La pandemia di COVID-19 interroga fortemente la mobilità delle persone, sia in merito ai meccanismi di diffusione che, di conseguenza, alle misure di contenimento. L’ipermobilità esasperata che caratterizza la contemporaneità – il laissez faire laissez passer – ha favorito innanzitutto la trasmissione del virus dal luogo di origine (la città di Wuhan in Cina) verso altre aree con modalità spazialmente non gerarchiche, a “salto di rana” (leapfrog), insensibili all’attrito della distanza e ai confini; un’ennesima e drammatica conferma di quella che Pierre Veltz definiva nel 1996 la “fine del mondo ben ordinato per la distanza”.
A livello più locale la diffusione sembra invece recuperare un pattern a “macchia d’olio”, più facilmente leggibile e in qualche modo controllabile. La trasmissione del contagio avviene infatti in funzione della prossimità (anche nell’epoca della globalizzazione è quanto mai valida quella che Tobler ha definito la “prima legge della geografia”: tutto è correlato con tutto ma le cose più vicine sono più correlate di quelle lontane), ma anche lungo specifiche direttrici che corrispondono ai flussi di mobilità.
In termini di misure di contenimento, in mancanza di vaccini o di altri rimedi specifici, la strategia per gestire l’emergenza è stata quella del distanziamento fisico e del blocco della mobilità attraverso il lockdown che si sostanzia nel confinamento, nella chiusura degli spazi pubblici e nel divieto degli spostamenti non necessari.
Questa strategia agisce quindi in ogni caso impedendo la mobilità, sia che si tratti di ridurre gli spostamenti, sia che l’obiettivo sia ridurre la densità vietando gli “assembramenti”. La relazione è semplice: maggiore è la distanza tra gli individui, minore è il rischio non già di essere contagiati – diversi studi mostrano infatti che la gran parte dei contagi sono avvenuti all’interno di luoghi quali le RSA o le case di riposo, in famiglia, negli ospedali, sul luogo di lavoro – ma che la catena del contagio assuma caratteri pandemici.
Come vedremo, il lockdown ha di conseguenza ridotto la mobilità, ma ha allo stesso tempo prodotto esso stesso mobilità. Ha intensificato in primo luogo le relazioni di prossimità: una sorta di ritorno al micro-luogo – #iorestoacasa, o comunque non lontano da casa. Ma ha anche attivato spostamenti su più lunghe distanze.
In ogni caso i dati sulla mobilità sono divenuti cruciali, sia per comprendere le dinamiche del contagio, sia per gestire l’emergenza. Tuttavia fotografare la mobilità è, in qualche modo, una contraddizione in termini. È difficile rappresentare il movimento senza ricadere in una sorta di “trappola territoriale” che riconduce la mobilità alla fissità di specifici luoghi di origine e di destinazione. Più semplicemente, monitorare un fenomeno nuovo e in divenire non è semplice attraverso le misurazioni tradizionali e la statistica ufficiale, perché richiede tempo, oltre che l’individuazione di metodi di raccolta di dati adeguati.
La missione diviene impossibile se l’obiettivo è intercettare gli spostamenti in tempo reale. In alcuni paesi il contenimento è stato facilitato ricorrendo all’utilizzo dei dati provenienti dai cellulari (Corea, Singapore, ecc.); un metodo problematico in quanto difficilmente compatibile con la tutela della privacy. Un’altra fonte utile e rilevante, quanto meno ai fini del monitoraggio, sono i dati provenienti da alcune piattaforme digitali quali i social network e le app di geolocalizzazione. Alcune delle piattaforme più diffuse, quali Facebook, Apple, Google, di fronte all’emergenza hanno intrapreso una politica di condivisione e di apertura dei loro dati.
