Le città, e non solo – come molte ricerche hanno evidenziato –, sia a livello nazionale che a livello internazionale, sono attraversate da diffuse iniziative di cittadinanza attiva e forme di autogestione o autorganizzazione, spesso in situazioni di assenza della politica e, più in generale, di una profonda e progressiva distanza delle istituzioni e della politica formale (a cominciare dai partiti) dai territori e dai contesti di vita delle persone.
D’altra parte, si registra anche la scomparsa delle agenzie intermedie, dei soggetti che tradizionalmente svolgevano a vario titolo il ruolo di catena di trasmissione; il moltiplicarsi delle forme di cittadinanza attiva più o meno critiche o antagoniste, sono una risposta anche a queste carenze, alla dissoluzione del tessuto civile e politico tradizionalmente inteso. Interpretiamo questi processi come un segno della vitalità delle città e, soprattutto, delle periferie, dove sono spesso più diffuse e attive, sia perché sono i contesti in maggiore tensione e in maggiore difficoltà (e per questo richiedono più fortemente un’attivazione per dare risposte alle esigenze emergenti) sia perché le “periferie”1Sull’idea stessa di “periferia” esiste un ampio dibattito e il concetto deve essere ripensato e ri-declinato anche in relazione ai processi attuali di sviluppo insediativo e di evoluzione dell’urbano. Cfr. Cellamare (2020). sono oggi le realtà più dinamiche, dal punto di vista sociale e anche culturale. Contrariamente allo stereotipo diffuso che le restituisce come un mondo amorfo o di concentrazione del degrado, non solo fisico, ma spesso anche esteso alla dimensione umana e personale (secondo una terribile e immotivata conseguenzialità), le “periferie” sono spesso oggi il luogo più vitale delle città. È qui che registriamo il moltiplicarsi delle iniziative sociali e culturali, la presa in cura dei propri territori, l’attivazione e la sollecitazione delle collettività locali (perché è difficile parlare di “comunità” locali, soprattutto in contesti urbani), lo sviluppo di servizi e di welfare comunitario, ecc.
Pubblichiamo un estratto da Città viva, il terzo volume di tre della serie Futuri urbani, un progetto curato da Criticity, edito da Contrabbandiera e promosso da ISIA Firenze.
Tali attività e iniziative portano inevitabilmente a interrogarsi in merito alla dimensione politica: esse stesse affrontano direttamente – intenzionalmente o meno, coscientemente o meno – la riflessione politica. È interessante quindi sondare il significato di questi processi in termini di cultura politica, a partire dalle esperienze, e focalizzare l’attenzione su quale politica sviluppano. A questo proposito, anche in un recente ciclo di seminari organizzato dal CRS (Centro di Riforma dello Stato) e dedicato a questi temi, si è ricorsi alle definizioni di “politica attiva” e “politica viva”. Merita ricordare come lo stesso Gramsci viveva continuamente “a ridosso” degli operai e partecipava frequentemente ai consigli di fabbrica per capirne il significato e il portato politico, poiché riteneva giustamente che la politica dovesse essere finalizzata alle persone e dare risposte alle esigenze sociali. Da una parte questo significava essere immersi nel vivo dei cambiamenti e delle elaborazioni innovative, da cui la riflessione politica, e le idee stesse del partito dovevano trarre ispirazione e nutrimento, anche in termini di avanzamento delle posizioni. Dall’altra era un modo per essere più vicini alle esigenze emergenti, sentirsene partecipi e responsabili, anche con la loro urgenza, per tradurle in istanze di cui farsi carico (con il portato emotivo che viene dal vissuto). Ovviamente senza assumerle acriticamente, ma lasciandosene interrogare. D’altronde era questo anche l’atteggiamento di Pietro Ingrao che sempre si interrogava sul radicamento nel sociale della politica, per non perdere il proprio senso e la significatività dei contenuti e delle idee.
Ripoliticizzare la vita urbana
In realtà, le esperienze di cittadinanza attiva e le forme di autorganizzazione sono molto diversificate, sia in relazione ai contesti che alle attività, ai posizionamenti, ai soggetti coinvolti, eccetera2Nel libro Città fai-da-te ho cercato di fornire il quadro complesso di tale vasta articolazione e diffusione.. Peraltro, queste esperienze non sono scevre di ambiguità e devono essere lette criticamente, perché esprimono posizioni, idee di città e visioni della società molto differenti e non necessariamente positive. Vi sono problemi, ad esempio, rispetto all’inclusività o alla democraticità del coinvolgimento, alla dimensione dell’appropriazione ovvero a quella della pubblicizzazione. Quello che fa la differenza è spesso proprio l’idea di città, la cultura politica che si pone a fondamento dell’esperienza.
In linea di massima, questa differenziazione potrebbe servire a riaprire il dibattito pubblico su un progetto per la città, sulle prospettive e sulle scelte che riteniamo più opportune. Si tratta di ripoliticizzare la vita urbana, sempre più incanalata in una strada predefinita ed eterodiretta, sulla quale non sembra esserci neppure modo di discutere. La città contemporanea sembra sempre più strutturata e organizzata, sia nello spazio che nel tempo, per una frammentazione degli spazi della vita collettiva, per una loro iper-specializzazione e monofunzionalità, per una valorizzazione economica anche della socialità, che viene snaturata e mercificata, creando sempre meno occasioni di incontro pubblico libero e collaborativo. L’individualismo, caratterizzante il modello neoliberista, tende a prevalere diffusamente sulle forme solidaristiche. Gli abitanti tendono a essere progressivamente estraniati dai processi decisionali – che peraltro sfuggono sempre più agli stessi organi elettivi democratici. Gli enti locali, ad esempio, stanno progressivamente perdendo sovranità sul governo delle trasformazioni urbane e territoriali, generate e guidate da ben altre forze economiche e interessi in campo – spesso delocalizzati, diffusi o a carattere sovralocale. Sempre meno sembrano esserci spazi di una vita democratica o di una discussione collettiva, ovvero sono atrofizzati e neutralizzati, così come è neutralizzato e criminalizzato il conflitto (Balibar 2012). Stiamo sempre più naturalizzando il modello culturale e sociale prevalente. È questo evidentemente il successo del neoliberismo che non si propone soltanto come modello culturale, ma come sistema valoriale (Moini 2020) e modello antropologico.
