L’innovazione è una moka da 24

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    L’espressione culturale e artistica di Troisi non è più sottomessa alla forza dall’immaginario meridionale ma, al contrario, rappresenta anche lo sforzo necessario per liberarsi dalle catene della tipicità. E naturalmente per lo sforzo spreca energie, va fuori strada, si inceppa, riparte con brio per poi interrompersi, insomma, la battuta finale è il risultato non di una simpatia innata e di vocazioni millenarie ma di una ricerca, costante e inquieta. Troisi ci mostra – con sprezzo del pericolo – le modalità del pensiero in formazione, si arrovella, sembra cedere e poi giunge al traguardo, un attimo di luce, poi di nuovo giù, nel gorgo.

    Era un sentimento che negli anni Ottanta (che furono anche un momento di apertura, globale, alla Mister Fantasy) sentivamo vicino. Per arrivare al traguardo, non basta la battuta esemplare e precisa, quella è segno di perfetta adesione al modello dominante. Sul filo di lana, dobbiamo portare e soprattutto mostrare anche i pesi, e quindi gli intralci e le buche, i passi falsi, quelli naturali e specifici, perché, poi, la balbuzie e gli affanni sono l’unico modo (il metodo di ricerca) che abbiamo per rileggere un modello che non ci piace.

    Comunque, la considerazione divertente è questa. In Scusate il ritardo, c’è una scena che ragiona proprio sulla difficoltà di immaginarsi un futuro – e la fiducia che ne deriva (che costruisco a fare? il mondo è qui e ora, sotto il sole, e sarà così per sempre): il professore e la macchinetta del caffè per uno. Chi è il vecchio professore? È una brava persona, ma molto legata al suo appartamento, alle sue cose, private e piccole, al suo scoglio, insomma. Se si apre, se cerca qualcuno, è solo per sfruttare il vantaggio contingente e materiale che questa apertura gli dona – nella fattispecie la mamma di Vincenzo, che gli lava i panni sporchi e gli prepara da mangiare. Per il resto, la porta di casa è chiusa. Qualche volta, però, il professore lascia l’appartamento, e Vincenzo, che ha le chiavi, sfrutta l’assenza dell’inquilino per portarci Anna.

    Un giorno i due, dopo l’amore, si preparano un caffè e Vincenzo nota che il professore ha soltanto la macchinetta da una persona.

    «Questo, nientemeno, tiene ancora la macchinetta del caffè per una persona sola, mammamia del Carmine. Cioè, una tazzina […] cioè, secondo me è il massimo della solitudine, proprio, uno che tiene la macchinetta del caffè per una persona sola. Mammamia del Carmine, cioè, una tazzina, questo non spera mai che venga a trovarlo qualcuno, cioè così gli fa una tazza di caffè, per due, per tre.»
    «Poverino, chissà come si sente solo.»
    «Ma infatti proprio per questo, cioè, ti senti solo e ti prendi pure la macchinetta per il caffè per una persona, vuol dire proprio che vuoi rimanere solo, cioè stai solo, ci vuole la macchinetta per 12, 24, 48, a spingere la gente a dire: ma andiamoci a prendere un caffè a casa del professore.»

    Il professore rappresentava, allora, una vecchia idea di Napoli, una città culturalmente incapace di cambiare.
    Sì, va bene, la saggezza greca, la critica ai consumi eccetera, va bene, ma di fatto il professore è come il pescatore che non investe – non esce a pescare e non compra una macchinetta da 24 – perché, in fondo, non crede nel futuro.

    «Noi italiani siamo tutti napoletani?» mi chiedo, «qui dall’alto è tutto così bello e davanti a te il mare ti trascina, puoi, volendo, uscire dalle ristrettezze e dall’angustia dei budelli.» Siamo un Paese che vive in brillante e reazionaria solitudine e non compra la macchinetta da 24, perché non crede giusto investire nel futuro? Non si prende dei rischi, non accetta balbuzie e affanni, elementi utili per liberarsi dalle catene del passato? Anzi, al contrario, appare teso a difendere pezzi di territorio: quelli, si sa, sono dotati di antichissimo valore e vocazioni millenarie. Un Paese tipico e piccolo ma saggio come il pescatore e il professore?

    Nei momenti di sconforto, parto da Napoli e viaggio, volo sull’Italia, diciamo che la piazza d’armi di Castel Sant’Elmo aiuta lo slancio. Sì, dall’alto l’Italia appare come un grande Paese. Ma che ne so: a volte lo vedo minuscolo, contento di stare sullo scoglio a prendere il sole. Voglio dire, ci sono dati economici e di costume (da sinistra a destra) che purtroppo confermano queste sensazioni.

