato al corpo e in qualche modo a quanto gli stava accadendo”. Il riferimento è alla malattia che un dottore scoprì aprendolo all’altezza del pancreas e che se lo porterà via in tre mesi, a soli trentacinque anni.

    Queste testimonianze ci permettono di cogliere lo spirito del fare matta-clarkiano: nei sotterranei non cercava le fondamenta quanto il vuoto. Detto altrimenti, pensava le fondamenta come un vuoto e non come un pieno, non come una pietra sopra la quale poggia fisicamente una struttura. L’artista lo ha detto con una sola parola, intraducibile in italiano, ma che dà il titolo a un “building alteration project” esposto a Genova nel novembre 1973: A w-hole house. Hole/Whole: pieno e vuoto si ricongiungono.

    Come pensare la capacità di questi spazi sotterranei di fare il vuoto? come pensarne la cavità e la vertigine, propria a città porose come Napoli, dove i nostri piedi poggiano su una voragine che potrebbe inghiottirci da un momento all’altro? In tal senso le esplorazioni sotterranee di Matta-Clark si ricongiungono ad altre sue opere come Fake Real Estate, quelle quantità di spazio inabitabile e spesso inaccessibile nel Queens, che Matta-Clark acquista, mappa e fotografa in quello che resta forse il suo progetto più concettuale.

    La passione per il vuoto architettonico corre inoltre parallela alla necessità d’infrangere qualsiasi ambiente confinato, su cui ha insistito l’artista Richard Nonas: “Era interessato ad aprire spazi chiusi: alcuni erano edifici, altri spazi sotterranei […] E faceva cose nell’aria […] Si trattava di aprire mondi creati dall’uomo che riteneva fossero stati chiusi, compressi, resi oscuri non solo riguardo alla luce ma anche riguardo alle emozioni. Gordon modificava lo spazio in cui lavorava. E lo faceva in un modo insolito che ti sorprendeva e ti confondeva”.

    Archeologia vivente

    L’anno successivo, nel 1977, Matta-Clark è a Parigi. In Sous sol de Paris veste i panni di un flâneur del sottosuolo che esplora: una cripta sotto un palazzo del sesto arrondissement, le catacombe sotto boulevard Saint-Michel, i sotterranei de Les Halles e dell’Opéra Garnier, dove va alla ricerca del famoso fantasma. Nel film si susseguono cunicoli che scendono vertiginosamente nell’oscurità, cantine per conservare il vino, muri con placche incise e graffiti, pozzi e ossari. Una discesa senza coordinate precise, che il film non aiuta a ricostruire. Secondo un criterio vagamente morfologico, si succedono varie cavità, dal fondo delle bottiglie di vino alle orbite dei teschi conservati nelle catacombe di Denfert-Rochereau.

    Le viscere e la sedimentazione storica di Parigi affascinavano all’epoca altri artisti americani, se pensiamo al progetto di un cinema sotterraneo di Robert Smithson risalente al 1971. Su uno schermo scavato nella roccia e dipinto di bianco, sarebbe stato proiettato un solo film, un documentario sulla costruzione stessa della sala – un dispositivo tipico del cinema strutturalista – coi sedili di roccia e il proiettore protetto in una torretta di legno grezzo. Che Smithson conoscesse a memoria La Jetée (1962) di Chris Marker non sorprenderà. E Matta-Clark aveva senza dubbio in mente l’idea di non-site di Smithson, incontrato quando era studente alla Cornell University e assisteva diversi artisti per la mostra Earth Art nel locale Andrew Dickson White Museum of Art. A Smithson Matta-Clark s’inspira per i suoi nonuments, non-monumenti, spazi negativi del tessuto urbano di cui i sotterranei sono l’epitome.

    Sous sol de Paris si lega a un altro grande artista americano, Robert Wilson, che Matta-Clark frequenta all’epoca in cui il regista lavora a Einstein on the Beach: “I cambi erano fatti nella penombra. Gordon disse che guardare la scena cambiare in quella penombra si legava alle sue esperienze sotterranee a Parigi”, ricorda Wilson.