La cosiddetta società civile, variamente interpretata, non rimane comunque inerme, sebbene le condizioni per una possibilità di reazione e i connessi campi di azione appaiano sempre più difficili e ristretti perché le forze avverse sono sicuramente preponderanti. Un terreno importante di attenzione e di lavoro è quello del commoning, inteso come pratica e come processo. I “beni comuni”, termine sempre più abusato e il cui senso è reso ambiguo dal diffuso uso sloganistico, non sono (o non sono soltanto) categorie astratte di beni definite a priori, ma sono l’esito di un processo di appropriazione e riappropriazione; un prodotto eventuale di un processo di interazione collettiva, politicamente orientata3Per alcuni beni, come l’acqua, questo esito è dato dalla vita collettiva nel suo complesso, non necessariamente da specifici processi di interazione. Per categorie di beni come l’acqua la loro caratterizzazione dome “comuni” nasce da qui..
Rispetto quindi all’afasia della politica formale e della democrazia istituzionale i processi di cittadinanza attiva e, soprattutto, le forme di autorganizzazione sono oggi i luoghi effettivi di produzione della cultura politica. Spesso in forma di laboratori, direttamente innestati nella vita sociale e culturale.
Si tratta di una politica “significante”, ovvero di una politica che si radica, si costruisce ed elabora, cercando di dare risposte alle questioni emergenti nella vita quotidiana degli/delle abitanti. La ricerca di risposte adeguate alle esigenze della vita ordinaria viene cioè collocata dentro la ricostruzione di un quadro di riferimento, che diventa una cornice di senso e una visione di futuro, un progetto per il proprio contesto di vita e per la città in generale. In questa attività gli/le abitanti spesso mostrano un livello di maturità politica e di coscienza della complessità dei problemi molto importante e spesso più ricco e problematizzato di quanto non si riscontri nel personale politico tradizionale. Il continuo rapporto tra le situazioni concrete di vita quotidiana e la ricostruzione di un quadro di riferimento critico contribuiscono per un verso a collocare le lotte specifiche dentro un disegno più ampio, per altro verso affinano e mettono alla prova il quadro complessivo, cosicché non sia velleitario o inefficace. Nasce da questa dinamica la radicalità che le esperienze sviluppano, ovvero la coscienza che vi sia un modello consolidato, diffuso ed eterodiretto, che condiziona fortemente la vita delle persone e impatta sull’ambiente, generando grandi diseguaglianze di cui si sentono sulla propria pelle gli effetti degenerativi – e che richiede una grande forza di reazione, spesso in una lotta impari. Si tratta perciò di una politica “significante” che si interroga profondamente sulla natura pubblica dei processi (e quindi dei beni comuni) e degli effetti che hanno le trasformazioni urbane sulle diverse persone e sui diversi soggetti.
Intorno a queste alternative si costruiscono culture politiche importanti. Spesso producono linee di azione, sviluppate con il coinvolgimento degli/delle abitanti e di altri attori sociali, che dovrebbero essere proprie delle politiche pubbliche: limitazione e riduzione del consumo di suolo, welfare di comunità, servizi ai territori, riuso di edifici dismessi, risposte alla domanda abitativa, costruzione di spazi pubblici integrati, valorizzazione della componente naturale e rinaturalizzazione di aree compromesse, ecc., in una dinamica di cura dei territori e delle collettività locali.
L’arretramento del welfare state e il “doppio vincolo”
In questo panorama si collocano, come si è detto, posizioni molto diversificate, e quindi differenti visioni politiche. Anzi, in alcuni casi non vi è propriamente una coscienza politica forte e una discussione pubblica aperta. Come si è già notato, vi sono infatti anche ambiguità – in termini ad esempio di inclusività o di democraticità, o ancora di miopia di processi che perdono la dimensione pubblica e si concentrano più su interessi particolari, fossero anche di gruppi.
Uno dei grandi rischi è quello di essere sostitutivi rispetto alle carenze, e persino alle assenze, dell’amministrazione pubblica. Dagli anni 80 infatti siamo in una fase di arretramento del welfare state che mette in grande difficoltà i territori. Molte iniziative sono quindi la risposta a problemi concreti, pur collocandosi all’interno di un orizzonte politico ampio, che spesso, viceversa, manca nell’attività dell’amministrazione pubblica. Si sopperisce così sia alla distanza delle istituzioni sia alla mancanza di politica.
Da questo punto di vista, le esperienze di autorganizzazione vivono una sorta di “doppio vincolo”. Se per un verso vi è coscienza di non doversi sostituire alla pubblica amministrazione e all’assenza della politica, pena il divenire strumento di quella stessa dinamica di arretramento del welfare state, e che, al contrario, occorre mantenere alto il conflitto, richiamando le istituzioni ai loro compiti, esse hanno tuttavia necessità di non rimanere ferme davanti all’inanità, fornendo risposte concrete ai bisogni sociali emergenti che le sollecitano.
