Movimenti e produzione dell’arte, ovvero l’autunno caldo del curatore

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Nel suo L’autunno caldo del curatore. Arte, neoliberismo, pandemia, pubblicato nel 2021 dall’editore Marsilio, Marco Baravalle, attivista del Sale Docks di Venezia e ricercatore della rete Incommon (promossa allo IUAV da Annalisa Sacchi) rinnova la critica antipopulista che Alberto Asor Rosa aveva costruito lungo gli anni sessanta – in particolare dentro Classe Operaia, contro una certa lettura di Gramsci e, soprattutto, contro Pasolini e la sua lettura della società dei consumi – e la apre su alcuni importanti nodi teorico-pratici del nostro presente. Operazione tanto coraggiosa quanto difficile perché, come nota lo stesso Baravalle, a voler tirar fuori quei concetti dal ciclo di lotte che li ha visti nascere, si rischiano anacronismi e letture infondate.

    In effetti, gli scritti di Asor Rosa proprio per il loro « rigore polemico », piantati com’erano nelle contraddizioni dell’attualità, dovevano « rinunciare alla disinvoltura della critica universale ». Eppure Baravalle perviene a dimostrare, con agilità e rigore, che c’è ancora qualcosa di utile, nella critica raccolta in volume nel ‘65 sotto il titolo Scrittori e Popolo. D’altra parte, se di recente Ernesto Laclau e Chantal Mouffe hanno tentato una teorizzazione del populismo che ha a lungo segnato il dibattito dei movimenti, è forse possibile oggi, dentro all’avvitarsi della crisi neoliberale, tra guerra e pandemia, denunciare definitivamente gli esiti disastrosi di quell’esperimento. 

    Ma andiamo per ordine. Il populismo, riassume Baravalle, presenta alcuni caratteri ricorrenti, tanto nella critica di Asor Rosa quanto nella teorizzazione di Laclau e Mouffe : «l’avversione al cosmopolitismo» con la conseguente «predilezione di uno spazio nazionale» e «localista» ; « l’adesione a modelli formali di condanna degli esperimenti avanguardistici » e quindi l’interesse per forme espressive tradizionali, e comunque radicate ; « l’approssimazione sociologica » che finisce per sciogliere nel popolo le stratificazioni di classe delle moltitudini, in una captazione verticale delle differenze, delle contraddizioni e dei conflitti che solcano il piano del reale. Un tripode che sorregge una costruzione teorica fondamentalmente antimoderna, reattiva, non esente da tratti arcaicizzanti ed essenzialisti. Allora da questo punto di vista, Baravalle ha ragione : la polemica di Asor Rosa funziona ancora oggi. 

    Chi si è formato su quelle pagine può infatti utilizzarle come un farmaco velenoso contro le ideologie del reincanto del mondo, che piangono, se non per malafede per abissale ignoranza, sui misfatti della moderna medicina, rea di aver strappato alle streghe il sapere (e il potere) sul corpo delle donne; e si possono usare le pagine di Asor Rosa come sberleffo impertinente di ogni giaculatoria secondo cui il problema delle lotte globali sarebbe la produzione (comune) della ricchezza e non i suoi modi che ne ingabbiano la potenza e pervertono gli effetti; o ancora cercarvi antidoti ad un certo anti-materialismo diffuso che, di fronte all’articolarsi aberrante dell’estrazione capitalista della ricchezza prodotta socialmente, rifiuta l’indagine sulla composizione soggettiva per rifugiarsi in malconce ed arcaiche capanne. 

    E funziona ancora, quella critica, in ambito artistico, quando Baravalle la usa come strumento di decostruzione dei documentari che nei primi anni 2000 Oliver Ressler e Dario Azzellini hanno dedicato all’esperienza venezuelana. Come anche dell’uso antagonista del lavoro di Laclau e Mouffe che Claire Bishop ha tentato di introdurre negli studi artistici, contro il pacificato mondo sociale dell’estetica relazionale di Nicolas Bourriaud e Hans-Ulrich Obrist.