    In sintesi, il film parigino permette a Matta-Clark di precisare il suo interesse per la “living archaeology”, come la chiama dai tempi di Substrait (lettera a Dennis Wendling, 20 aprile 1976). Matta-Clark intende “esporre un’archeologia vivente della città e realizzare un ritratto delle sue fondamenta” (Mary Jane Jacob).

    Del resto gli piaceva l’idea di essere considerato, più che un architetto, un archeologo urbano: “Amava l’idea delle civiltà che si costruiscono una sull’altra. […] persino nel Bronx, scavando in un edificio fatiscente, potevano trovarsi quattro o cinque strati di pavimenti in linoleum, dove invece di strappare il vecchio pavimento, gli occupanti si erano limitati ad applicare un altro strato di linoleum o moquette; e lo stesso per le pareti e per i tetti” (G.H. Hovagimyan).

    A questa archeologia della città segue, come ha osservato Briony Fer, un’archeologia dell’immagine fotografica. Da Sous sol de Paris infatti Matta-Clark ricava quattro “photoscrolls”, composizioni fotografiche che alternano architettura civile (Tour Eiffel, Opéra) e religiosa (Notre Dame, Sacré Coeur). Disposte in verticale, sono come un taglio trasversale inciso nella terra: in cima la strada, in basso una grata che copre l’acqua, nec plus ultra fisiologico della sua esplorazione sotterranea. Un montaggio di negativi ritoccati, una pratica non convenzionale che ricorda le sue Photo-Fry (1969), all’intersezione tra chimica e alchimia: “Era stato avvertito che un grande fotografo non toccherebbe mai il negativo. Era come una bandiera rossa per lui. Ha iniziato aggiungendo aglio e olio ai suoi negativi e poi li ha fritti. Ha finito per tagliargli e registrarli insieme, quindi per stampare le foto” (G.H. Hovagimyan).

    Scavarsi la fossa

    L’ultima tappa del viaggio agli inferi di Matta-Clark ci obbliga a passare per una vicenda biografica su cui ha mantenuto un grande riserbo. Il 14 giugno 1976 – l’anno delle prime esplorazioni sotterranee – John Sebastian detto Batan, suo fratello gemello con cui da piccolo era sceso nei sotterranei di Parigi, si toglie la vita o, la dinamica non è mai stata chiarita, cade inavvertitamente dalla finestra del loft a Soho di Gordon, che lo aveva invitato a riposarsi qualche giorno.

    Nel giugno 1977 Gordon si trova a Parigi, città paterna, di un padre che lo ha abbandonato quando è nato e che non s’interesserà mai alla sua opera, Conical intersect inclusa. Invitato ad esporre alla galleria Yvon-Lambert sulla rive gauche, Matta-Clark realizza uno dei suoi lavori più sinistri, l’unico in cui il nome del fratello fa capolino, Descending Steps for Batan (1977). Durante l’orario di apertura della galleria e per tre settimane (dal 21 aprile 1977 alla prima settimana di maggio), scava un buco di circa 4,5 metri sul pavimento del piano inferiore, visibile agli spettatori attraverso un piccolo lucernario al pianterreno. Richard Nonas ricorda che il gesto di Matta-Clark non era accompagnato da alcun testo esplicativo all’interno della galleria: “Non era una performance, ma la creazione di un oggetto, la modifica di un luogo, la stessa cosa che tagliare gli edifici”.

    Quest’inabissarsi incessante e senza meta, questo rituale di sepoltura in cui Matta-Clark scava una caverna se non la propria fossa, s’interrompe solo con la fine della mostra. Come il buco di Conical intersect è distrutto dalle ruspe, quello di Descending Steps for Batan sarà ricoperto e reso invisibile.

