L’Intelligenza Artificiale al cinema da Star Trek a Solaris fino all’incontro al buio tra uomo e macchina

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    Luca Sossella Editore, con Emilia Romagna Teatro Fondazione e Gruppo Unipol, ha ideato il progetto Oracoli. Saperi e pregiudizi ai tempi dell’Intelligenza Artificiale: una serie di iniziative integrate dedicate all’emergenza delle tecnologie intelligenti e al loro impatto su tutti gli aspetti dell’esistenza umana.

    1. Quattro lezioni-spettacolo a Bologna con esperti internazionali che ragioneranno sulle più importanti questioni etiche, filosofiche, politiche, sociali ed economiche connesse allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
    2. La pubblicazione Oracoli, curata da Paolo Gervasi e in edicola con Repubblica a Milano e in Emilia Romagna, che racconta il progetto, approfondisce la riflessione e si può scaricare in pdf qui.
    3. Una partnership con cheFare per diffondere online il dibattito sulle sfide culturali poste dall’intelligenza artificiale. Qui la serie.
    4. Produzione di video e di un libro sulle quattro lezioni-spettacolo.
    5. Durante la Notte di Radio3, la sera prima di ogni lezione-spettacolo, sarà trasmessa la lezione-spettacolo precedente.
    6. Le trasmissioni saranno pubblicate online sui portali di Rai Radio3 (Media partner di Oracoli), Rai Cultura e Rai Scuola e condivise sui loro canali social.

    Oracoli prossimi appuntamenti chefare

    È interessante notare una certa evoluzione nel concetto di macchina pensante che attraversa il cinema. Sarebbe davvero arduo (quanto, di contro, esaltante) redigere un catalogo e tratteggiarne una tassonomia.

    Proviamo invece molto più modestamente a tessere qualche filo… nella fantascienza classica la macchina pensante, intanto, ha normalmente due volti: il robot e il computer, quest’ultimo solitamente sul modello dell’ENIAC, un gigantesco armadio che occupa un’intera stanza con tanto di nastri a rotazione e lucine sparse. Il loro compito è quello di suggerire soluzioni logiche all’uomo (e, più nello specifico, all’uomo al comando).

    Il robot e il “computerone” hanno generalmente una voce metallica e spezzata proprio a definire una modalità “altra” di ragionare, meccanica per l’appunto, che avoca a sé il compito di essere il detentore di un sapere logico e statistico: calcola percentuali, è strategico, individua mosse… insomma sa giocare a scacchi (vera ossessione della AI, anche quella cosiddetta “forte”) e quindi pensare all’interno – e solo all’interno – di un sistema di regole rigido e codificato (e formalizzato).

    Esempio fulgido di computer logico-matematico è quello di Spazio 1999, la serie televisiva italo-britannica che porta la fantascienza di nuova generazione nelle case, e che però non si distacca da un modello di AI ancora legata a prassi logico-matematiche con tanto di effetto di ridicolo non voluto quando la risposta alle grandi questioni poste dagli umani si risolvono in piccoli foglietti espulsi a guisa di scontrino fiscale.

    Il computer pensante, quindi, come un fornitore di risposte su base logica dominerà ancora per molto gli immaginari fantascientifici.

    In un’altra serie cult come Star Trek il computer di bordo è una sorta di Alexa domotica che sovraintende pressoché ogni esecuzione della nave, ma per la prima volta contende a una forma organica il dominio della logica. Spock in questa caso rappresenta l’avvicinamento dell’organico all’artificiale facendo così da ponte tra un dominio assoluto della logica e uno della coscienza. Le chete acque rappresentate da una (“comoda”) distinzione netta vengono così mosse.

    È però Hal 9000 a segnare una differenza. Il computer (domotico) dell’astronave in rotta verso Giove di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick si presenta come elemento chiave di una perturbazione nella netta divisione uomo macchina: a un’astronauta piuttosto freddo, apatico, calcolatore e poco empatico che cerca soluzioni logiche, che investiga secondo modelli razionali, si contrappone Hal che, oltre a giocare a scacchi, proporre soluzioni, evidenziare aspetti statistici ai problemi, denota un lato umano: dall’interesse per il morale dell’equipaggio fino alla “umana così umana” paura di morire.