L’evoluzione del conflitto e lo spazio come “posta in gioco”
All’interno di questo quadro, sono da evidenziare alcuni importanti aspetti caratterizzanti le esperienze di autorganizzazione urbana.
In primo luogo, come si è da più parti notato, il conflitto si è evoluto, ha assunto forme differenti e possibilità diverse di azione. Il punto di tensione si è spostato dalla fabbrica alla città nel suo complesso, e dal lavoro alla “vita metropolitana” intera, coinvolgendo tutte le sue forme di precarizzazione e sudditanza, nonché le disuguaglianze spaziali che si moltiplicano e che sono il prodotto stesso della città contemporanea. Questo processo, però, complica lo sviluppo delle forme conflittuali. Mentre nel conflitto capitale-lavoro, che trovava il suo coagulo nel luogo della fabbrica, i soggetti contro cui sollevare il conflitto erano chiari, ora i soggetti destinatari della lotta sono molto meno chiari e non si identificano, se non minimamente e marginalmente nei datori di lavoro. Bisognerebbe sollevare un conflitto nei confronti, ad esempio, dei fondi di investimento (di alcuni in particolare), o altre strutture attraverso cui si produce la finanziarizzazione della città e della vita urbana. Ovviamente si tratta di elementi difficilmente identificabili, difficilmente localizzabili, difficilmente associabili a specifici soggetti (anche se alcuni soggetti ne sono espressione e sono stati spesso oggetto, almeno simbolico, delle rivolte urbane) e, per questo, difficilmente oggetto di mobilitazioni urbane socialmente diffuse e condivise. Analogamente, prendere di mira le pubbliche amministrazioni e gli enti locali è giustificato, ma inefficace. È vero che le pubbliche amministrazioni spesso assecondano logiche neoliberiste, ma allo stesso tempo sono oggi soggetti deboli, anche succubi di processi sovralocali rispetto ai quali, come si diceva precedentemente, hanno permesso sovranità nel governo dei propri territori. Oltretutto rappresentano oggi spesso (ma l’affermazione non è generalizzabile) un muro di gomma rispetto alle pressioni della società civile. Gli stessi processi partecipativi creano spesso aspettative che rimangono deluse o frustrate, o i cui effetti sulle politiche complessive sono decisamente limitati4Lo stesso termine “partecipazione”, parola nobile e molto bella, è oggi da usare con molta attenzione, per le molte distorsioni e ambiguità cui è sottoposta (Cellamare 2007, Moini 2012).. Il conflitto, cui comunque non si rinuncia, appare uno strumento sempre più difficile da usare e praticare, cui si aggiunge, come detto prima, una sua crescente criminalizzazione.
Sempre più difficile, il conflitto rappresenta un’espressione di grandi movimenti sociali che attraversano la città, la mobilitazione di strati diversi della popolazione che si coagulano in un’azione comune. Non è un caso che si diffondano sempre più le rivolte urbane, articolate in tanti modi diversi e che possono anche assumere caratteri socialmente diffusi, come i movimenti Occupy Wall Street o Black Lives Matter o dei Gilets jaunes e tanti altri che hanno attraversato recentemente le città, anche segnando alcuni momenti storici importanti, come quello della Primavera araba. All’interno di una difficoltà di cambiare radicalmente il sistema, sono forme di attacco, anche simboliche, ai centri di potere e alle forme di sudditanza.
La capacità di dominio si sviluppa non solo sul mondo della produzione (di beni e servizi) ma sulla città tutta: sull’organizzazione della vita quotidiana, sulle modalità di muoversi, di usare lo spazio e di gestire il tempo da parte degli abitanti. Il dispositivo della città, anche oltre quella che in senso foucaultiano è stata definita la “città del controllo” (Foucault 1975, 2004), induce modelli di vita e di abitare che ormai tendiamo a naturalizzare, a rendere automaticamente propri. Il controllo viene così interiorizzato dagli stessi abitanti. Il dominio si esercita sulla vita delle persone, in una dimensione propriamente biopolitica, sulla stessa “nuda vita” (Agamben 1995). Finanche il corpo ne è interessato ed è fattore di sottomissione.
Lo spazio – o se vogliamo il proprio contesto di vita e in generale la città – diventa la posta in gioco per cui lottare; la possibilità di costruire spazi di libertà (Foucault 2001) rispetto al modello neoliberista prevalente rappresenta la condizione minima di esistenza. Non si tratta solo di forme di resistenza (ad esempio, di opposizione a trasformazioni urbane stravolgenti o speculative), ma della realizzazione di spazi di autonomia dove provare a sviluppare alternative. Ne è un esempio l’intero campo dei conflitti ambientali, che sono conflitti per la sopravvivenza di territori e di comunità locali.
Se il conflitto diventa sempre più difficile da praticare e le forme partecipative diventano ambigue e frustranti, una strada importante da praticare è quella di costruire spazi di autonomia o di libertà, che cercano di concretizzare, al di là delle forme di resistenza e di opposizione, modelli alternativi di vita urbana e collettiva.
Progetti di vita
Nelle esperienze di autorganizzazione riscontriamo una sorta di frammentazione che, spesso, viene considerata negativamente. I soggetti impegnati sui territori appaiono per lo più concentrati su vertenze locali e difficilmente collaborano con altri soggetti e/o costruiscono reti locali o sovralocali, propongono una visione di livello urbano e metropolitano. In effetti, il carattere di queste esperienze non è quello dei grandi movimenti sociali e urbani degli anni 70 – ad esempio quelli di lotta per la casa e per il lavoro, spesso profondamente intrecciati tra loro (come sono ancora oggi).
