Il problema di oggi, ai tempi dell’emergenza, del Covid, della psicosi degli assembramenti, sembra essere la paura delle sale chiuse. Quelle teatrali, quelle cinematografiche. Ed è una paura giustificata poiché centinaia di migliaia di lavoratori sono a rischio e perché le sale, quelle dove lo spettatore consuma ancora un rituale antico, fisico, “in presenza”, rischiano di non riaprire più.
Sono poche le sale rimaste, dal momento che negli scorsi tre decenni ne sono scomparse a migliaia sostituite da supermarket o autorimesse. E poi con il Covid ritorna nuovamente l’annosa questione degli ultimi tempi: streaming si, streaming no, ma un film prodotto da Netflix è cinema ? E, di conseguenza, è degno di essere presentato a un festival come Cannes o Venezia?
Il vero problema è che questa emergenza sta mettendo in discussione cose che l’evoluzione tecnologica, l’avvento dei nuovi media e dei nuovi dispositivi hanno in realtà messo in discussione da tempo, anche se facciamo finta di non vedere. E, dunque, ci spinge a pensare il cinema, il teatro, l’arte in modo nuovo e diverso.
Certo, guardare un film in televisione, con le distrazioni casalinghe, così come una pièce teatrale sullo schermo di un computer non può essere la stessa cosa. Figuriamoci una mostra in realtà virtuale! Ma temo proprio che dovremmo abituarci a questa rivoluzione in atto, noi vecchi dinosauri novecenteschi ancora attaccati all’aura e terrorizzati dal progresso, mentre per i nostri figli nativi digitali sarà la normalità.
Proviamo a pensare non solo a un pubblico senza immagini ma anche a immagini senza un pubblico
In fondo l’unica cosa che resiste ancora – contro tutte le previsioni degli esperti del digitale – sono i libri cartacei, probabilmente perché il libro fa ancora leva sul desiderio di possedere un oggetto, di collezionarlo. Ma il resto? Il resto sono ormai byte, immagini immateriali.
E allora proviamo a pensare non solo a un pubblico senza immagini ma anche a immagini senza un pubblico (reale). Il cinema meanstream o anche d’autore, ma narrativo un pubblico pagante e delle sale dove essere proiettato l’ha sempre avuto. Ma il cinema sperimentale? Non ha mai avuto nulla per decenni, né sale, né produttori, né distributori, né sale e a lungo neppure un pubblico. È stato un insieme di immagini senza un pubblico, in alcuni casi volutamente, per vocazione. Semplicemente perché i cineasti realizzavano i loro film, astratti, strutturali, magari muti e sovraesposti, che andavano contro qualsiasi regola e codice, soltanto per sé stessi.
Sporchi elitari ed egoisti! Era (è ancora, perché esiste ovunque nel mondo, anche in pellicola) un cinema fatto-da-una-sola-persona il più delle volte, secondo la definizione di Stan Brakhage. Cinema amatoriale nel senso di cinema “passionale”. Questo cinema, che pure sempre più larghe porzioni di pubblico hanno iniziato a scoprire, resta underground, dunque non ha timore delle platee vuote.
È un cinema che espande la coscienza (Youngblood) e che, pur se collettivamente, è stato fruito in passato in sale totalmente buie, senza nessun altro elemento di distrazione, con gli spettatori isolati da paratie in modo che si potessero concentrare solo sul rettangolo luminoso dello schermo (l’Invisible Cinema concepito alla fine degli anni ’60 da Mekas, Kubelka e Sitney). E questo stesso cinema ci ha abituato anche ad essere senza immagini (Kubelka, Sharits, Debord, Conrad, Jarman).
Ma non voglio fare qui l’elogio di un cinema senza pubblico (perché in realtà questo cinema ce l’ha avuto un suo pubblico, sotto forma di comunità, di adepti, di appassionati) e senza immagini (anzi, dove l’immagine è tutto). Voglio solo tentare di capire quale potrà essere il futuro di una invenzione senza futuro, come la definirono i loro stessi creatori (i fratelli Lumière).
Il cinema è morto da tempo, esistono le immagini in movimento, ma qualcuno ha deciso che dovessero prendere la forma di un racconto
Non mi sembra scandaloso fruire in anteprima un film in streaming. Non mi sembra scandaloso tentare nuove strade per i festival, altri baracconi che sono rimasti ancora indietro nel tempo come organizzazione e impostazione, con timide aperture ai nuovi media, ai nuovi formati, ai nuovi linguaggi.
Il cinema è morto da tempo, esistono le immagini in movimento. In realtà esistono da sempre, ma qualcuno ha deciso che dovessero in prevalenza, per questioni commerciali, prendere la forma di un racconto ed essere fruite in spazi chiamate sale cinematografiche. Ma non c’è bisogno di rifarsi all’archeologia del media per capire che, se avesse vinto Edison e il kinetoscopio anziché i Lumière e la proiezione su schermo, avremmo vissuto un altro tipo di storia del cinema (o delle immagini in movimento) e la visione sui moderni dispositivi palmari sarebbe stata ancor più diretta e fisiologica.
Con questo non si vuol negare che quest’arte – così come per la musica e per il teatro, forme ben più antiche – sia fondamentale il momento della fruizione collettiva. Si vuole solo dire che nel passato, come nel presente e come nel futuro, sono opzionabili – a volte anche simultaneamente – varie modalità ed è infantile tifare per l’una o per l’altra, anche perché in gioco ci sono altri parametri, come quello del linguaggio: dall’installazione video al videomapping sulle facciate, dalla realtà virtuale a quella aumentata, dal cinema verticale sugli i-phone all’universo del gaming. Le immagini ci pervadono, siamo immersi in esse, le produciamo direttamente noi e non più solo i professionisti (in questo gli sperimentatori sono stati dei pionieri se non dei profeti).
E allora in conclusione dov’è il problema? Beh, ripeto, c’è il problema di centinaia di migliaia di maestranze del mondo dello spettacolo che non hanno lavoro, delle fiction televisive spesso orrende, del 90 per cento di commedie italiane tutte uguali e, salvo pochi casi, tutte poco divertenti che non usciranno e non potranno essere viste nelle sale da tutta la famiglia, a meno che non ci si pieghi al terribile compromesso dello streaming (con quota destinata agli esercenti). E poi i critici e i giornalisti che rischiano di non andare ai festival e fare le loro recensioni (ma Venezia pare si farà, dunque nessun disagio).
Ma tutto questo potrebbe rivelare qualche vantaggio: ovvero la scoperta di altri modi di creare e di vedere le immagini, perfino senza immagini: “chi si sognerebbe di fare film astratti?” diceva Carmelo Bene nel 1983 durante una mostra del cinema di Venezia (appunto, i cineasti sperimentali che ne continuano a fare di bellissimi in tutto il mondo anche se non li vede quasi nessuno).
Esiste un programma di film italiani, chiamato “Fuori Norma” curato da Adriano Aprà: sono centinaia di lungometraggi prodotti nel nostro paese che non conosce nessuno (narrativi, semi-narrativi, di ricerca, documentaristici, o un misto di tutto ciò). Ad aprile sono stati messi a disposizione on line.
Basta vederli per capire che un altro cinema è possibile, un altro modo di fruirlo è possibile, un altro tipo di pubblico è possibile e anche un altro tipo di addetti ai lavori che possa aprire sempre di più gli occhi verso un mondo mediatico che cambia e che, Covid o non Covid, gradualmente sostituirà quello che abbiamo sempre trovato rassicurante ed economicamente remunerativo produrre e vedere.