    Ciò che conta è lo spazio delle lotte : queer, transizionali, ecologiche, sociali, pacifiste. E in questo spazio si dà il lavoro artistico

    Certo, scrive Baravalle, «Azzellini e Ressler trattano temi cruciali quali la partecipazione democratica, l’organizzazione politica e la gestione diretta da parte dei lavoratori dei mezzi di produzione». Ma la pedagogia chavista del loro approccio, nel promuovere verticalmente la «trasformazione da plebs a pupulus» li costringe a rinunciare «alla problematizzazione della narrazione documentaristica come oggettiva narrazione dei fatti e recupero di una memoria stabile e definitiva». Allo stesso modo, senza dubbio Claire Bishop ha ragione quando decostruisce «l’immagine del sociale come immanent togetherness» implicita nell’estetica relazionale. In tal senso, è indubbiamente interessante osservare come i «poveri, gli emarginati, le prostitute, i tossicodipendenti, i venditori ambulanti» dei lavori di Santiago Sierra, come anche le costruzioni nello spazio pubblico di Thomas Hirschhorn, emergano «all’interno del sistema dell’istituzione artistica» generando negli spettatori «una sensazione di disagio in grado di intaccarne le certezze soggettive e di metterne in luce il privilegio». Ma questo discorso mostra presto tutti i suoi limiti quando cerca «la redenzione nel popolo» e riduce l’arte a «liturgia della sofferenza». Ora basterebbero queste considerazioni per valutare questo lavoro di Baravalle come un contributo fondamentale per articolare oggi (e in futuro) arte, militanza politica, analisi critica e prassi di movimento. 

    Come ha notato Nicolas Martino, in una bella recensione pubblicata sul manifesto, Baravalle mostra chiaramente che «l’arte è un laboratorio dove si sperimenta prima ciò che poi diventa esperienza comune». Lezione preziosa, questa sull’arte come momento primo, intuizione che rischia e preannuncia forme possibili per riaprire il discorso sociale e politico! Non l’hegeliano frutto maturo che si stacca dall’albero insomma, ma l’asperrimo frutto acerbo, colto in anticipo, che si mastica a fatica; la serpe che si agita tra le dita del consumatore; il gesto di chi sa farsi astuto come una colomba. Un approccio che significa esattamente il contrario di tutte le forme di estetizzazione o sublimazione che inseguono in ritardo ciò che le lotte e i movimenti praticano già.

    La captazione tardiva delle istanze espresse dai diversi cicli di movimento, funziona come estrattivismo debole ad uso del mercato dell’arte e delle sue istituzioni. Così sui palcoscenici, tra le sale delle biennali e dei musei, le mille rifrazioni del movimento femminista attuale vengono ridotte a stile, la lotta contro la distruzione del pianeta e delle sue risorse naturali a moralina, contenuto, senso del lavoro artistico. Ciò provoca un doppio effetto perverso: da una parte  l’arte in questa maniera si auto-legittima, l’istanza politica si fa strumento di auto-promozione individuale, e le più radicali esperienze di lotta vengono banalizzate e piegate a semplice operazione di marketing per questo o quel prodotto da vendere nel mercato della produzione intellettuale; dall’altra parte il dispositivo artistico cristallizza il discorso dei movimenti, al suo grado più banale ed inoffensivo – ne fa, appunto, merce appetibile e consensuale adatta ad un pubblico largo, massificato.