Anche sul tema della “nuda vita” e della “biopolitica” cui si è fatto riferimento, la metropoli diventa il luogo di “un corpo a corpo nella vita quotidiana” (Agamben 2007) e la risposta al complessivo modello sociale e culturale si sviluppa attraverso la costruzione di “progetti di vita”, ovvero le persone costruiscono alternative ai modelli prevalenti con la propria vita, condividendo percorsi individuali con altre persone e costruendo percorsi collettivi che vengono condivisi e socializzati. I movimenti si costruiscono qui attraverso la condivisione orizzontale di progetti di vita.
In realtà, sebbene concentrate su situazioni particolari, la maggior parte delle forme di cittadinanza attiva e di autorganizzazione hanno una capacità di visione urbana e metropolitana – anzi una capacità molto vasta di lettura delle trasformazioni sociali, nonché di fare rete –, salvo essere schiacciati sulle proprie situazioni da tutelare, per i rapporti di forza impari, sia rispetto all’azione dei soggetti economici (spesso irraggiungibili e più forti delle stesse amministrazioni locali) sia rispetto al muro di gomma, se non alla collusione, delle istituzioni pubbliche – anche loro messe in difficoltà, nell’esercizio della propria “sovranità”, dalle forze di mercato. Lo spazio come posta in gioco rappresenta spesso la situazione da difendere, in rapporto alle proprie forze disponibili e alla difficoltà di fronteggiare problemi e forze soverchianti.
Abbiamo spesso “mini-movimenti” che si occupano dei propri territori. Sono quelli più alla portata per una battaglia, e sono anche quelli più alla portata anche per la comprensione della loro lotta. Le lotte a livello più alto risultano più difficili e non alla portata, se non intraprendendo battaglie che sono di dimensione nazionale, su un arco di tempo di molti anni e con molte energie impegnate, come è nel caso della Val di Susa o del No-TAP. Le forze del neoliberismo risultano spesso soverchianti.
Gli stessi “patti di collaborazione” per la gestione dei beni comuni appaiono per molti versi una soluzione riduttiva (sebbene utile), riguardando la gestione di un singolo bene, con oneri trasferiti sui cittadini e all’interno di cornici regolamentari predefinite, senza investire il piano delle scelte politiche.
In un recente articolo, Ilardi (2021) sottolinea che negli anni 70 – e comunque a partire dall’esperienza del ’68 – in Italia si è determinata una situazione favorevole, dove i movimenti particolaristici (e/o le lotte locali) e spesso corporativi tipici della democrazia italiana si sono combinati con grandi movimenti sociali e grandi linee politiche di azione, generando importanti cambiamenti e segnando il nostro contesto in maniera anche molto più importante e di riferimento rispetto a tanti altri contesti nazionali. Allo stesso tempo, Ilardi critica la situazione attuale dove i movimenti urbani non riescono più a uscire dai loro particolarismi e dalla loro frammentazione e non riescono più a combinarsi con grandi mobilitazioni sociali e con grandi prospettive politiche. Le periferie non riescono quindi a diventare il luogo di un conflitto profondo ed efficace. A mio parere, pur condividendo questa posizione, ritengo che non se ne possa fare una colpa alle realtà che si attivano nelle periferie, quanto alla mancanza o alla difficoltà delle grandi mobilitazioni sociali e delle grandi prospettive politiche. I contesti urbani sono oggi i pochi luoghi dove il conflitto e l’azione sono ancora vivi.
Piuttosto, le esperienze di cittadinanza attiva o di autorganizzazione non sono interessate a “conquistare il potere”. Cercano piuttosto di scartare di lato, per conquistare spazi di autonomia dove si possono muovere più liberamente, anche perché le istituzioni pubbliche non sono più in grado di controllare totalmente (se mai lo sono state) quanto avviene sul territorio. Per questo risultano più inaccettabili i comportamenti informali e vengono criminalizzati e perseguiti con forza. Allo stesso modo queste esperienze, pur dovendosi confrontare per forza di cose con l’amministrazione pubblica (soprattutto per gli aspetti gestionali più concreti e per le politiche da sviluppare sui territori), tendono a scartare rispetto alla politica formale e agli spazi della democrazia istituzionale che risultano asfittici e sterili, e quindi un vicolo cieco. Anche in questo tendono a costruire percorsi di autonomia (scuole di politica, spazi pubblici di discussione, corsi di formazione, ecc.).
“Politiche per l’autorganizzazione”
Nelle esperienze di autorganizzazione svolge un ruolo fondamentale la dimensione dell’azione, sia perché la mancanza di risposte da parte della pubblica amministrazione spinge a percorrere vie dirette di realizzazione, sia perché la costruzione di alternative, di concreti progetti di vita e di convivenza passa appunto attraverso scelte e realizzazioni pratiche. Le alternative non solo si progettano: si cerca di farle. Politica e azione si combinano. La politica diventa teoria in azione (e, anche per questo, politica attiva): informa e orienta l’azione e le realizzazioni concrete; si radica, prende forma, viene modellata e messa alla prova dall’esperienza, e dall’esperienza di vita delle persone che si confrontano con le situazioni reali e le loro difficoltà.
In questo senso, come si è detto, le esperienze di cittadinanza attiva e di autorganizzazione diventano laboratori di politica e di cultura politica, concretizzando il radicamento nel sociale e il rapporto con la vita quotidiana.
