La prima immagine che avevo associato a Giorgio Vasta è quella, estremamente iconica, della copertina de Il tempo materiale, disegnata da Alessandro Gottardo (aka Shout). In un paesaggio metafisico, lo scheletro di una Due Cavalli verde è fuori dagli orizzonti, una ruota sostituita da un cumulo di mattoni, un passeggero senza volto sul sedile posteriore, due cani e un’ombra dell’auto che crea lo spazio, la prospettiva. Così, il mio essere lettrice aveva dato un volto-oggetto ad un autore, una metonimia ingiustificata che mi accade spesso.
Quando qualche mese fa abbiamo iniziato a sentirci per organizzare insieme un incontro di Rosetta, che fosse parte del suo lavoro di Bookpride, in un certo senso avevo la sensazione di inviare le comunicazioni a quella copertina, a quell’immaginario, a quella Palermo assolata. Sebbene fosse solo una suggestione, credo che parte di quel meccanismo sia andato ad alimentare la costruzione dell’incontro che abbiamo immaginato insieme. Elenchi di libri e di scrittori, riflessioni su autori, storie, biografie, dimensioni intellettuali, disimpegno, vulnerabilità.
Giorgio Vasta è uno scrittore che si occupa di scrittori: al lavoro individuale affianca quello di curatore, prima di antologie, ora anche di festival, che rappresentano, di fatto, antologie viventi, o, come in questo caso, antologie dei Viventi.
Rosetta è a Bookpride: Domenica 25 marzo all 19.00: Intellettuale/Influencer con Giulia Blasi, Maria Grazia Giannichedda Daniele Giglioli, Paolo Nori e Francesco Pecoraro
Abbiamo conversato di libri, di scrivere, di politica, di cosa significhi oggi essere intellettuale e quale ruolo fondamentale possa ricoprire la letteratura in questi momenti di spaesamento, di sparizione, nel riuscire a scompaginare il reale, a negoziare con le proprie molteplicità, e come possa diventare il luogo del possibile.
Per questo è stato naturale immaginare di portare Rosetta e le contraddizioni del concetto di intellettuale, il suo migrare verso l’idea dell’influencer tra i Viventi, all’interno delle giornate di Bookpride. Con noi ragioneranno: Giulia Blasi, Maria Grazia Giannichedda, Daniele Giglioli, Paolo Nori e Francesco Pecoraro, domenica 25 marzo alle ore 19.
cheFare anticipa parte delle questioni con un incontro il giorno 23, alle ore 19, con Giorgio Falco e Giuseppe Genna, su “La vita dei nervi”.
Direi che è inevitabile partire dai “Viventi”: chi sono? Come li hai scelti?
Quando la scorsa estate a fine luglio c’è stato il primo contatto con Gino Jacobelli, sapevo di Bookpride, avevo seguito le loro attività. Ma dopo che abbiamo parlato la prima volta sono andato a leggere tutto quello che era disponibile e sono arrivato al Manifesto di Odei (Osservatorio degli editori indipendenti) che è il soggetto promotore di Bookpride.
Leggendo questo manifesto -che è un testo tecnico- ad un certo punto mi sono imbattuto questa espressione che mi ha colpito, perché il passaggio si riferiva al compito di tutela che si dà Odei nei confronti “dei viventi del comparto editoriale”. Poi c’era un punto fermo e poi “Tutti i viventi”, punto fermo e il discorso proseguiva.
Questa frase mi era sembrata un affioramento quasi letterario all’interno di un testo che manteneva il registro tipico di un testo tecnico. Quindi me lo ero annotato, mi colpiva e mi piaceva per il senso di totalità e di indefinitezza che ha contemporaneamente.
E quando qualche tempo dopo si è iniziato a ragionare sul programma io ho proposto come tema Tutti i viventi, rendendomi conto che era necessario a quel punto contestualizzarlo.