    Tra le sale delle biennali e dei musei, le mille rifrazioni del movimento femminista attuale vengono ridotte a stile

    Diverso è invece il metodo che propone Baravalle nel suo lavoro. Ciò che conta è lo spazio delle lotte : queer, transizionali, ecologiche, sociali, pacifiste. Da qui si parte, ed in questo spazio si dà il lavoro artistico. Ma esso non deve accogliere pacificamente le istanze politiche, i linguaggi, le teorizzazioni, le ideologie. Piuttosto l’arte contribuisce criticamente a spezzarne i limiti, lanciare in avanti il discorso e la pratica, distruggerne i linguaggi e i livelli teorici, senza lacrime per le rose. L’arte può implementare la potenza delle lotte se contribuisce a rendere collettivo ogni ripiego individuale, se permette di comporre una fenomenologia capace di leggere dentro la sofferenza, l’esperimento esistenziale, la tecnica di sé, un embrione di pratica del mondo e così decentrare l’individualismo narcisistico della narrazione neoliberale. Se rende visibile la cooperazione che sta dentro la pratica della differenza, per spezzare l’isolamento dei soggetti in pratica moltitudinaria. Se costruisce lo spazio necessario per il dialogo e il confronto con l’altro da sé che permettono di troncare l’ordine del discorso di questo mondo e aprire ogni comprensibile difesa dell’esistente sulla rivendicazione del comune. 

    Questo sarebbe già tanto, per tornare a leggere il libro e a discutere con le compagne e i compagni di Incommon. Eppure a me pare che vi sia un elemento ancor più prezioso (ed attuale) nella proposta di Baravalle : e cioè che al fondo del suo lavoro non è l’arte che viene interrogata, ma lo spazio istituzionale della sua produzione. Ciò libera definitivamente l’operazione artistica da ogni aggettivazione politica e quindi ne scatena la potenziale libertà e autonomia. O meglio : pone il rapporto arte-politica al livello corretto in cui esso deve essere analizzato, che è appunto quello dei rapporti di produzione. Qui è Brecht, più che Asor Rosa, che dovremmo evocare – quel Brecht (tradotto da Fortini per il terzo numero dei Quaderni Rossi, nel giugno ’63) che contro il fascismo invitava gli artisti a «parlare della radice del male»; a non restare basiti di fronte alla reazione come se essa fosse inspiegabile messe di «crudeltà non necessarie», ma un modo per preservare, dentro le crisi, «i rapporti di proprietà».

    Il Brecht, insomma, che Walter Benjamin ci ha insegnato a leggere come teorico dell’arte come produzione – laddove ciò che conta non è la valutazione che l’artista ha della società capitalistica e dei suoi rapporti, né il valore estetico della sua opera, ma il modo in cui artista e prodotto del lavoro artistico si impiantano in quella società ed in quei rapporti. Concordiamo ancora con Nicolas Martino : «in tutto il ragionamento critico di Baravalle, non c’è mai nessuna proposta di fuga, nessuna evocazione di un fuori utopico, ma la consapevolezza che solo dall’interno del sistema dell’arte e della sua logica, è possibile far saltare le sue contraddizioni per iniziare a costruire, come già accade, una dimensione collettiva e comune che tenga insieme arte e politica, etica e sensibilità». Questa, mi pare, la lezione fondamentale di Baravalle : non arte e politica, dunque, ma curatela e forme istituzionali dentro allo spazio delle lotte. Lavoro artistico e conflitto politico. Questo è il nodo reale. Allora il discorso qui aggredisce le condizioni di circolazione e produzione dell’arte, più che questo o quel prodotto. Libera dalla crisi dell’oggetto, inutilizzabile per l’autopromozione individuale, la critica si fa tagliente.

    L’arte può implementare la potenza delle lotte se contribuisce a rendere collettivo ogni ripiego individuale