È opportuno, poi, distinguere tra politica e amministrazione (governo, politiche, ecc.). La riduzione della politica ad amministrazione si è tradotta spesso in governamentalità, appiattendosi su logiche di efficienza e dando spazio a forme tecnocratiche che non permettono di far emergere un confronto politico e di fare chiarezza sugli orizzonti politici che si assumono come riferimento. In questo contesto di appiattimento, agli occhi della governance istituzionale, il conflitto politico risulta fastidioso e fuori luogo, perde la sua ragione d’essere, non ha più cittadinanza. Le esperienze di cittadinanza attiva e di autorganizzazione, pur sviluppando una propensione all’azione, si collocano esplicitamente in un orizzonte politico e a quello richiamano. Quello che si cerca è una nuova alleanza tra protagonismo sociale e istituzioni che dia spazio alla costruzione di politiche pubbliche nel vero senso della parola, anche attraverso forme collaborative, che permettano di mantenere l’autonomia e il riconoscimento delle esperienze e di ricostruire la dimensione pubblica. Questo significa da una parte sviluppare politiche per l’autorganizzazione, politiche cioè che riconoscano e supportino il valore e le progettualità delle esperienze sui territori, e dall’altra sviluppare comportamenti abilitanti, che permettano cioè un reciproco apprendimento: un apprendimento delle esperienze nei confronti dei meccanismi istituzionali, un apprendimento delle istituzioni rispetto ai contenuti, alle progettualità e alle azioni che vengono dalle esperienze sociali.
Reti mutualistiche
Un importante terreno di lavoro è quello di costruzione di reti collaborative tra le diverse esperienze di autorganizzazione e cittadinanza attiva e tra diversi soggetti. Da questo punto di vista, la Capitale può essere un terreno esemplificativo, ma analoghe esperienze si sviluppano in tutta Italia e non solo. Durante la prima fase della pandemia, Roma si è attivata per rispondere all’emergenza con una capacità di solidarietà veramente notevole. Dati i ritardi dell’amministrazione e le difficoltà che ha incontrato per svolgere un intervento di sostegno alle famiglie e alle altre realtà in difficoltà, se non ci fossero state le tante reti solidaristiche attivatesi spontaneamente la città non sarebbe riuscita a resistere. Non solo, ma in molti casi le amministrazioni locali e le agenzie pubbliche si sono appoggiate alle realtà sociali locali per raggiungere le famiglie o per intervenire sui territori. Tali reti solidaristiche, in molti casi, non sono nate dal nulla: hanno sviluppato quanto già si stava facendo precedentemente alla pandemia. Ne sono un esempio gli stessi centri sociali che hanno rappresentato in quei momenti un punto di riferimento e di appoggio. Tra questi, emblematico il lavoro svolto dall’occupazione a scopo abitativo di via S. Croce di Gerusalemme e del suo Centro di servizi Spintime, che aveva già diffusamente sviluppato reti di collaborazione con e per il territorio in cui è inserita. Sono state proprio queste reti solidaristiche e collaborative preesistenti ad attivarsi e a svilupparsi sui territori, con una serie di soggetti molto differenziati: dalle parrocchie ai centri sociali, dalla rete dei GAS e delle economie solidali ai centri di accoglienza e di supporto alle famiglie migranti, dagli scout alle reti dei coworking. Alcune esperienze sono evolute di conseguenza. Sparwasser, ad esempio, centro sociale e di iniziative culturali, si è trasformato in un centro per l’accoglienza.5Andando peraltro incontro ad un paradossale intervento sanzionatorio da parte del locale Municipio, piegato nelle chiuse e ottuse logiche burocratiche, che ha dovuto poi ritirare tale intervento e giustificarsi, davanti alla massiccia reazione di protesta e di sdegno dell’opinione pubblica e della città.
L’aspetto interessante è che, superata la fase pandemica più acuta, tali reti mutualistiche si sono stabilizzate e consolidate, organizzandosi spesso a scala urbana, strutturando collaborazioni con le realtà locali (comitati, associazioni, centri sociali, ecc.) per intervenire nei diversi quartieri e, fatto ancor più interessante, sviluppando rapporti costitutivi e formalmente riconosciuti con alcuni Municipi (in particolare, l’VIII). Hanno così dato vita a reti collaborative tra soggetti molto diversificati, istituzionali e non, pubblici, del privato sociale o delle forme spontanee e non formali di organizzazione, ecc.; reti ibride decisamente innovative, proprio perché mettono in relazione soggetti diversi ma impegnati in un comune obiettivo: una volontà di collaborazione che superi le differenze.6Roma ha sempre sofferto la difficoltà di costruire reti collaborative a livello sovralocale e quindi cittadino. L’esperienza che più ha lavorato e si è consolidata in questa direzione è l’associazione Carteinregola, rete di comitati e associazioni di livello cittadino, ma appartenenti per lo più alla città consolidata. Nata in risposta alla pressione di alcune politiche pubbliche di grande impatto sui territori, come quella dei PUP (Piani Urbani dei Parcheggi), si è sviluppata attrezzandosi in senso tecnico e di competenze e mobilitandosi sui casi più problematici di governo urbano. Ha un carattere molto omogeneo al suo interno, in termini di soggetti coinvolti. Di fatto, è diventato in molti casi un interlocutore dell’amministrazione pubblica e si propone come soggetto attivo in campo tecnico-politico e propositivo.
Particolarmente importante è un ulteriore passaggio. Sempre più la dimensione solidaristica è integrata non soltanto con una dimensione progettuale e di intervento sui territori, ma soprattutto con una esplicita dimensione politica di interlocuzione con l’amministrazione pubblica. Tali reti si costituiscono come soggettività politiche, che si impegnano nel discorso pubblico sulla città, con una forza in alcuni casi veramente rilevante.