Tutti i viventi rimanda ad una nozione oggettiva che è quella della biologia, quindi tutti coloro i quali sono iscritti all’interno di un ciclo vitale che prevede che si nasca ,che ci si nutra, e ci si sviluppi però in un contesto editoriale che in buona parte è anche un contesto letterario, non solo letterario, ma anche letterario, i viventi sono tutti coloro ai quali l’immaginazione è disponibile a conferire una capacità d’azione, un livello d’esistenza che in sé non possederebbero, ed è qualcosa che prima ancora che da lettori di letteratura conosciamo da bambini giocando quando animiamo ( e rianimiamo) oggetti che in nessun modo la biologia considererebbe viventi, ma l’immaginazione narrativa sì.
Quindi è come se Tutti i viventi fossero allo stesso tempo quelli che sono considerabili tali da un criterio scientifico e oggettivo, ma allo stesso tempo anche tutti quelli che i viventi biologici sono in grado di trasformare in vivente attraverso l’immaginazione.
Quindi tende a infinito questa definizione?
Tende talmente all’infinito che è stato necessario individuare al suo interno dei percorsi, esplorando e individuando delle caratteristiche o delle peculiarità (o meglio delle possibilità di lettura) di tutti i viventi. C’è perciò il percorso strettamente legato al letterario (ed è un sotto tema rappresentatissimo nel programma) come Parole viventi, l’immaginazione del futuro prossimo – che poi è spesso constatazione del presente – quindi Futuro presente, un ragionamento sui diritti e sull’inclusione raccolto nella sezione Nessuno escluso, quello che accade ai viventi nel momento in cui i loro corpi sono attraversati dal tempo e quindi Corpi nel tempo, e così a proseguire.
Questi sotto-temi ci sono serviti nei mesi scorsi per dialogare con le case editrici proponendoli come dei contenitori nei quali provare a collocare le proprie proposte per arrivare a un programma il più possibile coerente al suo interno.
Quindi non un sistema puntiforme, che è la norma – contro la quale in sé non ho nulla perché il brusio e il rumore di fondo hanno qualcosa di profondamente affascinante – però l’idea che una manifestazione letteraria che pure non è un festival, ma una fiera è giusto che abbia ancora l’ambizione di dare forma ad un disegno e provare a condividerlo per qualche giorno, sapendo che questo disegno affiora dal rumore di fondo e nel rumore di fondo verrà ri-inghiottito. Però anche quando quel disegno sarà sparito, in forma di ricordo, di presentimento, quasi di filigrana sarà diventato esperienza di chi lo ha conosciuto.
Se noi prendiamo questa tassonomia dei viventi che avete proposto, come si sono collocati gli editori? Cosa emerge come questione primaria dei viventi?
Ragionare a partire da questo tema ci ha messo nelle condizioni di portare l’attenzione su qualcosa che probabilmente sarebbe diventato centrale anche con un altro tema per nostre inclinazioni, mie e del gruppo di lavoro, vale a dire un’attenzione nei confronti delle vulnerabilità a livello individuale psichico, sociale politico. Questa curiosità da parte nostra di ragionare in questa direzione ha incontrato le proposte delle case editrici.
Ora non so se si può assumere come lineamento, però in effetti quello che abbiamo constatato è che una buona parte della proposta delle case editrici che si sono iscritte a Bookpride è come se interpretasse il tempo presente andando in questa direzione raccontando, descrivendo la vulnerabilità.
E quindi descrivendola in tanti modi, a tanti livelli diversi, parla anche di diritti. Si passa da tutto quello che ha che fare con il genere, l’habeas corpus, al diritto ad esistere in ogni spazio, in un a prospettiva che insieme è prepolitica e creaturale, che secondo me in realtà è profondamente politica che è quella che se hai diritto di stare in ogni luogo è per il fatto che si esiste. Quindi c’è stato una specie di convergere della nostra curiosità nei confronti del tema e delle proposte che sono arrivate dalle case editrici
È interessante l’urgenza della domanda dei diritti e dello spazio dei diritti e il paradosso tra il diritto, spesso interpretato come qualcosa di posto, di statico e i viventi.