    Tutta la prima parte del volume segue questo ritmo, e compone costellazioni inaspettate. Il libro inizia con gli anni sessanta, ponendo in esergo il paesaggio sociale di quel momento : e il paesaggio sono le lotte, con le conseguenti tecniche di soggettivazione che mandano gambe all’aria le forme in cui la classe operaia si dava nel rapporto capitalistico. Dentro questo paesaggio, poi, viene analizzata una sezione specifica del lavoro intellettuale che è quella della curatela. Ecco l’endiadi del titolo: L’autunno caldo del curatore. Così all’esplosione che la rivolta di Corso Traiano del luglio 1969 impone sulla struttura massificata del lavoro operaio, Baravalle fa corrispondere l’anticipazione che Harold Szeeman introduce nel mondo curatoriale dimettendosi il 30 giugno di quello stesso anno dalla direzione della Kunsthalle di Berna. Perché questa corrispondenza? Perché il curatore indipendente che Szeeman inventa in quel momento può essere perfettamente studiato come prototipo incorporato di ciò che la ristrutturazione neoliberale dei rapporti capitale-lavoro imporrà per salvaguardare la struttura della proprietà. Szeeman anticipa perfettamente «l’antropologia neoliberale del lavoratore culturale: un imprenditore di sé, individualista ed al tempo stesso iperconnesso, complice degli artisti e romantico genio solitario»;  se la risposta del management capitalista alle mobilitazioni di fine anni sessanta impiegherà un quarto di secolo per diventare dominante, il settore della curatela ce ne mostra, al livello ideologico puro, già espliciti tutti i tratti. 

    Tuttavia qui il discorso potrebbe interrompersi o peggio capovolgersi rientrando nello schema, celebre, proposto da Luc Boltanski ed Eve Chiappello sullo spirito del ’68. Szeeman come figlio dello spirito antiautoritario e individualista che la critica artistica ha promosso negli anni della ribellione giovanile non sarebbe altro che una anticipazione di quel nuovo spirito del capitalismo prodotto dalla inevitabile cooptazione delle istanze di autonomia proprie dei movimenti di quel ciclo. La spirale distinzione-innovazione-riproduzione dei rapporti capitalistici allora si chiuderebbe. Ma l’analisi di Baravalle è più raffinata di quella «di parte», proposta da Boltanski e Chiappello. Szeemann risolve «interamente dentro il campo capitalista» la crisi innescata dalle lotte degli anni sessanta, spostando il suo lavoro dall’opera d’arte alla immaginazione di una fictional institution capace di incubare forme postmoderne di imprenditorialità del sé. Ma, nota Baravalle, esistono anche altri esempi, interni allo stesso ciclo storico-politico.

    A questo punto l’analisi sporge verso un terreno di pratica e di riflessione sul quale il collettivo del Sale Docks lavora da tempo: quello dell’alteristituzione. Ha ragione ancora Nicolas Martino quando nota che, in pagine assai suggestive dedicate alle sperimentazioni di Enrico Crispoliti, Giuliano Scabia e Edoardo Fadini, Baravalle mostra che «se è vero, che il sistema dell’arte ha sussunto, e continua a sussumere, le spinte innovative e più radicali, è altrettanto vero che all’ideologia fintamente libertaria, è sempre possibile opporre l’autonomia istituzionale di esperienze artistiche che puntano a costruire il comune».

    Pre-condizione di questo discorso tuttavia è che la curatela si spogli di ogni feticcio estetizzante, di ogni aura, di ogni autorialità  (di nuovo, l’opposto di quanto fanno Szeeman, Obrist e gli altri geni solitari, che della costruzione del personaggio e del proprio capitale sociale e relazionale fanno tesoro). Il curatore non è artista, ma un «operatore estetico, un co-operatore» che immerge la produzione artistica nel sociale. Insomma è il fatto artistico che si radica nella lotta, e non la lotta che viene sussunta dal discorso artistico. Dentro le vicende collettive delle lotte allora e senza pretendere di «sfuggire dall’inquadramento istituzionale», l’alteristituzione tenta di trasformare le condizioni di produzione e circolazione dell’arte. Conosciamo, a diversi livelli, molte esperienze attuali di questo tipo. Una mappatura è già possibile. Come è possibile adesso, anche grazie al lavoro di Baravalle, iniziare a tirarne un primo bilancio. Anche per archiviare ciò che della ricca esperienza delle lotte alteristituzionali non ha funzionato, e guardare avanti.

     

    Immagine di copertina: ph. Ahmad Odeh da Unsplash

     

    Note