Così si comporta la natura: vivere il disastro per il fotografo Paolo Rosselli

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    A Chennai il 27 dicembre 2004 scruto continuamente la Peters Road uno stradone lungo diversi chilometri che arriva all’Oceano Indiano. Dal fondo vedo arrivare un’onda che inghiotte case, persone, automobili in una nuvola grigiastra piena di spruzzi. Ora è lontana chilometri e non fa rumore, ma la visione è un incubo.

    A occhio è alta almeno 5 metri e dentro vi si vedono persone, carretti, animali sbattuti qua e là. E sì che intorno a me tutto è più che normale, un giovane con una camicia viola che gli penzola fuori dai pantaloni neri parla al cellulare, una donna in sari cammina sulla strada evitando accuratamente il marciapiede occupato da cianfrusaglie, nel negozio i miei figli contrattano l’acquisto di un Ganesh di ceramica e ogni dieci secondi mi chiedono di intervenire per abbassare il prezzo.

    L’allucinazione l’ho solo io. Gli altri componenti del gruppo, una madre con due figlie sono in una libreria a cercare pubblicazioni, quaderni per appunti, matite; ma sono dispensate dalla mia visione. Poco prima il traffico appena fuori dall’Hotel Connemara era quasi normale, forse un pò più frettoloso del solito: circa un minuto di analisi del flusso di auto, pullman, carretti, motorette prima di decidere in che attimo attraversare il fiume di lamiera che procedeva a passo d’uomo. Comunque mai attraversare tutti e sei assieme; piuttosto a gruppetti di tre per volta, quasi correndo, come le volpi che oggi si aggirano nei centri abitati, attenti alle moto che potevano sbucare da dietro un camion.

    Chennai 1983 – Milano 2003, ph. Paolo Rosselli

    Arrivati sull’altro lato dopo le felicitazioni reciproche per il successo, si riprende il passo normale. Ma quando i miei figli si fermano davanti a una vetrina di nuovo mi giro per tenere d’occhio la strada e l’arrivo dell’ondata che ci avrebbe spazzati via tutti quanti. A dire la verità poteva anche arrivare da un altro lato, più da sud e allora sarebbe stato un problema serio perché la massa d’acqua avrebbe scavalcato le case e ci sarebbe piombata addosso in pochi secondi.

    Da ragazzo avevo visto un film d’avventura; era ambientato in una pampa argentina dove l’onda di piena di un fiume si spargeva in un deserto. Il film tratto da un libro di Jules Verne era ben fatto e l’effetto non certo digitale dell’onda che avanza con i personaggi che scappavano colpiva l’immaginazione. Ma qui non ero al cinema. E se conoscevo la città essendoci passato altre volte, ora che da Madras era diventata Chennai aveva perso quel carattere di città del sud con parchi e case basse dove trovare eventuale riparo. In una decina di anni si era convertita in una città di case anonime, con facciate in plastica tirate su in qualche modo, auto ovunque, edifici alti con insegne cubitali, cantieri all’indiana, voragini, marciapiedi divelti.

    Tutto era cominciato due giorni prima, il 25 dicembre, con un volo da Milano a Francoforte e da lì fino a Chennai. Aereo non strapieno, ma neanche vuoto. Mi ero accorto dell’arrivo a Chennai all’ultimo momento riconoscendo i tipici neon a bacchetta, accesi nei villaggi alle nove di sera. Fuori dall’aeroporto ci attende il pulmino dell’albergo che prende la strada verso il sud. Una cinquantina di chilometri e arriviamo sull’oceano. È notte, un impiegato ci consegna le chiavi di tre stanze, gli lascio i voucher ma tengo con me tutti e sei i passaporti. Ci separiamo, ognuno nella sua stanza chi vicino all’oceano, chi al secondo piano, i genitori al piano terra. Valige aperte su un trespolo, macchine fotografiche sul comò in legno in compensato scuro. Porta finestra sul giardino, in bagno una finestra piccola a due metri di altezza da cui si inquadra il cielo e non il parco in quel momento illuminato da luci a terra. Tutti a dormire, stanchi.