    A sinistra il lavoro culturale di questi anni ha puntato sul piccolo, sul tipico, sul naturale, sul prodotto di casa nostra, terra nostra, tradizioni nostre, scogli nostri. Bisognava salvare i mores locali dall’assalto del mondo moderno eccetera eccetera.
    A destra, dalle parti del movimento leghista, il concetto è identico: solo un po’ greve e sporco. Lavoro e prodotti di casa nostra, compra italiano, recitano alcuni manifesti autarchici di Forza Nuova. Sono in tanti a dirlo.

    Paolo Giudici – docente del Dipartimento di Scienze Agrarie e degli Alimenti dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia – scrive un interessante paper (a seguito di un convegno sui prodotti tipici), Prodotti alimentari e il falso mito dei microrganismi autoctoni. A un certo punto, Giudici – con un po’ di stupore, meglio, apprensione – leggendo la relazione introduttiva della fiera del Cheese di Bra, a cura di Slow Food, si sofferma su una dichiarazione, secondo la quale i batteri e i lieviti che si usano per i processi fermentativi devono essere di casa nostra. Così dicono – per la precisione – gli estensori della relazione: Il Parmigiano Reggiano è «autoctono». Infatti la tecnologia di trasformazione del latte in formaggio, realizzata in caseificio, vuole esaltare l’attività e la fermentazione dei batteri «autoctoni», cioè quelli nati nel territorio.

    Il succo è: non vogliamo batteri d’importazione. Batteri d’importazione. Fantastico. 
Paolo Giudici, appunto, si mostra stupito e preoccupato per l’andazzo della presunta tipicità che fa rima con sacralità: il sacro non si può modificare, no? È tipico da sempre, un prodotto non soggetto a evoluzione, nemmeno alla storia, è diverso da tutto. Va bene, parliamo di batteri e di prodotti tipici, ma da qui, a cascata, si attivano ancora le tante categorie che hanno fondato una certa rappresentazione del Sud e che cominciano da lontano, a metà Settecento (eh, i viaggiatori ricchi e borghesi, che tormento), e continuano con segno mutato (da lazzari ad angeli) fino a dopo l’Unità.

    In sostanza, Napoli è diversa, anche la plebe, i lazzari, i demoni, nonché gli angeli sono diversi da tutti i lazzari, i demoni e gli angeli globali. Sono proprio prodotti tipici, eh!, noi non vogliamo lazzari di importazione. I nostri sono fuori dal tempo, non la fanno la storia, e se la storia è borghese e capitalistica, loro se ne tengono fuori, stanno in un limbo, su uno scoglio, sotto il sole, e sono i prodotti tipici preferiti da poeti e combattenti. Voi moderni, scientisti e capitalisti, avrete tutto, ma non loro; qui c’è ancora lo scambio di antichissimo sapere.

    C’è sempre un trucco in queste categorie, di angeli o demoni, appunto: sono funzionali al potere, gli angeli o i lazzari sono materia prima per chi vuole forgiare la realtà con le proprie mani, senza la necessaria analisi per conoscerla appieno.

    Ma, insomma, sui prodotti tipici e i batteri, Giudici è costretto a spiegare: «Il formaggio è unico e può essere fatto soltanto nel comprensorio perché solo nel comprensorio del Parmigiano Reggiano vi è quella combinazione così esclusiva e particolare che va dal suolo all’ambiente per finire con i batteri lattici autoctoni. Confutare queste affermazioni è semplice se si considerano alcune evidenze:
    «a) Le dimensioni dei batteri sono molto ridotte e il loro universo è di pochi micron, non certo grande come il comprensorio.
    «b) Il comprensorio non è omogeneo per temperature, piovosità, suolo e altro ancora.
    «c) I microrganismi non conoscono la geografia, quindi per loro è difficile distinguere tra Mantova destra Po e Bologna sinistra Reno o viceversa».

    Stessa cosa per il vino, anche lì vanno di moda i lieviti di casa nostra. Per quale ragione i lieviti autoctoni dovrebbero essere migliori per fare il Chianti? Quasi come se si fossero selezionati da soli per fare un buon Chianti, perché dotati di ragione e non sotto la spinta di una pressione selettiva.

    Credo che Paolo Giudici sia d’accordo con Troisi: in fondo, con tutto il carico di affanni e balbuzie popolari, ci invitava a ragionare su due novità apparse nella modernità. Primo: è un guaio se il professore e il pescatore non investono nel futuro, dunque non comprano né barche né macchinetta da caffè per 24. Perché così si arriva a dichiarare che il presente è uguale al passato, un comprensorio sacro che dobbiamo preservare dalle invasioni dei barbari.
    Sì, d’accordo, qua arriva la contestazione. Non metterla su tanto dura.