Google ad esempio ha reso temporaneamente disponibili diversi dataset sulla mobilità, con l’obiettivo di “provide insights into what has changed in response to policies aimed at combating COVID-19.” I dati, aggregati e anonimizzati, provenienti dalla “cronologia delle posizioni” degli utenti Google, mostrano che in Italia si sono ridotti del 60% gli spostamenti verso i luoghi di lavoro, del 76% presso i nodi del trasporto pubblico, dell’80% quelli per shopping e ricreativi. Abbiamo quasi dimezzato gli spostamenti presso negozi di alimentari e farmacie, nonostante questi fossero aperti; assumendo consumi invariati, vuol dire che ci siamo andati molto meno spesso e/o abbiamo aumentato le consegne a domicilio.
Nonostante il lockdown in Italia sia stato tra i più lunghi e duri, le variazioni sono molto simili e anzi lievemente inferiori a quelle di paesi come la Spagna e la Francia, e enormemente superiori non solo a, per esempio, la Svezia, dove il lockdown non c’è stato, ma anche alla Germania. L’Italia spicca invece per il tempo trascorso a casa. Se l’individuo mediano prima della crisi trascorreva fuori casa 8 ore al giorno, durante il lockdown è uscito circa tre ore e mezza.
In modo analogo, Facebook ha offerto al mondo della ricerca e alle associazioni no-profit alcuni dataset longitudinali in formato open data, a scale differenti, attraverso il progetto Facebook DataforGood che si pone come obiettivo la condivisione di “privacy-preserving data products to help solve some of the world’s biggest problems” e, in questo caso, “supportare la risposta al COVID-19”.
I “big data” di questo tipo costituiscono una fonte preziosa di informazione perché sono tempestivi (spesso sollecitati da eventi rilevanti, dallo sport alla musica, alla politica e alle catastrofi), riferibili ad un luogo specifico (nel caso siano georefenziati) e possono essere raccolti a scale granulari che il dato ufficiale generalmente non coglie. Facebook è una dei social più utilizzati nel mondo. In Italia conta ben 32 milioni di utenti. L’utilizzo della piattaforma ha registrato in Italia, nel mese di marzo, incrementi notevoli: + 70% del tempo trascorso sulla piattaforma, +50% dei messaggi e addirittura +1000% delle chiamate di gruppo.
Cosa ci dicono questi dati in merito alla mobilità prima e durante il lockdown? Non ci interessa qui discutere cause, correlazioni, canali del contagio, quanto ragionare sugli effetti spaziali del lockdown: cosa succede sul territorio quando si bloccano attività e spostamenti? Quali sono state le aree maggiormente interessate?
I dati Facebook riguardano, tra le altre cose, la popolazione insistente ovvero presente in un dato momento in un particolare luogo, e consentono il confronto tra periodo di lockdown e un analogo periodo precedente tramite l’aggregazione dei dati sugli utenti che hanno abilitato la funzione di geolocalizzazione, e tramite l’individuazione di scostamenti statisticamente significativi tra i due periodi.
I risultati per l’Italia, a livello comunale, sono rappresentati nella seguente mappa, che mostra le aree che all’indomani del lockdown hanno rilevato decrementi (in colori dal rosso all’arancio) e incrementi (dal celeste al blu) di popolazione insistente rispetto al periodo pre-crisi.
Le conseguenze del lockdown permettono di evidenziare, prima di tutto, quei luoghi dove la popolazione insistente si è fortemente ridotta: veri e propri “iper-luoghi” caratterizzati da rilevanti flussi di mobilità in entrata e una popolazione prevalentemente temporanea che, durante la pandemia, si sono trasformati improvvisamente in non-luoghi, città fantasma, vuoti urbani e territoriali.
Emergono in primo luogo le località turistiche e i luoghi caratterizzati dalla mono-coltura turistica. Si tratta innanzitutto – considerata la stagione – delle località sciistiche dove, a scala comunale, si registrano i decrementi più consistenti.
