A dieci anni dalla fondazione, Associazione Etre ha deciso di invitare le sue Residenze a raccontarsi, a narrare l’esperienza di uscire dal teatro e stare nelle comunità. Si tratta di un teatro che interpreta i bisogni dei territori, raccoglie e restituisce racconti, dialoga con cittadini che chiama per nome, trasloca e si adatta ad ogni nuova casa, provoca le comunità e tenta un incontro attraverso lo spettacolo dal vivo. Pubblichiamo un estratto da Il territorio in scena. Dieci anni di residenze Etre a cura di Stefano Laffi e Andrea Maulini (FrancoAngeli Edizioni).
Ovvero come due giovani artisti si trovano di punto in bianco alla direzione di una residenza e scoprono che è esattamente quello vogliono fare nella vita.
La prima è la sottoscritta. Chiara Boscaro, ventinove anni. L’altro è Marco Di Stefano, un trentatreenne dotato (allora) di folti riccioli scuri. È l’autunno del 2014.
Abbiamo studiato alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano, lui è reduce dalle Olimpiadi del Teatro di Pechino con la compagnia Sanpapié.
Entrambi abbiamo vinto qualche premio di drammaturgia. Da poco siamo entrati in Associazione K., nata dalle ceneri del progetto PUL a Sesto San Giovanni, la prima residenza artistica multipla in Italia. Suona bene, la prima residenza multipla in Italia, no?
Sì, solo che nessuno dei due ha ben presente cosa sia una residenza. Un posto dove si provano spettacoli? Un’ottima idea di Fondazione Cariplo? Il teatro abbandonato che il Comune scarica in gestione a una compagnia, così che almeno si condividono le bollette?
Di sicuro la residenza è un luogo. Lo dice la parola. E no, non è una RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale], anche se la nostra residenza oggi si trova accanto a una RSA e qualcuno talvolta sbaglia ingresso.
Ma torniamo al 2014. Nel 2014 Associazione K. ha un ufficio (in affitto), due scrivanie (di recupero) e valigie di scenografia infilate in tutti gli angoli. Sette nuclei artistici possono produrre tantissime valigie di scenografia.
Parlo di attori, danzatori, organizzatori dello spettacolo, drammaturghi, registi, musicisti, performer… circa trenta artisti (e non) che producono spettacoli e li portano in giro per l’Italia e l’Europa, che conducono laboratori per adulti e ragazzi, che creano progetti culturali per le imprese e le pubbliche amministrazioni.
Associazione K. nel 2014 è una residenza a caccia di residenze. Io e Marco Ci siamo entrati principalmente per questo: sentiamo il bisogno di una casa, di un pubblico con cui dialogare, di un territorio dove radicare il nostro lavoro in un sistema teatrale storicamente legato agli scavalcamontagne.
Noi pensiamo alla Drammaturgia di Amburgo, pensiamo ai grandi teatri statali dei Paesi dell’Est, pensiamo alle Fàbrica de Creació di Barcellona e, alla fine, diciamo sempre Polis… e poi sospiriamo.
Anzi, Agorà. Agorà è una parola che ci fa sospirare tantissimo, è la piazza. È quella cosa che fin dalla notte dei tempi separa ineluttabilmente l’operatore teatrale medio (“Bella questa comunità riunita in nome della cultura”) dallo spettatore medio (“… farò ancora in tempo per Un giorno in pretura?”).
Insomma, siamo degli inguaribili sognatori con professioni che fanno sorridere la maggior parte dei “civili”.
Lo capiamo quando arriviamo la prima volta a Pessano con Bornago, 9000 “civili” di cui 6000 pensionati. È poco fuori Milano, la piazza c’è (si chiama piazza della Resistenza e questo già ci fa sospirare) e l’ex-filanda è enorme e piena di luce.
Marcello Gori, musicista e compositore, batte le mani negli angoli e decreta che l’acustica è buona. La prendiamo.
Silvia Pinto si commuove: lei è di Gorgonzola, il paese a fianco, potrà lavorare e creare progetti nel territorio dov’è cresciuta. Noi siamo “foresti”, è vero, ma volenterosi. Ci rimbocchiamo le maniche e ci mettiamo all’opera.
La prima cosa – e la più difficile – è trovare un nome: uniamo l’idea di lavoro, che caratterizza la storia del grande spazio post-industriale, con il nostro nume tutelare Franz Kafka. Viene fuori “Manifattura K.”.
La seconda necessità è trasformare Manifattura K. in uno spazio teatrale. Con i fari, le casse audio, un fondale nero e un palco delimitato. Va bene che la quarta parete l’abbiamo sfondata, ma almeno avercela in partenza…
La terza idea è organizzare una festa. Approfittiamo della sagra del paese, in occasione di sant’Apollonia. È il febbraio del 2015, disegniamo sul pavimento un gigantesco gioco dell’oca, Fabio Ferretti si studia un volumone di storia locale e io e Marco Ottolini ci apprestiamo a diventare pedine umane. Con quelle tute da imbianchino siamo ridicoli, ma servirà a rompere il ghiaccio.
I nomi delle squadre sono presto detti: Pessano e Bornago (qui la rivalità è assicurata, leggenda vuole che sul confine tra i due paesi si trovasse solo un casotto, dedicato agli incontri clandestini di amanti nati di qua e di là della cortina).