Ne possiamo segnalare alcune. In primo luogo, la rete Solid, radicata nell’esperienza di Spintime, ma che ha saputo ampiamente costruire reti solidaristiche anche con soggetti molto diversi e anche in collaborazione con le amministrazioni locali. È una delle realtà più emblematiche in cui la cultura dei centri sociali e delle occupazioni a scopo abitativo si incontra (e si trova bene) con le realtà attive della Chiesa cattolica, così come con le reti studentesche soprattutto universitarie (Scomodo), con i soggetti del Terzo settore, con comitati e associazioni locali, ecc. Più o meno connesso a Solid è un altro soggetto, la rete Liberare Roma, più esplicitamente politico, che si sta impegnando nella costruzione di un progetto e di una visione di futuro per la città, cercando di rompere le logiche strettamente partitiche e mirando a un’alleanza trasversale tra soggetti diversi.
Un’altra rete particolarmente importante è Nonna Roma. Nata nel quadrante est della città, quello che soffre le maggiori difficoltà di carattere socio-economico, ma che poi si è allargata a livello cittadino, con una grandissima capacità di organizzazione e di auto-finanziamento, è prima di tutto una rete solidaristica molto orientata alla lotta alle povertà e a intervenire nelle situazioni di bisogno. Lungi dal fermarsi a una dimensione assistenzialistica, è impegnata nell’attivare i territori e nel costruire solidarietà orizzontale e dal basso, promuovendo una cultura alternativa e la lotta alle disuguaglianze sociali, così gravi a livello cittadino, anche con un forte impegno nel dibattito pubblico.
La terza esperienza particolarmente interessante e di livello cittadino è la Rete dei Numeri Pari. Nata sicuramente dall’impegno sui territori, con una serie di progetti e interventi di carattere mutualistico, e nella lotta alle disuguaglianze, è la realtà più esplicitamente e più direttamente impegnata anche a livello politico. È tra i promotori di movimento pop, iniziativa culturale e politica che si propone, fuori dallo schema dei partiti tradizionali, di ricostruire un soggetto politico radicato nei territori e con una visione progettuale innovativa per la città. Sia come sostenitore di movimento pop sia indipendentemente da esso, oltre all’impegno in campo sociale e di denuncia delle ingiustizie e delle politiche distorte dell’amministrazione locale, la Rete dei Numeri Pari si propone come soggetto politico attivo nel dibattito pubblico.
Quartieri che si autorganizzano
L’autorganizzazione si è presa i territori. Ancora una volta la Capitale è un contesto interessante cui riferirsi esemplificativamente. Roma è una città di città, anzi è una città di villaggi. La sua estensione, la sua organizzazione insediativa, le storie e le modalità con cui si sono formate le diverse parti della città fanno sì che il quartiere sia un’unità insediativa di riferimento per l’abitare. Spesso è il contesto identitario in cui ci si riconosce (Albanese 2020). Di fatto è il luogo in cui si concentra la vita degli abitanti, soprattutto per le fasce più giovani di popolazione, sia per la concentrazione e l’accessibilità dei servizi (pensiamo soprattutto alla scuola, attorno a cui gravita la vita delle famiglie e attorno a cui si sviluppano importanti forme di collaborazione e mutualismo tra genitori) sia per il raggio di azione della mobilità locale – se non si vuole affrontare il vasto campo del soffocante traffico cittadino nel momento in cui ci si vuole muovere per fruire delle molte opportunità che offre una grande città come Roma. L’abitante romano vive su più scale, due soprattutto: quella locale e quella urbana-metropolitana – che non sempre gli appartiene, o che vive come propria. Ancora oggi, come peraltro già nel passato, c’è chi dice “vado a Roma”, spesso anche da quei quartieri che ormai sono inglobati nello sviluppo insediativo complessivo della Capitale.
Molti quartieri hanno imparato ad auto-organizzarsi e, senza aspettare l’intervento dell’amministrazione locale che tarda a vedersi (o è totalmente assente o impotente), hanno avviato percorsi di “rigenerazione (urbana) dal basso”. Non sono cioè soltanto propositivi di progettualità, ma sono protagonisti del cambiamento, tra molte difficoltà e contraddizioni, e spesso grazie anche all’intervento di nuovi soggetti finanziatori, come le fondazioni, prima assenti dal panorama romano.
Un classico esempio, ben noto a Roma, è il grande lavoro che sta facendo e ha fatto nel passato il “lago ex-SNIA”, soprattutto tramite il suo Forum territoriale e tutta la rete di soggetti che vi gravita attorno (Gissara 2018, Militant A/Assalti Frontali 2018). Centro propulsore sia della tutela e difesa del lago sia della gestione di tutto il parco, il Forum territoriale e la rete di soggetti che vi gravita attorno (e più in generale “il lago”, per come è diffusamente chiamato a Roma) sono diventati protagonisti della riqualificazione dei quartieri circostanti e della tutela delle aree verdi del settore est della città, nella prospettiva della costituzione di una effettiva rete ecologica a livello urbano.