Citando solo alcuni casi notevoli, Pinzolo, Canazei, Corvara e Selva di Val Gardena perdono dal 77 al 80% della popolazione insistente; le intere provincie di Bolzano, Aosta, Sondrio e Trento tra il -12 e il -16%. In secondo luogo decrementi notevoli si registrano presso i nodi di trasporto. A scala comunale emergono soprattutto gli aeroporti – es. Malpensa -89%, Orio al Serio -44%, Torino-Caselle -16%, Aeroporto di Fiumicino -13% – vere e proprie “aerocittà” (aeroville). In terzo luogo emergono le aree industriali (es. Pozzilli -34%, Atessa -27%, Tito -26%, Montone -24%, Melfi -16%, Lovere e Termoli -13%).
Inoltre emergono i centri e le zone commerciali, spesso focolai dell’epidemia, come hanno evidenziato alcuni recenti studi in Cina.
Il lockdown ha desertificato outlet e shopping mall fino a incidere in maniera significativa sulla popolazione insistente dell’intero Comune, per esempio presso la Città Fiera di Martignacco -31%, il 5 Terre Outlet Village di Brugnato -14%.
Possiamo osservare infine riduzioni molto consistenti in termini assoluti nelle aree metropolitane che hanno visto sparire i city users (pendolari, studenti, turisti, uomini e donne di affari). Tra le grandi città si distinguono: Venezia e Firenze -14%, Milano -13%, Catania -12%, Cagliari -10%, Bari -9%, Bologna -9%, Roma -8%, Torino -6%. Anche altre città medie – in particolare quelle universitarie – seguono la stessa sorte, come ad esempio Lecce e Pisa -14%, Pavia -10%, L’Aquila -9%.
Anche oggi, durante la cosiddetta “fase due”, questi luoghi continuano ad essere semi-deserti. È qui che l’impatto economico della pandemia sarà più duro, perché quegli stessi elementi che in condizioni normali portano persone, ricchezza, opportunità, oggi diventano fattori di debolezza e mostrano la fragilità di modelli di sviluppo basati su un’eccessiva specializzazione e mono-funzionalità.
Gli elementi che in condizioni normali portano persone, ricchezza, opportunità, oggi diventano fattori di debolezza
Nei prossimi mesi gli spostamenti a corto raggio, a maggior ragione se per motivi di lavoro, riprenderanno. Altri spostamenti, per esempio per motivi di studio, in parte anche, sebbene la diffusione della didattica a distanza e l’intenzione di continuare anche il prossimo anno con modalità didattiche miste (in presenza e a distanza) ritarderà il ritorno della normalità e forse cambierà per sempre questa specifica geografia a favore delle università migliori e nell’ottica della concentrazione territoriale delle sedi – che oggi è invece sono molto disperse.
È possibile anche che forme di mobilità non strettamente necessarie – per esempio per motivi di shopping – si riducano, o si accorcino. Sul turismo gli effetti saranno più profondi e duraturi e le località più colpite sono alla disperata ricerca di soluzioni più o meno temporanee.
Molto interessante e forse più sorprendente è il caso delle località che, al contrario, hanno visto aumentare la popolazione presente, perché sede di seconde case o, molto più probabilmente e frequentemente, perché oggetto di “migrazioni di ritorno”. Si registrano per esempio gli incrementi consistenti delle isole Eolie (Lipari +40%) e dell’isola Elba (Marciana +28%), e di molti comuni costieri come Lignano Sabbiadoro +27%; sul litorale romano si notano Sperlonga e Santa Marinella (+10-11%); in Liguria Varazze (+17%) e Portovenere (+12,5%), in Veneto Eraclea, Cavallino, Caorle (+10-12%), in Campania alcuni comuni della penisola sorrentina (Massa Lubrense +16%) e del Cilento (+10%). Aumenti simili si registrano in diversi comuni lacuali, intorno al lago di Como (Grandola, Blevio, Carlazzo, Sala Comacina) e di Garda (Torri del Benaco, Manerba, Malcesine), che registrano aumenti dall’11 al 18%.
