Zerocalcare è il protagonista di uno dei casi editoriali più clamorosi di quello che è il sonnacchioso mercato italiano. Quello di un fumettista che, alla soglia dei trent’anni, dopo un percorso nell’underground più assoluto, diventa popolarissimo su Internet e – caso ancora più raro – conferma questo successo anche nelle librerie, con opere mature (il bellissimo Dimentica il mio nome concorre anche per il Premio Strega) che scalano le classifiche e polverizzano record di vendite.
Il suo successo è andato di pari passo con l’esplosione dei social network e, durante uno dei suoi interminabili firmacopie (leggendari quelli cominciati nel pomeriggio e finiti alle prime luci dell’alba), abbiamo colto l’occasione per parlare con lui di come il suo lavoro sia cambiato e stia tuttora cambiando attraverso il web, la digitalizzazione e le nuove tecnologie, sia per lui che per i suoi colleghi.
Qual è la prima cosa che ti verrebbe da dire, pensando a come il digitale e Internet hanno cambiato la tua professione?
In termini non tanto di strumento tecnico ma di approccio al lavoro, Internet per me è stato importantissimo. Banalmente perché ha reso possibili i blog e soprattutto ha reso possibile una comunicazione diretta con il lettore, dei feedback continui. Questa cosa per me è stata la vera svolta. Io ero uno che si teneva le cose nel cassetto e non le faceva vedere a nessuno, ed è il modo peggiore di lavorare, è una cosa che ti ammazza. Ti ammazza l’entusiasmo e ti fa demotivare, non ti fa andare da nessuna parte.
Quando ho aperto il blog e ho cominciato a ricevere commenti e a poter interagire, ricevere stimoli, mi è scattato qualcosa: un nuovo entusiasmo, una nuova voglia di fare. La voglia di scrivere per vedere che reazioni ci sarebbero state: è qualcosa che ti nutre. Se scrivi una cosa la scrivi perché qualcuno la legga; e vedere nella pratica, quasi in diretta, che qualcuno effettivamente la legge, ti dà un sacco di entusiasmo.
E dal punto di vista tecnico, invece?
Dal punto di vista tecnico io mi sono evoluto pochissimo. Continuo a fare praticamente tutto sui fogli, su carta, e poi scannerizzo. La tavoletta grafica la uso solo per mettere i grigi alla fine e magari campire i neri, e poco altro.
La questione del feedback esterno a un certo punto, con la popolarità, è anche un po’ sfuggita di mano?
È una cosa che per me rimane importante e che mi aiuta, chiaramente adesso è molto più complicata da gestire. Mi ci metto la sera, quando finisco di lavorare, tipo all’una di notte: decido di dedicare un’ora a leggere commenti, messaggi, cose che vengono scritte.
Adesso c’è tutto e il contrario di tutto, mentre prima erano prevalentemente annotazioni sul lavoro. Adesso c’è quello che rompe le scatole per qualcosa, quello che cerca pubblicità, di tutto. Però rimane una cosa che ti dà il polso del fatto che il tuo lavoro sta all’interno di un contesto di gente attenta alle cose che fai. Se non ci fosse questa cosa mi deprimerei, non riuscirei a andare avanti tanto se pensassi che quello che faccio non lo legge nessuno.
Hai trovato dei modi di viverla serenamente?
Serenamente è un parolone, però ho cercato di darmi delle regole. Sicuramente ho un po’ più di pelo sullo stomaco di prima, quindi alcune cose mi scivolano più addosso. Sono comunque ancora uno che si arrabbia per certi commenti o si commuove per altri, sicuramente non è qualcosa che mi lascia indifferente.
I feedback sono anche un po’ un’arma a doppio taglio: poter vedere in tempo reale che cosa funziona e cosa non funziona, in termini per esempio di like su Facebook, crea il rischio di mettersi a riprodurre sempre e solo quello che tira di più. È una cosa normalissima e sensata, tutti noi se vediamo che una cosa fa diecimila like e un’altra ne fa cinque, cerchiamo di capire dove abbiamo sbagliato; dall’altro lato però ti rende un po’ schiavo di un meccanismo che ti fa fare sempre le stesse cose, ti rende più sterile. A volte secondo me a qualcuno è successo.
Se guardi a altri tuoi colleghi e al loro rapporto con il digitale come vedi la situazione?