I tavoli per esempio del progetto Nodi che è quello attraverso cui si esprime la collaborazione tra Bookpride e il Salone del libro di Torino sono tavoli sull’editoria indipendente, sulla parità di genere, sul fenomeno migrante (soprattutto quando parlo di parità di genere e di fenomeno migrante sono espressioni che utilizzo con difficoltà perché come ben sai c’è un problema anche linguistico di definizione; però diciamo che adesso per approssimazione usiamo queste espressioni sapendo che poi partiamo dai percorsi per fare in modo che la lingua sia più schietta ed espressiva).
Sono quindi tutti tavoli che articolandosi nell’arco di un anno hanno come obiettivo quello di arrivare a definire dei documenti che possano venire presentati in sedi politiche. E a me affascina e non si tratta di una fascinazione astratta, ma è qualcosa che desidero che si concretizzi, che il ragionamento condiviso per un anno da figure che in gran parte provengono dal contesto letterario, riesca a condurre a qualcosa che a che fare con il diritto nel senso giuridico del termine.
Perché per quanto per me il letterario è il luogo, essendo il più duttile, il più plastico, il più naturalmente ambiguo e quello nel quale puoi ragionare sui diritti nella maniera più umana, però poi serve che per regolare i rapporti tra le persone ci sia una nozione, una definizione di diritto in ambito giuridico. Che si possa arrivare a quella attraverso il contributo di tecnici, ma anche attraverso il contributo di chi racconta è il senso del progetto Nodi.
Ho due domande: la prima è se secondo te questa virata verso le vulnerabilità sia o possa essere una conseguenza del fatto che si tratti di una fiera di editori indipendenti: la seconda, ossia il rapporto tra il letterario e il politico si tratti di una naturale destinazione, o il riempimento di uno spazio che è rimasto vuoto. In altre parole, forse qualche anno fa le riflessioni sui diritti non sarebbero state collocate solamente nei dibattiti letterari, ma soprattutto in quelli politici. Mentre oggi cosa accade?
Parto dalla seconda domanda, mi ricordo che qualche anno fa che proprio Francesco Pecoraro aveva, non ricordo dove, fatto una considerazione che mi aveva colpito. Erano gli anni nei quali il berlusconismo coincideva con Berlusconi al governo. Ora lo dico approssimando, quindi probabilmente togliendo qualcosa rispetto al discorso di Pecoraro, ma Francesco diceva che era la letteratura è il luogo dove davvero Berlusconi poteva essere processato, anche in modi diversi da quelli di un tribunale, che oggi materialmente gli impedisce la candidabilità e questo mi era sembrato molto intelligente e giusto.
Mi viene da pensare che il processo più nitido più efficace al berlusconismo sia un libro come La battuta perfetta di Carlo D’Amicis un romanzo che è uscito un po’ di anni fa per Minimum Fax che è un fatto letterario in cui l’ambiguità del berlusconismo veniva affrontata non come spesso accade in senso giuridico con distinzioni un po’ rigide e nette, ma attraverso la letteratura.
E quindi avevi una scena finale in quel romanzo, in cui venivi spinto ad un senso perfino di tenerezza nei confronti della figura di Berlusconi, proprio questo sperimentare da lettori questo stato d’animo era significativo nello stesso modo in cui leggi di Max Aue ne Le benevole di Littell e devi ricordarti che dovresti odiare quella figura, ma il personaggio ha caratteristiche tali per cui tu questo burocrate della distruzione lo incontri, lo attraversi, reclutando tutta quell’ambiguità che è secondo me il patrimonio del letterario.
Rispetto al nesso tra vulnerabilità e indipendenza, bisognerebbe secondo me allargare leggermente il discorso su quello che è normalmente il racconto del libro e dell’editoria anche delle fiere. Le fiere vengono fatte coincidere con un senso di festa, e da parte mia non c’è nulla contro il senso della festa, però è anche vero che nell’esperienza di ogni essere umano la festosità, un certo tipo di euforia e di attivazione esistono, ma esistono insieme a tanti altri stati d’animo.