    In realtà la gente viene a Napoli proprio per assaporare una tipicità che altrove non troverebbe.
    Tutti i Paesi, le città hanno un proprio scoglio esotico. Meglio raccontarlo, mitizzarlo, meglio far pubblicità al prodotto tipico: in fondo, il turista vuole vedere il pescatore sullo scoglio, avvolto dal- la luce, che saggiamente scrolla le spalle e fa apparire stupidi i nostri tentativi di investire nel futuro. È uno scoglio isolato ma anche una piccola nicchia di mercato, teniamocela e non cambiamo il panorama, gettando un ponte tra varie isole.

    Ecco, capisco. Infatti nel corso del mio viaggio astrale su Napoli, non vedo solo la città, ma l’Italia: eccola lì, un sacco di prodotti tipici e pescatori. Un grande prodotto tipico, l’Italia, che bella. Tuttavia, quando tocco terra, divento più concreto, mi faccio domande infami. Per esempio: qual è il rapporto economico dei prodotti tipici col resto dell’agricoltura italiana?

    Sul fatturato alimentare è il 4% (circa 5 miliardi di euro). Sull’export alimentare il 6% (circa un miliardo di euro). Sul valore dei comparti: formaggi 55%, salumi 35%, ortofrutticoli 6%. Sull’export dei comparti: formaggi 58%, salumi 30%, ortofrutticoli 9%, oli 3% (i dati sono tratti dal professor Dario Casati dell’Università di Milano).

    Dunque, è un buon affare, sì, ma per pochi – altra caratteristica italiana – perché cinque denominazioni (Parmigiano, Grana, i due prosciutti e mozzarella di bufala) rappresentano il 70% circa del valore del tipico alla produzione, al consumo e all’esportazione. In realtà, chi è fermo ai prodotti tipici lo è perché gode di un vantaggio contingente, come il professore che si fa lavare i panni.

    Seconda questione della modernità: nemmeno la macchinetta da caffè, cioè lo strumento di produzione, è di casa nostra. I prodotti nascono da una collaborazione internazionale. Che ci piaccia o no. L’importante è saperlo, ci vogliono nuove regole, è certo, ma tant’è, meglio conoscere la fisiologia della filiera, perché spesso è la nostra ignoranza della fisiologia a produrre il danno.

    Insiste Giudici: metti la pizza. È in corso di registrazione la dizione: specialità tradizionale garantita (pizza napoletana stg). Questa etichettatura avrà un vantaggio economico? Davvero il prodotto certificato è realizzato con materia locale? Sicuro? Per ottenere la pizza napoletana (che sia stg o no) di così eccellenti qualità, è necessario impiegare la farina Manitoba, ottenuta da grani selezionati dall’antica cultivar canadese Manitoba. Ciò significa che per ogni pizza paghiamo le royalty ai selezionatori di quel grano.

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    Il pomodoro Pachino? Stessa cosa, le tre varietà di ciliegino più in uso, Piccadilly, Shiren e Titì, sono selezionate dalla ditta israeliana Hazera. Sono buoni perché gli israeliani investono nella moka da 24, cioè fanno un’ottima ricerca e poi ci vendono semi, mica solo a noi, a tutto il mondo. Un chilogrammo di seme costa 15 mila euro e contiene dai 450 ai 500 mila semi. Tenuto conto del sesto di impianto, con un chilo di semi coltivi dieci ettari. Una pianta in serra fredda produce da agosto a gennaio quattro chili di pomodori.

    Chi innova guadagna, chi è fermo sullo scoglio perde. Al massimo possiamo fare belle brochure illustrative, quindi destinare gran parte delle risorse economiche non alla ricerca e al miglioramento qualitativo dei medesimi prodotti, ma alla loro tutela. Circondiamoli e difendiamoli dall’assedio! Fosse almeno una strategia economica valida.

    Ma l’immaginario ne risente: «Quali saranno i tuoi pensieri abituali, tale sarà anche la mente, l’anima, infatti, ne rimane impregnata». Così diceva Marco Aurelio, nei Ricordi. Insomma, apparteniamo a un’antica tribù di professori e pescatori tipici, qui anche i batteri sono di casa nostra, abbiamo tutto, a che serve investire, migliorare, rischiare? Per far cosa? Non vedete come siamo felici sotto il sole?

    Proprietà letteraria riservata © 2015 RCS Libri S.p.A., Milano

    Estratto da Non scendete a Napoli (Rizzoli, 2015) di Antonio Pascale

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