Vedo un grosso impatto del disegno digitale. Penso a un Giacomo Bevilacqua che ormai disegna quasi tutto in digitale, si trova benissimo e fa delle cose bellissime, e mi dice che è molto più veloce di prima. Se uno aveva quell’attitudine, e il tempo e la voglia (che io non ho avuto) di provare e di imparare, è qualcosa che ti migliora molto il lavoro.
C’è qualche collega di cui apprezzi particolarmente o la presenza sui social o l’uso di tecnologie applicate al lavoro?
LRNZ, Lorenzo Ceccotti, è uno di quelli che con la tecnologia e il disegno ha fatto delle cose da Dio, veramente che le guardo e più che un essere umano mi sembra un Dio.
Uno che si sa comportare bene sui social secondo me è Sio. Ha un rapporto figo con il suo pubblico: non ne è schiavo, ma non è neanche snob – quando ha qualcosa da dire su argomenti importanti la dice, nonostante abbia un pubblico che evidentemente non è particolarmente politicizzato. È proprio uno che rispetto molto per quanto riguarda questo tema.
Hai visto tanti cambiamenti nella tua carriera? Quando ti ho fatto la prima domanda pensavo che la risposta fosse “io sono nato come autore quando questo discorso era già molto presente, non posso notare le grandi differenze rispetto a trent’anni fa”, invece mi hai risposto come uno che ha visto un bel cambiamento.
In realtà io in libreria ci sono finito nel 2012, però siccome i fumetti li faccio da quando avevo sedici anni, nel corso degli anni ho collaborato con fanzine, mettevo fumetti su siti web pre-social da ragazzino, ho mandato per mille anni proposal e progetti alle case editrici sperando di farmi pubblicare e non mi hanno mai considerato di striscio… Il mondo dei fumetti prima dei social l’ho conosciuto abbastanza bene.
Prima un aspirante fumettista si proponeva alle case editrici, mentre adesso spesso sono le case editrici che vanno a cercare autori già diventati “famosi” su Internet.
Sì, adesso succede molto spesso. Uno funziona e allora viene contattato. In qualche modo è successo anche a me: gli incontri con la Bao e con tutti quelli che poi mi hanno cercato sono venuti dopo che erano andati molto bene il blog e l’autoproduzione. Prima tutte le volte che io avevo cercato di propormi avevo ricevuto soltanto porte in faccia. Questa situazione è mille volte migliore per i fumettisti.
Ma è soltanto positiva o questa intermediazione che salta può portare a un abbassamento di qualità? Prima la casa editrice magari faceva da filtro, mentre ora possono avere successo anche cose che non sarebbero mai state pubblicate perché non meritevoli.
Può essere vero, però alla fine chi se ne importa. Se a un po’ di persone piacciono, comunque hanno un motivo di esistere, poi al massimo se non le apprezzo non le leggerò, e pace. Quello che secondo me è problematico invece è che questa cosa succede molto in fretta, e uno magari passa da niente a un milione di follower in pochissimo tempo: magari uno è bravo a disegnare, o a fare i meme, o delle storielle che funzionano, però gli manca la consapevolezza di cosa significa essere un autore.
“Qualsiasi cosa fai è comunque parte della tua produzione autoriale, che sia sul tuo profilo Facebook o che sia in libreria”
Poi magari si trova in libreria con un libro pubblicato, diventa parte di coloro che stanno costruendo l’immaginario pubblico di questo paese, e lo sta facendo senza nessun senso di qual è il suo lavoro, di quali sono – in parte – le sue responsabilità e tutto il resto. Questa è la cosa che trovo un po’ assurda.
Gente che magari poi dice delle cose orrende: non per cattiveria, ma magari solo per superficialità, o perché molto giovane, e si giustifica dicendo “non ci ho pensato”. Ma se sei uno che ha un libro in libreria ed è considerato un autore, non puoi rispondere di quello che scrivi in quel modo.
Qualsiasi cosa fai è comunque parte della tua produzione autoriale, che sia sul tuo profilo Facebook o che sia in libreria, devi comunque risponderne. Puoi pure dire delle cose orrende ma devi essere capace di difenderle, devi prenderne la responsabilità, se non sono cose che hai detto al bar a un tuo amico ma pubblicamente. Se no forse non c’è la maturità per avere questo ruolo.
