Anche il cuore dei Balcani ha una biennale. Meta poco ambita dallo scoppiettante mondo dell’arte contemporanea, probabilmente giustificato in questo caldo 2017 da eventi imperdibili e lapidari come la 57. Esposizione Internazionale d’Arte dall’ottimistico titolo Viva Arte Viva, Skulptur Projekte Münster e documenta 14, specialmente con l’aggiunta della tappa ateniese alla consueta sede tedesca di Kassel.
Durante i giorni di apertura di Learning from Athens lo scorso aprile e-flux ha pubblicato una lettera aperta firmata da Artists against evictions (Artisti contro gli sfratti), immediatamente divenuta virale, che chiede ai così colti e politicamente corretti esponenti dell’arte contemporanea di avere una visione più ampia e di provare a camminare fuori dal sentiero segnato, dalla direzione voluta dalle stesse autorità che si mascherano come democratiche di fronte al potere del centro Europa, e in modo particolare alla dictatorship tedesca, ma che sono gli stessi che adottano politiche discriminatorie contro gli abitanti ateniesi.
Non ho idea se, al di là della condivisione sui social da parte di molti se non di tutti gli operatori del settore, il consiglio sia stato seguito. Il sempre giusto monito di perdersi piuttosto che seguire una strada da altri dettata.
Ecco che nel medesimo mese di apertura di documenta ad Atene, un’altra biennale ha aperto i battenti, anch’essa legata alla Germania; i suoi curatori sono infatti Hans D. Christ e Iris Dressler, direttori del Württembergischer Kunstverein Stuttgart.
Sono loro quest’anno a essere stati chiamati nell’arduo compito di selezionare artisti e opere per la quarta edizione di Project Biennial D-0 ARK Underground a Konjic, a circa 40 chilometri da Sarajevo.
Il titolo di quest’edizione – Tito’s Bunker – è semplice quanto efficace se si pensa che una ben più ampia mostra collettiva è stata inaugurata a maggio nello stesso museo di Stoccarda, con il medesimo titolo, creando un legame tra Germania e Bosnia ancora più forte.
Dunque, di cosa si tratta. Di una biennale sì ma, rispetto alle molte biennali del resto del mondo, prende solo il nome che letteralmente richiama la scadenza biennale, appunto, dell’evento ma l’intento non è quello di riunire in un unico luogo, sotto un unico denominatore, la più attuale rappresentanza della ricerca artistica di ogni nazione (con le varie e significative inclusioni ed esclusioni caso per caso).
Non potrebbe d’altronde. Siamo in Bosnia ed Erzegovina e qui, probabilmente, non solo è importante rappresentare arte dell’Est ma, ancor di più, come i paesi vicini si rapportano ai Balcani e alla loro storia, come la stessa Europa, quella disgregata e agognante di oggi si rapporta ai Balcani.
Project Biennial D-0 ARK Underground è un progetto biennale che mira alla costituzione di un museo di arte contemporanea all’interno del D-0 ARK (Atomic War Command; D-0 è la classificazione in codice del massimo di segretezza statale) voluto da Josip Broz Tito.
Il bunker si trova all’interno della montagna Zlatar, a circa 300 metri di profondità e si stende lungo una superficie di 6.500 metri quadrati. Niente, esternamente, fa pensare alla sua esistenza. L’entrata è quella di un normale garage di un’anonima casa addossata alla montagna.
Il rifugio antiatomico fa parte di una serie di strutture di difesa volute dal Maresciallo Tito per difendere la Jugoslavia in un clima di forti tensioni, soprattutto con l’Unione Sovietica dopo l’espulsione dal Cominform. Insieme all’aeroporto di Bihac e al porto sotterraneo di Spalato, il bunker di Konjic è tra le strutture più costose finanziate dagli Stati Uniti in ex-Jugoslavia.
Il bunker venne costruito in caso di attacco nucleare come centro operativo dove circa 350 persone – Tito, sua moglie e i rappresentanti politici e militari – potevano sopravvivere senza uscire all’aria aperta per circa 6 mesi. Inaugurato nel 1979, dopo 26 anni di lavori, la struttura non venne probabilmente vista completata da Tito che morì l’anno successivo.