Nel noto quartiere di Tor Bella Monaca, nell’immaginario comune emblema del degrado cittadino e dello spaccio della droga, che balza agli onori della stampa solo in occasione di qualche drammatico evento di cronaca, diverse associazioni e reti locali, in collaborazione con le scuole presenti e molto attive sul territorio – con almeno una copertura formale da parte del Municipio locale, e fruendo dei finanziamenti di progetti pubblici (ad esempio ministeriali) o del supporto di fondazioni private7Come la Fondazione Paolo Bulgari (https://fondazionepaolobulgari.org/) o la Fondazione Charlemagne con il suo programma periferiacapitale (https://www.periferiacapitale.org/). – stanno sviluppando una molteplicità di progetti, sia nel campo culturale8Tra cui, in particolare, il progetto ColorOnda, sviluppato dal locale centro sociale elChentro. che in quello sociale, ma anche finalizzati alla riqualificazione urbana e degli edifici pubblici esistenti, come il Progetto Me.Mo. e il Progetto CRESCO9Per il Progetto Me.Mo. cfr. il sito https://sites.google.com/a/uniroma1.it/laboratorio-studi-urbani-dicea/attivita/memo-memorie-in-movimento?authuser=0, per il Progetto CRESCO cfr. il sito https://fondazionepaolobulgari.org/attivita/cresco/. In questi progetti è coinvolto il LabSu (Laboratori di Studi Urbani “Territori dell’abitare” del DICEA, Sapienza Università di Roma). Cfr. il sito: https://sites.google.com/a/uniroma1.it/laboratorio-studi-urbani-dicea/home?authuser=0.. Tra questi, in particolare, l’attenzione si concentra sulla riqualificazione delle scuole, sia per creare le condizioni per una didattica che non sia più solo a distanza in questa difficile epoca pandemica (aule all’aperto, riqualificazione dei giardini e degli spazi aperti), sia per rendere sempre più la scuola aperta e a servizio del territorio, in un’ottica di reciproca collaborazione. Si tratta di un approccio integrato che tiene insieme il lavoro con le scuole (la formazione con gli insegnanti, ma anche i percorsi didattici con i bambini, ad esempio finalizzati a una rilettura del proprio territorio, tramite laboratori-narrazioni), il lavoro con gli agenti educativi sul territorio (il Cubolibro o un gruppo informale di madri che si occupa della riqualificazione di un edificio per farne una ludoteca, la Casa di Alice), la riqualificazione degli spazi fisici delle scuole e la loro apertura al territorio, la riqualificazione degli spazi pubblici – anche attraverso forme di coinvolgimento degli abitanti e laboratori di auto-costruzione –, la creazione di occasioni di dibattito pubblico, la prospettiva di attivare percorsi mirati all’occupazione attraverso “laboratori sociali”. Altre associazioni sono riuscite a sollecitare e attivare l’intervento pubblico sul patrimonio edilizio degradato. È il caso dell’azione dell’associazione Tor Più Bella, in rapporto alla quale l’AterRoma ha avviato un (raro) processo di riqualificazione edilizia di alcune torri, quelle di via Santa Rita da Cascia. Altre realtà, come la rete di associazioni e altri soggetti che hanno assunto la gestione del “polo dell’ex-Fienile”, si costituiscono come polo culturale e di riflessione all’interno del quartiere (che, in realtà, è già di per sé una piccola città). Il Municipio10In questo caso si tratta del Municipio VI “delle Torri” ha tra l’altro un suo programma – denominato “Diamoci un (Tor Bella) mano” – di rigenerazione urbana a partire dalla dimensione culturale, in cui alcune di queste iniziative si inseriscono. Anche se non coordinate tra loro11Anzi, spesso si sviluppano attraverso forti conflittuali locali, tra le stesse associazioni e tra i diversi protagonisti dei progetti., tutte queste iniziative disegnano un quadro complessivo di rigenerazione dal basso: politiche integrate che dovrebbero essere prese a riferimento dalla pubblica amministrazione per un “ben governare” e che di fatto sono politiche pubbliche prodotte dal basso.
Roma ha da tempo una tradizione di forte presenza associativa all’interno dei quartieri, che ha spesso portato a forme di autogestione (come a Mandrione Casilina vecchia; Giangrande, Goni Mazzitelli, a cura di, 2011). L’aspetto innovativo interessante è che le nuove forme di autorganizzazione dei quartieri coinvolgono sia soggetti della società civile che istituzioni, in un’inedita forma collaborativa che vede spesso come protagonisti quei soggetti (centri sociali, movimenti di lotta per la casa o occupazioni a scopo abitativo) non considerati o considerati negativamente, a causa della loro illegalità. Oggi sono spesso loro i protagonisti del coordinamento, della capacità collaborativa e dell’attivazione degli interventi.
Ne è un caso molto interessante l’esperienza al Quarticciolo, borgata storica di edilizia residenziale pubblica a ridosso della Prenestina, gestito dall’AterRoma. Qui si è sviluppata un’interessante collaborazione tra un’occupazione a scopo abitativo, la locale palestra autorganizzata, le realtà sociali del quartiere, gruppi di abitanti, il locale teatro (il Teatro del Quarticciolo, della rete pubblica del Teatro di Roma) e le scuole. La palestra, molto radicata nel quartiere – e luogo di riferimento per i giovani in un contesto, peraltro, molto difficile e privo di molte altre opportunità – ha negoziato con l’Ater la regolarizzazione e la riqualificazione edilizia autorganizzata. Con Ater è stata negoziata anche la riqualificazione edilizia di alcuni blocchi di case – che sono quelle più problematiche (anche in termini di occupazioni irregolari degli alloggi), più stigmatizzate (Olcuire 2019) e più degradate dal punto di vista fisico. Ancora, recentemente, si sta sviluppando un patto educativo tra i diversi soggetti coinvolti. Anche in questo caso, una fondazione ha sostenuto le iniziative e gli interventi fisici. È interessante che l’iniziativa del comitato di quartiere Quarticciolo Ribelle si proponga di costruire una rete collaborativa di queste esperienze a livello cittadino.