    L’immaginario della AI con Hal fa un salto di categoria e pone questioni etiche che troveranno un ulteriore sviluppo in Blade Runner dove la macchina, ormai antropomorfa, ripercorre gli stadi della coscienza umana: la risposta alla paura di morire diventa così un’esplorazione a vasto raggio delle proprie radici, dei propri ricordi, di una consolazione affettiva nel gruppo e nell’amore fino alla ricerca di dio.

    Elementi che proveranno ad analizzare film per altro anche riusciti come Io, Robot o Ex Machina o, ancora, Humandroid, ma il risultato non sarà altro che seguire il percorso che Ridley Scott – sulla scorta di Philip K. Dick – aveva già tracciato: l’emergere della coscienza nella AI a partire da un training (idea che troviamo già in nuce in Alan Turing) che immette ricordi, esperienze, sentimenti all’interno della rete neurale della macchina.

    Un training per un machine learning avanzato che supera persino i confini delle leggi sulla robotica di Asimov per avventurarsi nel (possibile?) emergere di una qualche forma di coscienza. In Her ancora una volta la AI è un servizio vocale, talmente raffinato da indurre il fruitore a scambiare il dialogo uomo-macchina per sentimento e a definire il bagaglio di dati della AI per coscienza.

    È allora un altro tipo di fantascienza ad avvertici della quasi impossibilità di intrattenere rapporti anche solo comunicativi con forme di intelligenza “altra” che non rispondono ai parametri, ai canoni e alle aspettative umane.

    Tarkovski, rileggendo Stanislaw Lem, riassume questa quasi impossibilità nell’incontro con l’oceano (forse) organico del pianeta Solaris nel film omonimo. Il contatto neurale tra intelligenze diverse non fa che far esplodere i lati più oscuri dell’uomo, le sue paure, le sue ossessioni.

    Allo stesso modo Robert Zemeckis nel forse troppo poco apprezzato Contact trasporta la protagonista in un viaggio intergalattico che si risolve in una spiaggia hawaiana dai cangianti cromatismi psichedelici in una dimensione onirica, in cui l’ “altro” si mostra sotto le sembianze del padre deceduto: l’incontro possibile con una intelligenza non-umana si risolve, ancora una volta, con la possibilità di applicare forme famigliari per intessere un qualche tipo di comunicazione sulla base di pochi parametri condivisibili.

    In AI Steven Spielberg prova a immaginare cosa potrebbe implicare un repertorio di ricordi e affetti inseriti in un robot che autoapprende… potrebbe sviluppare sentimenti?… una coscienza, addirittura? Nonostante tutta la futuribilità del robot antropomorfo, in fondo siamo ancora nei paraggi del paradigma Pinocchio: il bimbo che deve diventare uomo, qui in una doppia accezione: maturare (e quindi “crescere”), ma anche accedere a un mondo della coscienza che sembrerebbe a solo appannaggio della carne.

    Diviene sempre più evidente che non è la sola macchina (o meglio: la macchina da sola) a poter sviluppare forme più profonde di intelligenza (fino a quella creativa e quella emotiva), ma è una forte simbiosi tra uomo e macchina, parliamo quindi di una sorta di psico-tecno-evoluzione.

    Ecco allora che la AI si confronta con il mito postumanista del minduploading in Trascendence o specula su nuove forme di sottomissione dell’artificiale sull’organico come in Matrix. D’altra parte la macchina pura ha una sua rivalsa dopo anni di distopia anti-tecnologica con l’umanissimo Wall-E targato Pixar.

    Ma è il campo della biorobotica, della AI soft o dell’ibridazione organica a sviluppare gli immaginari più urgenti. In questa direzione vale la pena investigare anche un altro paradigma cinematografico: a esserne infatti investito potrebbe essere il cinema addirittura come linguaggio e dispositivo.

    Già un teorico come Gene Youngblood (così come Peter Weibel e William Uricchio) hanno posto l’attenzione sulla possibilità di un “cinema neurale” e dell’esplorazione di nuove forme di coscienza basate sull’incontro tra cinema e computer. Sarebbe allora il dispositivo stesso di produzione cinematica a configurarsi come spazio simbiotico intelligente dell’incontro tra uomo e macchina.


    Immagine di copertina: ph. Clarence E. Hsu da Unsplash

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