Costringere la percezione del libro ad avere a che fare solo con un momento formativo, edificante, ridurre la diffusione solo con la festa è fare un torto alla complessità di quell’oggetto e di quello che contiene. É semplificare il lavoro editoriale che ad ogni livello, ma soprattutto in quello indipendente, ha a che fare con la determinazione ma anche con la frustrazione, ha a che fare con l’orgoglio di voler interpretare il mondo attraverso un catalogo, attraverso la qualità di cura che si riesce a dedicare ai propri libri, ma ha anche a che fare con la vulnerabilità determinata dall’essere un soggetto indipendente; quindi, nella maggior parte dei casi fluttuante, che corre non dico ogni giorno, ma ogni anno dei rischi.
Quindi a me piacerebbe che in generale, nel discorso sul libro che riguarda anche l’editoria, le quote di disorientamento e di sofferenze invece di venire censurate, spinte fuori dall’orizzonte del discorso, venissero assunte, non vittimisticamente, (non è quello l’obiettivo, non è quello il paradigma), ma con più chiarezza possibile, sapendo che un editore indipendente continua a muoversi in una direzione e muoversi in quella direzione significa esporsi continuamente.
Ricevere una proposta di acquisizione o anche di partecipazione -nel senso finanziario del termine- da qualcun altro (editore o meno), io mai mi permetterei di giudicare l’editore indipendente che dovesse decidere di accettare quella proposta, perché la vita dei nervi è delicata ed è la nostra vita e ad un certo punto possono entrare la stanchezza e il bisogno di volersi un po’ proteggere. Quindi sì la vulnerabilità e l’indipendenza sono due cose che esistono certamente in relazione.
Il libro, come tu lo racconti, assomiglia sempre di più ad un fatto sociale e non ad un oggetto, un prodotto. Attraverso il taglio editoriale emergono tutte le persone che hanno collaborato a quel prodotto, mentre con la lettura quella dimensione si perde, e rimane solo il rapporto tra il lettore e l’immaginazione dello scrittore nella pagina. Mentre qui, si restituisce una dimensione collettiva, di gruppo del lavoro editoriale. Seguendo questa traiettoria, cosa significano la cura e la curatela? Che peso hanno?
La cura è parte – non è un gioco di parole essendo una parola contenuta all’interno dell’altra, quello che sto per dire – è parte di una cultura editoriale. Nel senso che ci sono la L e la T in mezzo ma all’inizio e alla fine ci sono la C la U la R la A.
Quando leggiamo un libro ed è un’esperienza che rimane meravigliosamente individuale, noi assorbiamo la cultura editoriale dalla quale proviene quel libro, ma la cosa interessante è che quella cultura editoriale è come la luce nella maggior parte della nostra esperienza sensoriale, nel senso che noi facciamo esperienza delle cose perché le vediamo, ma le vediamo attraverso una condizione che non individuiamo mai come oggetto perché è sempre mezzo. Ed è talmente strutturale che non la prendiamo in considerazione e noi non ci soffermiamo (se non accidentalmente) sul fatto che c’è la luce e che stiamo vedendo qualcosa attraverso la luce.
La cultura che determina il libro che abbiamo davanti funziona allo stesso modo: sparisce durante la lettura però è allo stesso tempo l’elemento fondamentale affinché quella lettura avvenga. Passa per la qualità della carta, per la grammatura della carta che abbiamo tra le dita, per il tipo di giustezza – quindi di layout – che l’editore ha scelto per la sua pagina, per il contrasto tra il bianco della pagina e il nero dell’inchiostro -e quindi come è stato calibrato questo contrasto.
E questi sono ancora livelli sensoriali, noi recepiamo senza accorgercene la qualità di un editing, la qualità di una traduzione, la revisione di una traduzione. E poi ovviamente, in un certo senso prima di tutto, la qualità di chi quel testo l’ha scritto. E chi quel testo l’ha scritto è stato ad un certo punto scelto, accolto da un editore. Quindi noi abbiamo di continuo a che fare con una libreria, nella nostra libreria, abbiamo a che fare con una cura e cultura editoriale.
Questo è un reticolo come accennavi, è un intrecciarsi di competenze di relazioni di dialoghi che avvengono. Per esempio dentro Bookpride mi interessa constatare un punto: se si scorre l’elenco degli espositori ci si accorge di una notevole eterogeneità. Ci sono editori che hanno un coté politico molto spiccato, altri che lavorano sull’umorismo o sulla letteratura dell’infanzia. La costante è la cultura editoriale, cioè sono tutti editori. Il che non significa la stessa qualità, lo stesso catalogo, fanno libri diversi fra di loro.