Il bunker, dalla sua riapertura dopo 30 anni di segretezza, è chiaramente diventato un luogo turistico molto ambito, e al quale, quindi, si aggiunge Project Biennial che, con la quinta edizione nel 2019, completerà l’ambizioso progetto di museo all’interno di un’opera così spaventosamente realistica se si pensa alla reale catastrofe atomica che si respirava negli anni della Guerra Fredda.
Il progetto, voluto dagli artisti Edo Hozić e Sandra Miljević Hozić, vuole promuovere un’attuale riflessione su Guerra Fredda, visione utopica di futuro, storia della Jugoslavia, storia della stessa costruzione del bunker attraverso opere di artisti selezionate, ogni biennio, da curatori provenienti ogni anno da una coppia di nazioni partner.
I curatori dell’edizione odierna, visto il numero già molto cospicuo di opere all’interno del bunker – 125 –, hanno deciso di limitare la scelta a soli 6 artisti – Annalisa Cannito, Jan Peter Hammer, Lia Perjovschi, Dan Perjovschi, Jorge Ribalta e Jan-Peter E.R. Sonntag – e di dedicarsi alla realizzazione di possibili connessioni, percorsi, interferenze tra le varie opere delle passate edizioni e il bunker, seguendo delle linee tematiche che possano anche agevolare i visitatori lungo questo complesso percorso, creando già le basi del museo a venire.
Infatti le problematiche principali di questo progetto risiedono proprio nel dialogo tra le opere disseminate lungo il percorso e la specificità del luogo. Se già, infatti, creare un proficuo ed equilibrato scambio tra le parti in luoghi altamente caratterizzati è tra le operazioni più difficili e ambite e che assai raramente restituiscono un ritratto onesto degli elementi messi in campo, con l’inevitabile conseguenza che l’uno possa prevalere sull’altro, in questo caso il rischio è di gran lunga maggiore essendo impossibile poter stare per più di due ore all’interno della montagna e non rimanere impressionati maggiormente dall’arredamento intatto degli anni Settanta piuttosto che da complesse installazioni multimediali o altro.
Di conseguenza la visita guidata al bunker è sempre della durata di un’ora e mezzo e prevede l’esclusione di gran parte delle opere che rimangono ‘spente’ e non visibili. Cosa accaduta anche durante l’inaugurazione di questa biennale.
Dopo ore sotto la pressione della montagna, con l’aria condizionata ‘attiva’ ma molto rumorosa degli anni Settanta, tra cunicoli, letti, computer, radio, telefoni e ritratti di Tito ci si chiede il senso, non soltanto quello relativo alla vicenda stessa della costruzione ma proprio quello di un’operazione come questa oggi.
Ci si chiede e mi chiedo in maniera urgente e anche molto personale. Il pubblico degli opening delle biennali, quello tanto odiato da negozianti e abitanti veneziani (dicono che tra i visitatori delle Biennali e del Festival del Cinema, quello dell’arte è il più strafottente), quello che si riconosce a distanza dal vestiario ma soprattutto dalle shopping bags, che di certo partecipa all’opening di Venezia come a Kassel. I più audaci (ma anche, onestamente, i più abbienti) vanno anche ad Atene ma non vanno in Bosnia, non è attraente, non è sulla punta della lingua, non crea attenzione, forse non crea contatti.
E infatti l’inaugurazione era mesta. E io, così abituata a tanta esagerazione e anche a seguire un po’ il gregge, mi sono ritrovata spaesata, senza guida, senza tutte quelle brochure e fogli, senza essere assalita, senza trovarmi bombardata di stimoli sensoriali.