    In finale, cosa spinge Matta-Clark a esplorare il mondo sotterraneo al di là dell’elaborazione del lutto? Una delle sue risposte è curiosamente gastronomica: “Lavoro in modo simile in cui i buongustai cercano il tartufo. Voglio dire, un tartufo è una cosa fantastica seppellita da qualche parte nella terra … A volte lo trovo. A volte no”. Un’altra combina piuttosto archeologia e science-fiction: “una ricerca di spazi dimenticati lasciati sepolti sotto la città, o sotto forma di riserva storica o di ricordi superstiti di progetti persi e fantasie smarrite […] Quest’attività comprenderà l’atto di mappare, rompere e scavare queste fondazioni perdute: tornare a lavorare nella società dal di sotto” (intervista con Donald Wall, marzo 1976).

    È un modo di sfuggire alla dialettica sopra/sotto e interno/esterno: aprendo in due una casa, l’interno diventa esterno, il domestico diventa pubblico, la stabilità attribuita all’architettura si fa precaria. In una recente mostra, nell’insieme poco incisiva (Gordon Matta-Clark Anarchitecte, al Jeu de Paume di Parigi fino al 23 settembre), Sous sol de Paris è esposto nella stessa sala di Conical Intersect. Ecco confrontati da una parte il periscopio scavato attraverso i palazzi prospicienti il nuovo Centre Pompidou, dall’altra la forma circolare dei pozzi sotterranei. Ritroviamo la stessa relazione tra alto e basso nelle prime opere, come Cherry Tree e Time Well, ovvero la sospensione delle amache tra gli alberi e il primo tentativo d’investire il sottosuolo.

    Colonizzare gli inferi

    Immaginiamo di estendere un edificio in altezza quanto in profondità: è questa una della fissazioni di Matta-Clark: “Mi piacerebbe estendere l’edificio al di sotto quanto al di sopra, come un motivo alchemico in cui esiste una precisa dicotomia – o equilibrio – tra il sopra e il sotto” (intervista con Judith Russi Kirshner). Matta-Clark si accorge presto che la seconda dimensione non è facile da esplorare: “Mi sono occupato di penetrare superfici strutturali e contenitori architettonici. Adesso m’interessa quello che c’è sotto la città. Cosa la sostiene, quali sono le sue fondamenta. Ma penetrarvi è molto difficile”. Lamentando la difficoltà nel reperire informazioni, suggerisce: “Qui l’intera questione della sovversione mi sembra più immediata. Perché la proprietà è forse più vulnerabile dal basso. E ‘sotto’ significa che la proprietà inizia da qualche parte” (intervista con Liza Bear, marzo 1976).

    L’attenzione congiunta al sopra e al sotto comporta un attacco – architettonico quanto politico – a quell’asse verticale e cardinale che li separa e li fissa in una gerarchia di valori. Salire vuol dire elevarsi, scendere vuol dire abbassarsi, degradarsi, cadere in basso. La stessa direzionalità governa l’anatomia umana, con la testa nobile sede del pensiero, i piedi in quanto estremità da tenere lontano dalla vista. Idem per l’architettura, come nella distanza economico-politica tra l’attico e il seminterrato.

    Ora, Matta-Clark non ha fatto in tempo ad assistere al tentativo recente di riscrivere questa polarità. Una mossa inattesa, operata non dalla critica sociale e, in tutti i sensi, underground promossa dall’anarchitettura di Matta-Clark, ma dalla religione del capitalismo che niente sembra poter perturbare. La notizia riguarda Londra, dove il real estate è alle stelle, la speculazione edilizia e la gentrification più violenta, come reso visibile il 14 giugno 2017 con l’incendio della Grenfell Tower, fatiscente grattacielo popolare in mezzo al quartiere chic di North Kensington. Il banale cortocircuito di un frigorifero è costato la vita a una novantina di persone, e questo nel cuore di una capitale malgré tout europea nel secondo decennio del XXI secolo.