A me colpisce un fenomeno che mi sembra in atto in questo momento che riguarda le fiere e in generale il contesto culturale che è quello di una riduzione progressiva della cultura editoriale, che viene poco a poco ridimensionata all’interno di un luogo che viene intitolato all’editoria; perché quando il 50% o anche il 40% degli espositori di una fiera non sono più editori – sono soggetti certamente degnissimi, va benissimo che concorrano per la sostenibilità economica di una fiera quei pezzi di plateatico affittati alla Regione x o alla polizia di stato, un modo per sostenersi – però poi dall’altro lato del bancone nello stand non c’è qualcuno che sa che cos’è un libro, come si arriva a un libro: non ha più le competenze legate alla cultura editoriale che nascono dalla cultura editoriale e questo è uno dei fatti che mi colpisce. In questo senso constato che dentro Bookpride continua ad esserci una cultura editoriale eterogenea ma pienamente rappresentata, sono tutti editori.
In che modo le trasformazioni tecnologiche, il passaggio agli ebook, hanno avuto un impatto sull’universo che descrivi?
Questo è un punto sul quale rispondo a seconda delle impressioni più che su un’esperienza precisa o radicata. Mi sembra che l’impatto non sia stato clamoroso come magari ci si era immaginati qualche anno fa. C’è stato un periodo in cui un classico incontro alle fiere o nei festival era sul futuro del libro, che fine farà il libro, “il libro tra carta e digitale”, l’ebook come una specie di spettro che incombeva sul libro di carta.
Le cose non sono andate in quella maniera ed è probabile che per quelle che sono le generazioni che tengono in piedi la parte notevole dell’editoria italiana il consumo continuerà attraverso la carta. Poi ci sono tanti lettori forti che leggono attraverso kindle o e-reader. A me piacciono molto le mediazioni intelligenti, e non ho nei confronti la disintermediazione un apprezzamento in sé, la disintermediazione diventa un valore se la mediazione che elimina era effettivamente un problema e un limite, ma la disintermediazione che fa fuori una tipografia non è una disintermediazione che mi sta a cuore o che considero un valore.
Ora io non ho idea di cosa accadrà nel 2050 cosa si leggerà o come si leggerà. Tendo a pensare che il libro non sarà più il punto di riferimento che è stato per tanto tempo, ed è una cosa che non mi sento di accogliere, di considerare ne negativamente ne positivamente, ci saranno altre forme di conoscenza, avverranno in un’altra maniera, uno come Raffaele Simone ci ragiona da un po’ di tempo ed è passatista pretendere che ci sarà un peggioramento insolubile, e io sarò talmente vecchio se ci sarà nel 2050 da non rendermene nemmeno conto di cosa starà accadendo. Certo così come c’è il dispiacere di non leggere un libro bellissimo che verrà scritto nel 2060, perché senz’altro continuerà ad esserci un libro bellissimo nel 2060 che verrà scritto, o verrà girato un film bellissimo, però per ovvie ragioni biologiche a proposito di viventi non lo saprò, mi dispiace non sapere cosa accadrà.
Se ci spostiamo dal libro agli scrittori, e proviamo a ragionare su di loro e sulla categoria di “intellettuale”, cosa significa per te questo concetto oggi?
C’è una frase di Gadda che se non sbaglio è nella Meditazione milanese che andando a memoria recita “Occorre prestare attenzione a tutta la realtà sensibile per operare buone sintesi”. C’è stato un lungo periodo, durante il quale la realtà sensibile osservata era probabilmente più limitata più ristretta rispetto a quella che viene presa in considerazione adesso.
In Italia c’è stato un momento di passaggio, che probabilmente coincide con il lavoro di Pasolini che fa partire analisi della contemporaneità dalla foggia dei capelli o dalla scomparsa delle lucciole; non oziosamente, non per una sua subalternità nei confronti di pezzi di cultura pop che poco a poco diventavano sempre più significativi, ma semplicemente perché si accorgeva che la realtà sensibile era anche quella. Non potevi continuare ad usare come percorso solo i libri, soltanto un concatenarsi, una specie di telescopio composto per ogni anello da libri in successione e da analisi, bisognava andare a guardare anche elementi minuti che fin lì per tanti motivi erano stati trascurati.