Le cronache di questi giorni sono piene di denunce di presunti ‘untori’ che calerebbero dal nord per infettare le nonnette meridionali. Dai dati, non sembra che tale movimento sia significativo. A parte qualche Comune qua e là, sono pochissime le province dove complessivamente la popolazione cresce, e non sono al Sud, ma vicino a grandi aree metropolitane, come Frosinone (+6%) e Monza/Brianza (+3%).
Particolarmente evidente è la dinamica centro-periferia: i comuni delle cinture metropolitane accolgono infatti flussi di ritorno di popolazione che per motivi di studio o lavoro dimora abitualmente nel centro principale. Anche qui, si tratta di comuni meno densamente abitati o di tipo collinare e rurale che possono essere percepiti come più sicuri e confortevoli per trascorrere il lockdown, oppure luoghi di residenza o di origine dove si torna per motivi più che comprensibili, nonostante fosse vietato, per esempio per stare vicini alle proprie famiglie.
Gli stessi dati permettono come detto analisi più granulari, a scala intra-urbana, per alcune grandi città, che confermano quanto detto: lo svuotamento delle zone produttive, aeroportuali, commerciali, oltre che degli assi e dei nodi normalmente interessati da un intenso traffico.
Si vede poi come le zone centrali di queste città – che sono turistiche ma anche più dense di attività economiche e mono-funzionali – registrano decrementi della popolazione insistente pari a quelli delle località sciistiche, a fronte degli incrementi che si registrano più in periferia, ovvero nei luoghi della residenzialità.
L’utilizzo di questa specifica tipologia di dati, footprint digitali per eccellenza, solleva poi almeno due questioni collegate, una di natura tecnica e l’altra politica. Tali dati presentano infatti notevoli vantaggi ma anche criticità già ampliamente dibattute in letteratura: qualità, affidabilità, rappresentatività, ‘veracità’, oltre al ben noto problema della privacy.
Possono costituire non tanto un’alternativa al dato ufficiale quanto uno strumento complementare di grande utilità per individuare rischi, monitorare fenomeni, rispondere con tempestività. E sono nostri dati – perché riguardano noi e perché ne siamo formalmente, individualmente, proprietari – ma sono gelosamente custoditi dalla piattaforme le quali, solo in virtù delle condizioni di emergenza, hanno deciso di condividerli.
Sarebbe auspicabile, anche in condizioni ‘normali’, una più stretta collaborazione tra coloro che detengono informazioni strategiche e il mondo della ricerca e delle istituzioni che necessitano di tali dati. È anche paradossale che mentre le piattaforme private raccolgono costantemente questi dati per finalità di lucro, la stessa cosa venga impedita a chi li utilizza per finalità di interesse pubblico e perfino a un’istituzione quale l’Istat, per ragioni di privacy.
Mentre i governi si arrabattano per la tracciatura dei contagi le piattaforme digitali sanno già tutto sui nostri spostamenti
Fa piacere constatare che le potenti piattaforme e i colossi digitali almeno in questo momento abbiano intrapreso una politica di apertura e condivisione dei loro dati. Speriamo continuino a farlo, anche per incrementare la fiducia dei propri utenti. C’è però anche l’opzione che vengano obbligati a farlo.
È infine curioso che mentre i governi di mezzo mondo, incluso quello italiano, si arrabattano per escogitare tecnologie per la tracciatura dei contagi e soluzioni per renderle compatibili con stringenti normative sulla privacy ed evitare scenari da grande fratello, le piattaforme digitali sappiano praticamente tutto sui nostri spostamenti, chi abbiamo incontrato, se abbiamo o meno rispettato le misure di distanziamento e di lockdown.
Emerge più in generale quanto le nostre vite siano costantemente sorvegliate, monitorate, influenzate dalle piattaforme digitali, e dipendono sempre di più – in questo periodo come mai prima – da loro. È un tema ampio e complesso rispetto al quale siamo, in termini di norme ma anche di discorso pubblico, all’anno zero. Smettiamo per lo meno di pensare che sia solo un problema di privacy.