    Sono le 9.00 di mattina del 26 dicembre. La cameriera ha bussato alla porta, anche se la cosa non era stata richiesta: ci ripenserò dopo, cosa voleva dirci? Elisabetta mi grida dal bagno con voce alterata: “Entra acqua dal finestra”. Mi alzo dal letto per capire come. Guardo fuori verso l’alto, il cielo: è azzurro. Ma c’è un rumore di pioggia che cade su un tetto in lamiera, anche se in realtà non esiste né lamiera, né tetto. In bagno una lama d’acqua sta entrando dalla finestra a grande velocità. Non è uno scroscio, è un fiume velocissimo, trasparente anche se costretto dalla dimensione della finestra, quaranta centimetri. Il flusso assomiglia a quello che si ottiene rovesciando una tinozza gigantesca.

    Milano 2009 – Rotterdam 2016, ph. Paolo Rosselli

    Mi sposto in camera da letto e comincio a camminare nell’acqua che è entrata dal giardino attraverso il serramento. È salita a 30 centimetri in pochi secondi; prendo le valige e le sposto più in alto, comincio a vestirmi; il letto si muove da solo spinto dall’acqua; risposto altrove le valige, prendo il pacco dei passaporti e lo infilo nella borsa. Usciamo in giardino: silenzio, nessuno in giro. E i figli? Elisabetta capisce che qualcosa di inspiegabile sta accadendo. Intuito femminile. Io recupero invece reminiscenze di in anni di viaggi e do la colpa alla piscina che ha ceduto o a un serbatoio d’acqua sopraelevato che si è afflosciato. I figli sbucano da non si sa bene dove e insieme vestiti sommariamente ci spostiamo su una collinetta dove troviamo altri ospiti malconci come noi; in tutto siamo in sei, otto persone.

    Un tipo con il cellulare ancora intatto chiama a Chennai. Dallo scambio di battute sento pronunciare tsunami, l’espressione-metafora, non ancora applicata prima d’ora; e poi ..“Andamane e Nicobare spazzate via, non c’è più niente”. Penso alla valigia dimenticata in camera e decido di tornare; ora le onde dall’oceano sono più basse. Faccio un calcolo approssimativo del ritmo, scelgo il momento della risacca e percorro i cento metri fino alla camera. Entro recupero la valigia, faccio per uscire ma entra un’onda con un tronco che mi prende la gamba. Esco dalla camera e ritorno sulla collina aiutato da Stefano, il figlio più grande.

    “In una bella giornata sono stato risucchiato dalle onde e sono sparito dalla faccia della terra”

    Dalla voce di Andrea arriva il racconto dell’onda di 2 metri che preme alla porta della camera al piano terra, a cinquanta metri dall’oceano. Per Federica e Carla nessun problema, dormivano della grossa. Ma la giornata è bellissima, il cielo è azzurro, il vento rinfresca; nessun segno premonitore dello tsunami, né un lascito di nuvole scure o palme piegate dal vento. La natura si manifesta così. Tengo a mente per la prossima volta ..“In una bella giornata sono stato risucchiato dalle onde e sono sparito dalla faccia della terra: che strano, il cielo era dolce, si stava bene, la temperatura era ideale, avevamo visto qualcosa all’orizzonte che sembrava schiuma”

    Alle 11.00 l’arrivo al Connemara di Chennai è trionfale, in mutande, a piedi nudi, con sacchi di vestiti bagnati. Alla reception si parla di 50000 morti, poi di 200000 solo in Tailandia; poi saliranno a 230000. Al pomeriggio visita di gruppo al pronto soccorso dove alcune ferite vengono curate con punti di sutura e alcuni si fanno iniezioni antitetaniche. Si aspetta fuori dal laboratorio e a turno si entra per la diagnosi e le cuciture. Usano siringhe in vetro e aghi grossi; sono gentili e efficienti, ogni tanto alzano gli occhi sorridendo. Fuori, a dieci metri, una mucca solitaria pascola tranquilla in mezzo alle macerie; ma questo è normale.

    Alla sera al ristorante i camerieri per rinfrancarci ci offrono cibi prelibati in quantità industriali. Siamo i sopravvissuti.

    Stefano e Andrea non si tirano indietro; Federica e Carla si mostrano un pò distanti e poco propense a riempirsi la pancia. I due genitori sono preoccupati e perplessi ma non lo mostrano; nei discorsi si sta sulle generali…“Ti ha telefonato il tale? Ti ha chiesto, se eravamo ancora vivi? E l’altro? No, non ha chiamato perché ha paura di spendere” Risate. E poi..“Prova il pollo, dammi del riso, non prenderlo tutto”. Il contributo dei figli maschi al buon umore è garantito da battute surreali e irresistibili sulla situazione creatasi; cui le femmine non possono non sorridere seppure controllate dalla madre divenuta severa e poco disponibile allo scherzo. Io mi metto a ridere riconoscendomi nel loro sarcasmo assurdo e sfrontato. Si stanno profilando due comportamenti e due fazioni, quella femminile più composta e consapevole, quella maschile più portata alla provocazione e alla risata. Il gruppo femminile è agguerrito ma alla fine si arrende e si lascia contagiare.