Questa cosa secondo me ha anche una declinazione editoriale, oltre alla responsabilità individuale. il fatto che uno si ritrova a avere un libro in libreria, magari abituato a fare solo cose sui social, senza sapere bene cosa significa scrivere un libro. Anche proprio a livello tecnico, o narrativo. Da questo punto di vista è importante trovare una casa editrice che ti sappia seguire, fare editing…
Sì, sono d’accordo. La maggior parte delle volte i grandi numeri su Internet non si traducono in grandi numeri in libreria. Portare la roba social direttamente in libreria senza fare un ragionamento su quali sono le differenze tra un libro e dei meme rischia di farti schiantare, e quando ti schianti poi ti deprimi o ti demoralizzi. Fai una cosa che diventa un brutto precedente e che resta, ed è il modo migliore per bruciarsi, per bruciare magari anche un talento.
“Non sono mai riuscito a capire perché dovrei essere più veloce a disegnare in digitale”
Io da questo punto di vista sono molto contento che la raccolta di storie del blog sia stata la mia terza cosa che è uscita, perché sono usciti prima La profezia dell’armadillo e Un polpo alla gola, quindi mi ero già cominciato a far conoscere anche per delle cose diverse.
La popolarità social improvvisa può essere problematica anche dal punto di vista personale? Può dare alla testa?
Sì. Tra l’altro nel 99% dei casi se sei uno che fa il fumettista eri uno sfigato prima, quindi questa botta di popolarità ti destabilizza. Questo penso te lo direbbe qualunque fumettista che ha avuto un po’ di successo. Poi caratterialmente, e a seconda del vissuto di ciascuno, ognuno sbrocca in un modo diverso. Per esempio io ero talmente strutturato dal punto di vista politico già da prima, che tutto quello a cui ho dato importanza è stato cercare di mantenere la barra dritta in quel senso: che nessuno mi potesse dire che mi ero venduto, che nessuno mi potesse dire che avevo fatto qualcosa per i miei nemici di sempre… Penso di esserci riuscito, o almeno di esserci riuscito abbastanza da sentirmi a posto con la mia coscienza.
Poi ho sbagliato su altre cose: penso di essermi comportato male con persone che conoscevo da sempre perché ho dato loro poche attenzioni, ho svalvolato su una serie di altre cose… Questa cosa pure a me mi ha sfondato. Per come sono fatto caratterialmente magari non mi sono mai montato troppo la testa, anzi ho sempre pensato che tutto potesse finire da un momento all’altro, mentre qualcuno più sicuro di sé può avere avuto altri tipi di reazione. Sicuramente è una cosa che ti crea un sacco di squilibri.
Tornando al discorso tecnico, come mai mi dicevi che ti sei affidato molto poco all’innovazione?
Non sono mai riuscito a capire perché dovrei essere più veloce a disegnare in digitale. Dicono che il vantaggio sia che salti la matita. Però in realtà un layer di matita (anche in digitale, anche se non è matita vera), un layer dove fai la traccia, lo fai comunque. E poi sopra ci ripassi quella che per me è l’inchiostrazione, il layer definitivo. Dal momento che però i layer quindi alla fine sono sempre due, mi sembra che l’unico tempo che io risparmierei è quello della cancellatura della gomma. Che è una rottura di scatole, però alla fine parliamo di venti minuti su un lavoro di due giorni… Mi sono sempre chiesto quando i miei colleghi mi dicono “fai molto più veloce”… perché farei molto più veloce?
C’è anche un tempo necessario all’apprendimento di nuove tecniche e nuovi device.
Ed è uno dei motivi per cui non riesco a impararle, non avendo tempo di sperimentare niente. Sto sempre indietro con consegne e cose da fare, quindi tutti questi nuovi device non ho tempo di provarli, e non posso rischiare di provarli su una cosa che poi dovrà essere venduta, rischiando che faccia schifo e che poi giustamente la gente me la tiri in faccia.
A proposito di sperimentazione e di novità: come va il discorso dell’animazione? Si era parlato di un tuo progetto in questo senso, si era detto che il tuo prossimo lavoro sarebbe stato un cartone animato.
Il problema è esattamente quello che dicevo ora. Ho fatto una specie di corso di animazione, ho preso delle lezioni, ho provato a esercitarmi. Mi piace molto e lo vorrei fare. Però mi rendo conto che non ho il tempo di provare. E, per i motivi che dicevo, se non ho il tempo di fare prove e di esercitarmi su una cosa, poi non so se me la sento di mandarla avanti.