    In questa Londra si comincia a rivalutare il sotterraneo, prima appannaggio dei più poveri. L’attività sotterranea delle compagnie di scavo non è mai stata più convulsa: scavi per i trasporti, le telecomunicazioni e le condutture dell’acqua, certo.

    Ma anche per bunker, panic room, cave di vino, caveau, passaggi, condomini di sopravvivenza, resti archeologici, data center, spazi segreti, mega-basement, cinema, palestre. Più che una tabula rasa, i sotterranei sembrano ormai una tubula rasa. Se manca una mappatura delle proprietà sotterranee, anche la legislazione è carente, come il vecchio cuius est solum, eius est usque ad coelum et ad inferos, o Usque ad sidera, usque ad inferos. Le pressioni del mercato la stanno di fatto riscrivendo.

    Fuori Melbourne (Australia), ad esempio, il governo scaverà un’autostrada sotterranea che passerà sotto un centinaio di case; i proprietari hanno ricevuto una lettera che attesta il sequestro del loro “sub-stratum”, come raccontato in un articolo uscito su “The Guardian”.

    Oggi che il sopra è colonizzato, tra droni e leggi che limitano l’altezza delle costruzioni, era inevitabile che l’attenzione si sarebbe presto spostata al sottosuolo. Uno spazio colonizzabile e relativamente poco sfruttato. Che l’habitat delle talpe diventerà presto un bene di lusso? Che le talpe saranno costrette a spostarsi più lontano dal centro delle città e dai luoghi di lavoro? E che le memorie del sottosuolo di Gordon Matta-Clark siano ancora cariche di suggestioni per comprendere il nostro presente?

    Bibliografia

    Ho scritto su Gordon Matta-Clark in due occasioni: sull’anarchitettura in The Space Between. Gordon Matta-Clark e le Twin Towers, sul sito di doppiozero (12 settembre 2011): http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/space-between-gordon-matta-clark-e-le-twin-towers; e su Conical Intersect in La macchina del vuoto. Da Lucrezio a Matta-Clark, scaricabile qui: https://www.academia.edu/22107305/La_macchina_del_vuoto._Da_Lucrezio_a_Matta-Clark_in_Achille_Bonito_Oliva_ed._Enciclopedia_delle_arti_contemporanee_vol._3_Il_tempo_inclinato_Electa_Milano_2015_pp._104-153

    Le testimonianze di Malite Matta, G.H. Hovagimyan, Richard Nonas sono raccolte in Gordon Matta-Clark. Experience Becomes the Object, a cura di Pedro Donoso, Ediciones Polígrafa, Barcelona 2015; quella di Chris Burden e Robert Wilson in Gordon Matta-Clark. A Retrospective, in Mary Jane Jacob, Museum of Contemporary Art, Chicago 1985.

    Altre sono udibili nel documentario Crossedwords. Matta-Clark’s Friends, http://www.matta-clark.org/pelicula/ (password: crossedwords).

    Ho utilizzato le seguenti interviste: con Donald Wall, Gordon Matta-Clark’s building dissections, in “Art Magazine”, marzo 1976, pp. 74-79; con Judith Russi Kirshner, raccolta in Corinne Diserens (a cura di), Gordon Matta-Clark, Phaidon, London 2003; con Liza Bear, Gordon Matta-Clark: Dilemmas, intervista radiofonica, marzo 1976.

    Spunti di riflessione si trovano in Briony Fer, Celluloid Circus. Gordon Matta-Clark’s Color Cibachromes, in Gordon Matta-Clark. You Are the Measure, a cura di Elisabeth Sussman, Whitney Museum of American Art, New York, Yale University Press 2007, e in Stephen Walker, Gordon Matta-Clark. Art, architecture and the attack on modernism, I.B. Tauris, London 2009.

    Su Londra sotterranea: Bradley L. Garrett, Who owns the space under cities? The attempt to map the earth beneath us, in “The Guardian”, 10 luglio 2018

    Note