    Tokyo 2006 – Copenaghen 2006, ph. Paolo Rosselli

    In camera, ogni gruppetto accende la televisione per capire meglio cosa è successo; si diffondono le corrispondenze da ogni parte del mondo, India compresa; trapela il problema delle due centrali nucleari poco più a nord di Chennai che avevano subito dei danni, ma non è chiaro se sono solo crepe o c’è anche uscita di liquidi. Virginia, mia figlia, mi chiama dalla Svizzera dove lavora, molto preoccupata per il padre e gli amati e insopportabili fratelli.

    Si preparano momenti di discussioni molto accese sul che fare del viaggio appena iniziato; la coppia di genitori è sul chi vive e si notano i primi segni di nervosismo sull’itinerario che si era stabilito. L’energia spesa per salvare la pelle si è già ricostituita e si è pronti per un confronto molto poco pacato. La vita di coppia si regge anche sull’energia liberata dal litigio; così dopo l’urlata si torna allo scherzo e via di seguito. Cedo dopo discussioni molto accese alla richiesta di cancellare la prossima tappa sull’oceano (ma dall’altra parte, in Kerala) in favore di Ooty, città inerpicata a 2200 metri. Il ragionamento è molto semplice, in caso di altri terremoti siamo al sicuro, almeno da un’onda.

    Durante il viaggio verso Ooty si fora ogni cinquanta chilometri: lasciati per ore su un pratone dall’autista che è partito in pullman con la ruota per il villaggio più vicino, il gruppo femminile si mette a fare i compiti, quello maschile gironzola per la piccola prateria in cerca reperti: io fotografo una lamiera abbandonata negli sterpi che ricorda una parete ondulata di Gehry, i figli si inventano una partita a calcio con un golf arrotolato a palla. Si riparte ma dopo un breve rettilineo qualcosa si inceppa nel motore; così una nuova fermata in un parco nazionale brulicante di scimmie furbe e attentissime. Si avvicinano in cerca di cibo. Quando diventano un piccolo esercito saltellante e incontrollabile si risale in auto. Sono simpatiche ma quando cominciano a picchiare sui vetri decidiamo di dileguarci.

    A Ooty ci sistemiamo in camere con il caminetto acceso; fa freddo. A parte la tensione che serpeggia durante il capodanno, la vita di coppia riprende a funzionare come prima, punzecchiature, provocazioni, piccoli screzi e sesso (sospeso per alcuni giorni in ossequio alla tragedia). Intorno a noi gli indiani non sono indifferenti al cataclisma dello tsunami; se mai sembrano poco inclini a aggiungere altri drammi e visioni oscure del futuro. Ancora più di prima, per strada o agli incroci delle strette di mano spontanee e domande come, da dove vieni, ti piace la mia città? Altra cultura, altri geni. I figli, dotati di antenne molto sensibili, cominciano a avvertire i benefici esclusivi dell’India che anche nel dramma si presenta sotto una luce confortante, di umanità, di rispetto reciproco, di calma e di sorriso nel dolore.

    Milano 2013 – Shangai 2009, ph. Paolo Rosselli

    Girando per la città nebbiosa notiamo in uno spiazzo coperto dalle offerte di cibo destinate ai sopravvissuti indiani dello tsunami: sacchetti di dolci, di riso, bambole per i bambini, vestiti, ghirlande colorate. In quel momento la pioggia smette di cadere, esce un raggio di sole e io fotografo la scena. Il gruppo maschile si stacca e si spinge oltre il mercato dove quello femminile fa acquisti. Ci fermiamo di fronte a una casa in stile anglo-indiano: ne esce un signore che ci invita a bere un tè. E’ alquanto anziano e con sé ha un bambino di quattro anni. Sarà il nipote? Non entriamo in casa ma ci intratteniamo sulla soglia per parlare dell’accaduto. E’ ovviamente scosso, ma l’avvenimento è così lontano, qui siamo in alta montagna e lo si sente dal profumo inconfondibile del carbone che brucia nel camino. Lo salutiamo augurandogli buon anno. La sera in camera altre testimonianze in TV dalla costa colpita dallo tsunami: una vecchia indiana che viveva in un villaggio sull’oceano ha perso tutto, casa, figli e nipoti e ora non vuole cibarsi; non avendo più nessuno al mondo vuole solo morire.