Fenomeni come il camp negli Stati Uniti è determinato da un bisogno analogo, non c’è più nulla da un certo momento in poi che sono probabilmente gli anni ’60 in Occidente che è meno rilevante tanto meno che è insignificante. Questo alcune volte può condurre a una contemplazione feticistica di quello che è sempre per riprendere una distinzione della sociologia che è stato indicato “cultura bassa”, quindi poi essere affascinato fissarsi su un punto, e non andare al di là di quello.
I primi momenti di attenzione fine anni ’80 inizio anni ’90 nei confronti del trash era un’attenzione che non riusciva andare oltre il recupero feticistico della serie B o della serie Z a livello soprattutto cinematografico. Con alcune eccezioni: Giuseppe Salsa, Tommao Labranca che sapevano “condurre” quegli spunti fino alle estreme conseguenze, cioè vedevano il tragico. Non stavano lì all’Anima mia di Fazio-Baglioni a repertorizzare, compiacendosi per ragioni anche anagrafiche del proprio passato; avevano la capacità di individuare un connotato tragico all’interno di ciò che altri avrebbero considerato pura e semplice stupidità e nient’altro che quello.
Oggi per me, chi ragiona sulle cose è qualcuno che fa attenzione a tutto, o per lo meno è disponibile a prendere in considerazione tutto quanto, ma non ha come obiettivo prioritario contemplare feticisticamente un oggetto di cultura pop per compiacersene insieme ad un gruppo di amici della propria sagacia, della propria intelligenza che ha saputo vedere in quell’elemento qualcosa che altri non hanno saputo vedere prima, ma porta avanti il discorso.
Oggi io credo che ci sia una quantità impressionante di intelligenze che si accontenta di essere brillante e che quindi lucida come si fa con l’argenteria. Quando l’intelligenza più lucida – penso al pezzo di Christian Raimo sulla lucidità, dove giustamente la ridimensiona a proposito di qualcuno che ha la capacità di ragionare sulle cose – quando l’intelligenza a forza di sfregare arriva a guardarsi, secondo me ciò che si ritrova davanti non è motivo di compiacimento, di condivisione, di soddisfazione: è qualcosa di meravigliosamente doloroso o di dolorosamente meraviglioso.
C’è qualcosa sulla superficie che hai sfregato con la tua intelligenza e finalmente ti vedi lì, rimani scioccato dalla tua stessa esistenza. E in questo senso ci sono in questo momento una serie di persone che hanno la capacità di pensare: due di questi Giorgio Falco e Giuseppe Genna interverranno fra l’altro proprio su questo, sull’imbarazzo, sulla vergogna dell’età adulta di chi ha 50 anni.
Però se rimaniamo su questa metafora del “lucidare fino a vedersi”, mi colpisce molto perché tu di fatto usi il mondo per capire te stesso, e usi il mondo per trovare il tuo riverbero. Al di là delle connotazioni narcisistiche, guardare i viventi o stare i viventi significa invece usare te per capire gli altri, ossia scomparendo nel mondo. E sono due modi diversi per “stare”, e opposti, quindi quale somiglia di più all’idea di scrittore pensante a cui ti riferisci?
Da un lato tendo a pensare che l’impulso è quello sempre a guardarsi, solo che questo è stato da un po’ di tempo a questa parte censurato, condannato secondo il criterio dell’ombelicalità, dell’autoreferenzialità. Questo secondo me è sbagliato. Perché l’ombelicalità è quando ci si ferma al livello intermedio a cui facevo riferimento prima, quando hai l’intelligenza brillante che ti serve per creare condivisione.
Quando invece si va ancora oltre probabilmente il margine di condivisione si riduce e continui a fissarti hai a che fare con quello che è l’esito naturale di tutto questo che è una delusione che secondo me non è un’anomalia, l’inconveniente che subentra perché le cose potevano andare in un altro modo, ma perché non può che succedere quello, non può che rompersi il gioco, non può che frantumarsi un certo tipo di illusione.