Allora, forse, da ‘emigrata’ italiana, anzi romana, da un anno a Graz, in Austria, che vede più analogie tra Roma e Zagabria e tra certe abitudini bosniache e quelle italiane di 20 anni fa non posso che trasalire di fronte all’amara costatazione che andando fuori rotta ritrovo la stessa povertà, la medesima nostalgia e amarezza di un paese – il mio – che ha abbandonato il suo popolo da troppo tempo; di una generazione oramai quarantenne che come ultima chance se ne va ancora con qualche speranza in un luogo confinante, al centro dell’Europa, e si ritrova improvvisamente emigrato, senza che alcuno di quei vicini europei possa lontanamente comprendere a che livello di povertà d’anima siamo arrivati e allora mi sento vicina ai greci di quella lettera che testimoniano della falsità dei loro rappresentanti e rimango profondamente sconvolta da un’operazione così utopica come Project Biennial. Forse utopica quanto il bunker stesso.
Ambiziosa se confrontata alla realtà più affermata del sistema arte, ma profondamente onesta e vera nella semplice assunzione che l’arte possa arricchire, sia il luogo sia le persone, e si possa creare un cortocircuito temporale, visivo e semantico. E allora, oggi, forse questa è vera utopia, come nel wall drawing di Dan Perjovschi, uno degli interventi di questa edizione.
Probabilmente la stella a 5 punte di Annalisa Cannito, che richiama la stella al centro della bandiera della ex Jugoslavia, è il perfetto emblema dell’odierna situazione, dove il silenzio, conseguenza della paura, ancora domina la scacchiera politica internazionale e in maniera sempre più subdola, mascherato com’è da informazioni, oramai vere o false, non ha più importanza.
L’opera si intitola Silence is Violence e si compone di due interventi di cui il primo, posto all’entrata del bunker, è costituito da un lightbox con la riproduzione di una fotografia che ritrae il manifesto di propaganda statunitense attorno all’Hanford Atomic Plant.
Il secondo, invece, è una stella a 5 punte realizzata con proiettili della Igman, fabbrica di munizioni vicino al bunker, costruita nel 1950 e da sempre operativa, volendo essere da principio produttrice per la difesa della Jugoslavia, ma già dal 1952 esportatrice all’estero e oggi una delle fabbriche di munizioni più importanti a livello mondiale. I proiettili utilizzati da Cannito sono rivolti l’uno contro l’altro perché siamo uno contro l’altro, perché i proiettili di allora, finanziati dagli USA, che dovevano difendere la Jugoslavia, vennero poi usati per lo sterminio civile e oggi si trovano ovunque, rendendo impossibile carpirne la provenienza.
La Cannito stessa, nel suo piccolo libro di accompagnamento al suo lavoro, ci informa e ricorda che pallottole fabbricate dalla Igman nel 1986 vennero trovate sulla scena dell’attentato alla sede di Charlie Hebdo a Parigi e, come dichiarò all’epoca il viceministro alla difesa di Sarajevo, Živko Marjanac – escludendo comunque la possibilità che i terroristi le abbiano avute direttamente dall’esercito bosniaco – è praticamente impossibile tracciarne il percorso perché, citando le sue stesse parole: “La fabbrica Igman Konjic faceva parte dell’esercito jugoslavo, per cui i suoi prodotti sono diffusi in tutte le ex repubbliche, dalla Slovenia alla Macedonia. Da dove siano arrivate non si sa ma sappiamo che sono state prodotte in Bosnia. Qui abbiamo avuto la guerra e ogni seconda casa tutt’oggi possiede una ventina di proiettili; come facciamo a sapere che qualcuno non li abbia venduti in maniera privata?” (da comunicato ANSA)
La solita storia, quindi, di una sottostoria silenziosa e segreta che manda avanti e muove quella ‘ufficiale’ ma anche la storia di un’inarrestabile disgregazione.
Il silenzio, quindi, è violenza. Come il silenzio delle molte opere realizzate per Project Biennial, come il mio, qualora continui a non dar fiato alla mia voce, strozzata in gola da un nodo di emozioni e dall’impossibilità, linguistica e culturale, di poter affermare la mia diversità come fonte di ricchezza in un paese dall’impeccabile e fredda pulizia esteriore troppo abituato sia al silenzio sia al sostegno.