    Pochi giorni dopo a Madurai visitiamo il tempio-città di Meenakshi. A parte i locali siamo da soli, perché i turisti si sono volatilizzati. Ci accolgono piccole scimmie che ci inquadrano subito come stranieri e ci gironzolano intorno curiose e veloci. Ogni tanto sembrano volere attaccare briga; ormai competenti, i figli tirano fuori cibarie dalla sacca per tenerle a bada. Ero già stato al Meenakshi Temple nel novembre del 1979. E un giorno per pura curiosità mi ero fatto tutta la salita interna di uno dei quattro gopura fino alla cima, una sessantina di metri. Era una scalata di mezz’ora su gradini sbrecciati e scivolosi. La scala, sempre più stretta mano a mano che si saliva, era la dimora stabile di pipistrelli che se ne stavano a decine immobili appesi a testa in giù costringendomi a strisciare lungo la parete umida per non disturbarli. A quel punto la mia guida mi aveva lasciato andare avanti da solo; anche per lui era troppo.

    Qualche giorno dopo a Kanchipuram nel tempio di Ekambaresvara, uno dei templi più affascinanti del Tamil Nadu, i pipistrelli erano a centinaia: stavano silenziosi e immobili confondendosi con il soffitto scuro della sala, un deposito di sculture antiche e polverose dove fotografavo con pose di tre quattro secondi. Ogni tanto uno muoveva le ali per sgranchirsi e si riagganciava al soffitto. A un segnale che nessuno umano era in grado di captare si erano messi a volare tutti insieme verso un’altra zona del tempio. Erano stati disturbati dal mio armeggiare con l’attrezzatura fotografica, almeno immagino.

    Qui il mio accompagnatore, forse più saggio, mi faceva segno di stare tranquillo e con la mano mi faceva cenno di abbassare la testa fin tanto che i pipistrelli svolazzavano nervosi; pur dotato dal radar che lo guida al buio uno di loro poteva sbagliare traiettoria e arrivarmi diritto in faccia. Lo stormo nero e rumoroso aveva trovato momentaneamente un altro spazio dove appendersi; e dopo, a un altro segnale, i pipistrelli sarebbero tornati tutti assieme nella loro sala preferita, quella delle sculture.

    Nel frattempo noi due avevamo concluso il lavoro e lasciavamo una sala ampia e scura che era stata costruita qualche secolo prima. E a piedi nudi camminavamo su un pavimento rivestito dai lasciti di generazioni di pipistrelli. Fermentavano per terra da qualche decennio; incluso il lungo periodo coloniale.

    Mi ha telefonato una persona da N.Y. “State bene? È vero che la chiusura è totale? Chiamo gli amici a Milano: “Stiamo tutti bene”

    Negli anni recenti a ogni disastro telefono o mando messaggi agli amici che ho in giro per il mondo. Nel Marzo 2011 ho scritto delle mail in Giappone: tutti erano vivi e chi è stato a Tokyo ha notato che sul retro ogni edificio alto è ingabbiato da una struttura a X che gli permette di ondeggiare.

    Qualche giorno fa mi sono fatto vivo con gli amici pakistani conosciuti dal 3 al 9 febbraio 2020. Ho cercato di metterli in guardia: a Islamabad seduti al ristorante si scherzava sui cinesi che “mangiano qualsiasi cosa si muova su 2 o 4 zampe”. Mi ha telefonato una persona da N.Y. “State bene? È vero che la chiusura è totale? Chiamo gli amici a Milano: “Stiamo tutti bene”. Ho dato un colpo di telefono agli amici inglesi che stoicamente si affidano al premier: “Non preoccuparti, qui è il caos in ogni caso”.

    Un amico a Parigi ha preso il Covid 19 ma da casa sua ironizza sulla sua condizione. Una nota curiosa: quando consiglio il libro di David Quammen le donne reagiscono in un modo, gli uomini in un altro: le prime preferiscono non avere ulteriori ansie, i secondi si interessano e lo ordinano.


    Immagine di copertina di Paolo Rosselli: Mexico City 2006

    Note