Al piano terra, Josephine Magliozzi e Sara Carmagnola distribuiscono senza sosta tè caldo e questionari: “Che teatro vorresti a Pessano con Bornago?”.
Già… Nessun puro di cuore vorrebbe leggere quelle risposte. Cambiamo approccio.
Se vogliamo fare i padroni di casa, prima dobbiamo presentarci da bravi vicini.
Ogni venerdì sera invitiamo qualcuno in teatro per un bicchiere di vino, un dolcetto e due chiacchiere. Lo facciamo con le associazioni, con i teatri di zona, con i commercianti, con gli opinion leader. Poi li riuniamo intorno a un tavolo, per aiutarci a comporre una stagione culturale che risponda alle esigenze dei cittadini.
Portiamo spettacoli al bar, al ristorante, per strada. Offriamo laboratori artistici, biglietti ridotti e dieci omaggi a sera. Ospitiamo nello spazio tutte, tutte, ma proprio tutte le iniziative locali, dal battesimo alla riunione di condominio alla balera dei pensionati.
Ah, e poi studiamo. O meglio, vorremmo studiare, ma la bibliografia a disposizione è troppo teorica per le nostre necessità.
Come si fa a trovare il pubblico? Dove va invece di venire a teatro? Chi è il pubblico?
Vorremmo voci amiche, qualcuno che suggerisca tecniche, che riferisca di tappe di avvicinamento, qualcuno che ci conforti, ma niente. Sembra che tutti gli esperti lo spettatore se lo trovino direttamente sullo zerbino di casa.
Ci dicono che abbiamo una grafica “ricercata”. Ci dicono che programmiamo spettacoli “difficili”. Ci chiedono perché non portiamo i musical. Sospiriamo e cambiamo approccio. Di nuovo.
Grafica meno “ricercata”, proposta più variegata, film, feste, bambini… tanti bambini, laboratori gratuiti, spettacoli ad hoc basati sulle storie di paese. Il musical? Quello no, a tutto c’è un limite.
Piano pianissimo qualcosa si muove, qualcuno ci passa il numero di un amico, qualcuno ci dice di parlare con il nonno, qualcuno ci parla. Rimaniamo foresti, ma meritevoli di attenzione.
Due sono i progetti che ci danno più soddisfazioni. Due progetti produttivi, che in fondo la produzione artistica è il nostro primo amore, è quello che ci viene meglio.
Racconti di fine estate si snoda, in un pomeriggio di settembre, lungo il corso del torrente Molgora, tra storie di pesci scomparsi, la musica delle piccole allieve della Scuola di Musica Marzia Cantiani, uno stuzzichino e un album di foto di famiglia. È qui che iniziamo a parlare davvero con i cittadini.
Progetto Iceberg, con la preziosa collaborazione di Karakorum Teatro e di Margherita Squaiella (cresciuta a Pessano e in forza a Associazione K.), è un momento fondativo. Interviste, chiacchiere, appuntamenti e collaborazioni costruite in mesi di lavoro alla fine danno i loro frutti. Partecipano centinaia di persone, le scuole, il parroco.
Si parla dell’evento storico più importante del passato recente del paese, l’eccidio di sette partigiani compiuto dai nazifascisti il 9 marzo 1945, e del ruolo del podestà (poi sindaco) che ha traghettato la comunità nel dopoguerra.
Attraversiamo più volte le vie del paese, gli attori recitano per strada, in chiesa, in mezzo alle mamme della scuola. A messa, la domenica, per la prima volta in settant’anni si fanno i nomi dei partigiani uccisi.
È il momento che aspettiamo da tre anni. Allora è così che si fa. Sospiriamo. Di sollievo. E poi, poi c’è da pagare tutti (anche questo fa parte dei valori delle Residenze), c’è da raccogliere fatture e scontrini, c’è da rendicontare, c’è da fare nuovi bandi, c’è da inventarsi altre richieste di contributo.
Io e Marco di formazione saremmo artisti, ma ormai passiamo un buon 70% del nostro tempo in progettazione, fund raising e storytelling.
Abbiamo dovuto imparare a farlo, e non solo noi. Sono competenze condivise tra le residenze, che ci rendono professionisti peculiari, aperti, stacanovisti, attenti al piccolo dei territori di riferimento ma impegnati in reti nazionali e internazionali (giuro che è successo, il lunedì abbiamo presentato un testo all’Istituto Italiano di Cultura a New York e la domenica dopo eravamo a Manifattura K. con un laboratorio per bambini).
Non è facile, nessuno ce lo insegna perché la realtà ci cambia continuamente le carte in tavola, ma abbiamo la possibilità – preziosissima – di cogliere il meglio delle buone idee in giro per il mondo e sperimentarle a casa nostra.
Sfogliando questo volume vi renderete conto di quanto siamo diversi, di quanto a volte siamo lontani, ma a unirci sono i valori e la pratica quotidiana dell’utopia.
Siamo inguaribili sognatori (e sospiriamo anche troppo), ma crediamo che tutti i cittadini, in tutti i territori, abbiano diritto alla cultura. Crediamo che le comunità possano rinascere dalla cultura. Crediamo che la cultura sia una buona scusa per far incontrare e dialogare le persone. Crediamo che la cultura sia un lavoro e crei economie.
Soprattutto, crediamo che la cultura sia divertente. Sospirone finale.