Non si tratta peraltro di situazioni facili e idealmente collaborative, in una sorta di visione romantica dell’organizzazione sui territori. Anzi generalmente ci si dibatte tra molte difficoltà.
Un’altra esperienza interessante è quella della LAC (Libera Assemblea di Centocelle), rete tra molti e differenziati soggetti che operano e sviluppano iniziative all’interno di quel quartiere. Non ha il “controllo” del territorio, né ha una capacità dominante di azione e intervento, però costituisce una rete collaborativa che in quel contesto è forte, autorevole e riconosciuta, capace di costruire progettualità condivisa e di costruire uno spazio di dibattito e confronto pubblico così assente a livello cittadino. Essa è nata come risposta alle azioni incendiarie che hanno colpito alcune attività commerciali e per il tempo libero nel quartiere (a cominciare dalla libreria La pecora elettrica), atti dolosi a carattere intimidatorio molto probabilmente su iniziativa della criminalità organizzata che vede crescere le opportunità di arricchimento e di sfruttamento in un quartiere soggetto a una fase di riqualificazione e di pseudo-gentrification. Le diverse realtà locali si sono volute “riprendere” il quartiere e fronteggiare questa minaccia, anche per l’assenza di un’azione pubblica adeguata, e in generale di qualsiasi tipo. Organizzata in gruppi di lavoro tematici (dalla raccolta e distribuzione di cibo all’ascolto psicologico e ambulatorio popolare, dall’educazione al sostegno legale, dall’autoproduzione a percorsi legati ai temi dell’ambiente e del territorio), sviluppa iniziative culturali e sociali, costruisce progettualità, struttura reti sul territorio, anche in relazione ai contesti circostanti, diventando un interlocutore importante della pubblica amministrazione.
Altri quartieri hanno peraltro strutturato da tempo una notevole capacità organizzativa, impegnati in un’attività di rigenerazione urbana e socio-economica, proponendosi come interlocutori per l’amministrazione pubblica a livello locale, ma costituendosi anche come soggetti attivi, dal punto di vista politico e propositivo a livello cittadino. È il caso, ad esempio, di Corviale, nell’ambito della cui esperienza è nata la rete Roma interrotta, che sviluppa un’importante riflessione a livello cittadino, anche con il coinvolgimento delle Università.
Come si è già sottolineato in altre occasioni (Cellamare 2019), anche le occupazioni a scopo abitativo spesso diventano di riferimento sui territori e strutturano reti territoriali collaborative di autogestione. È molto evidente nel caso già citato di Spintime (Cacciotti 2021), ma anche a Metropoliz, nel quartiere Prenestino.
La “democrazia territoriale”
La democrazia territoriale può svolgere un ruolo rilevante e vivificante per la democrazia formale. Il quartiere può essere considerato la dimensione di riferimento, dove si incrociano la dimensione della politica e quella delle politiche e dell’amministrazione. È la dimensione accessibile oggi alle dinamiche sociali, a cui si può rapportare la capacità di azione e di elaborazione collettiva, in un rapporto con la vita quotidiana degli abitanti da una parte, e i grandi processi socio-economici o almeno la dimensione delle politiche pubbliche dall’altra. Si tratta cioè di vivificare quello spazio di vita politica collettiva, non necessariamente “formale” (ma che anzi può attingere all’informale), in una tripartizione (come suggeriva Rosa Luxemburg) tra la democrazia istituzionale/formale fondata sulla rappresentanza, i partiti come organismi strutturati che gestiscono il confronto politico e appunto la “democrazia territoriale”, che si rapporta con i contesti e le dinamiche di vita delle persone e dei gruppi sociali.
Non si tratta di esperienze estranee alle possibilità delle organizzazioni istituzionali delle nostre democrazie, sebbene appaiano a volte forme troppo difficili da realizzare. Conosciamo già alcune esperienze che vanno in questa direzione. Ne è un esempio la municipalità di Lisbona, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle politiche abitative, della “rigenerazione urbana”, dello sviluppo locale, realizzate sui territori in collaborazione con i gruppi espressi o costruiti dai territori stessi, spesso anche a carattere informale: collaborano a valutare le situazioni, individuare le problematiche, elaborare le progettualità e le politiche, gestire le linee di azione. Altro esempio è il padiglione francese alla Biennale di Architettura di Venezia due anni fa, dedicato alle forme collaborative tra istituzioni e attori sociali nella gestione di beni comuni: strutture che sono anche spazi di attività sociali, culturali ed economiche, di relazioni sociali sui territori, di laboratori culturali. Curiosamente questa collaborazione, in tante forme organizzative differenti, è possibile in un paese come la Francia, tradizionalmente molto “istituzionalista”. Ma abbiamo tracce di questa logica anche in situazioni più vicine a noi. Per esempio, nel contesto del quartiere di Piscine di Torre Spaccata, dove si sta sviluppando un progetto di riqualificazione dell’ex mercato rionale, da trasformare in centro polifunzionale a servizio del territorio. Nelle proposte del Comitato di Sviluppo Locale, rete di associazioni e realtà sociali del quartiere, l’organo di gestione dovrebbe essere un soggetto misto tripartito, cui contribuiscano gli operatori economici che vi svolgono le attività, le associazioni e le altre realtà sociali che curano le esigenze del territorio, le istituzioni locali (e, in particolare, il Municipio) che tutelano la democraticità dei processi e l’interesse pubblico. Si tratta di alcuni esempi che pongono l’accento sulle forme collaborative tra istituzioni e protagonismo sociale, dando nuova linfa alla democrazia e sostanza alla politica attiva.
Riferimenti bibliografici
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