Quindi uno potrebbe utilizzare come immagine quella della lente ustoria che, fissa, illumina talmente da arrivare a bruciare. Per me c’è un effetto secondario delle intelligenze più spietate che è quella di ridurre per un momento il senso di solitudine di chi leggendo quello che le intelligenze più spietate scrivono sperimenta. Però questo è un effetto secondario, l’effetto primario è bruciare, è consumare quella cosa che stavi studiando
A me interessa molto quello che accade nei legami, nelle relazioni tra le persone, però poi quello che poi maggiormente mi sta a cuore è cosa ognuno fa della propria intelligenza all’interno del proprio organismo, della propria esistenza. è anche il motivo per il quale non riesco ad avere una relazione semplice con il racconto del libro come strumento che ti irrobustisce, che ti edifica, che “ti serve”, nel senso più strumentale del termine.
Credo che ogni lettore che ha inteso la lettura in un certo modo si sia reso conto di leggere e di continuare a leggere non intendendo il libro come uno strumento di adattamento a un ecosistema, ma esattamente per la ragione opposta. Il libro non fa crescere le ragioni di soddisfazione e di godimento; è un moltiplicatore di disagio ed è qualcosa che prova a metterti a disposizione dei frammenti di senso transitori labili per comprendere questo disagio.
Leggi per non combaciare con i tempi, non per collimare. Hai a che fare con la letteratura perché vuoi che i conti non tornino, non pensando al letterario come un kit come alle istruzioni per l’uso dei propri tempi, ed il motivo per il quale mi è incomprensibile quella retorica secondo cui ci si avvicina al non lettore come se avesse un problema, il non lettore non ha nessun problema, il non lettore ha possibilità di trarre soddisfazione, si dirà a livello minimo, ma chi siamo per giudicare quel livello minimo? Il lettore ha la possibilità di trarre un certa quantità di soddisfazione dalle cose che gli accadono.
La lettura come kit del pronto soccorso che deve medicare qualcuno che non sa di essersi tagliato è un’assurdità. Leggi per tagliarti, non per metterti cerotti. Quindi uno dovrebbe più schiettamente chiarire che dentro quel kit non ci sono i cerotti e tutto quello che serve a suturare e a cicatrizzare: c’è quello che serve a tagliare.
E invece, perché si scrive?
È un altra esperienza di conoscenza che non è identica in nessun modo alla lettura, ma ha certamente delle relazioni con la lettura. Da un lato vuoi moltiplicare il disagio ma vuoi avere a che fare con la molteplicità. è come il Carmelo Bene di uno dei suoi Amleto, che mescolando Laforgue, Shakespeare, Gozzano dice: “Sono troppo numeroso per dire sì o no”. Si è troppo numerosi e la scrittura è un modo per negoziare con questa molteplicità, probabilmente poi perché si ha una curiosità residuale per stare all’interno della durata, perché scrivi se sei disposto ad accordarti della concentrazione e la concentrazione è attenzione dentro la durata. E poi in effetti è quello che chiedi a chi legge di accordarti lo stesso tipo e lo stesso tempo di concentrazione.
É una dimensione di solitudine: un’espressione molto bella di Andrea Carbone dice che scrivere è che un certo tipo di riscontro a che fare col mettere le solitudini in piazza; accorgerti che c’è una solitudine affine alla tua. Questo però non risolve la solitudine, nello stesso modo in cui scrivendo di qualcuno che è andato via non lo riporti indietro. Il letterario non mette a posto nulla: su di un determinato piano ti dà delle diottrie e nello stesso tempo, da un punto di vista strettamente ottico, te le consuma.
Durante Bookpride, cheFare è presenta anche con Bertram Niessen venerdì alle 23 alle 10.00 (qui l’appuntamento) e con Valeria Verdolini insieme a Giorgio Falco e Giuseppe Genna sempre venerdì 23 alle 19.00 (qui l’appuntamento).
Immagine di copertina: ph. Aziz Acharki da Unsplash