In un presente che vede le discipline della conoscenza, dalla scienza, al pensiero sino alla tecnologia, cercare nuove parole o affilare l’ingegno nel coniare neologismi che definiscano i paradigmi del mutamento delle società e dei comportamenti umani, cancellare una parola può essere considerato un pensiero sterile, decisamente contro corrente. Ma oltre che coniare nuove parole, a volte per comprendere il mondo si deve eliminarne di vecchie: questo il destino che auspico per la parola periferia, che mai come in questo ultimo periodo, è finita per diventare una delle parole chiave della retorica politica, abusata dal pensiero più a destra come da quello della sinistra indipendente.
Del resto, che col sorgere del nuovo millennio, al termine “periferia” stesse accadendo qualcosa di anomalo, e stesse diventando sempre più inadeguato ed equivoco, è fotografato finanche nell’enciclopedia Treccani dove, già dal 2013, fra le voci del lessico del XXI secolo, se ne dava una definizione chiara, quanto problematica:
“La tradizionale nozione di p., legata da una parte alla collocazione fisica distante dal centro, dall’altra a condizioni di degrado ed emarginazione che spesso caratterizzano le aree di margine, si rivela oggi un concetto complesso e contradittorio, non più riconducibile a una definizione chiara ed univoca. Lo sprawl, la città diffusa o infinita, ovvero il dilatarsi territoriale del costruito, non solo residenziale ma anche dei luoghi di lavoro, di scambio commerciale e di svago, ha reso complesso qualsiasi tentativo di definizione e classificazione delle periferie. Non è più possibile individuare quegli elementi che caratterizzavano il modello urbano otto-novecentesco, rendendo riconoscibili le p.: una struttura urbana radiocentrica, in cui i valori fondiari decrescono a mano a mano che ci si allontana dal centro; la realizzazione di grandi programmi di edilizia economica e popolare; una chiara demarcazione tra ciò che è urbano e ciò che non lo è, tra costruito e territorio agricolo.[…]”
Al termine periferia insomma non corrisponde più ciò che era nato per definirla, non più luogo isolato risulta impossibile tracciarne una geografia, bensì, continua la Treccani:
“[…] Le aree ai margini della città si presentano oggi come tessuti variegati, generalmente privi di identità e di relazioni gerarchiche nell’organizzazione degli spazi, costituiti da frammenti di paesaggio agricolo, quartieri di villette monofamiliari, nuovi insediamenti terziari e residenziali in prossimità di infrastrutture (edge cities), aree degradate. Un concetto più articolato e flessibile di p. comprende, quindi, oggi infinite realtà di centralità e marginalità urbana, le cui caratteristiche sono sempre strettamente legate alle condizioni, alla storia e ai caratteri specifici della realtà urbane che le hanno prodotte e, quindi, difficilmente tipizzabili o riconducibili a modelli più o meno omogenei o a categorie interpretative comuni.”
Eppure, qui cominciano i paradossi: mai come oggi, il termine periferia risuona e si accredita: quasi diventando un luogo mitico e immaginario verso il quale organizzare il pellegrinaggio periodico della “politica”, un suo ritorno alle origini, con cui riguadagnare nuove stagioni di indulgenza, plenaria e perpetua.
Con l’approssimarsi delle “campagne elettorali”, dal primo ministro al candidato sindaco della più minuscola lista comunale, le carovane si rimettono in marcia, guardando alla periferia con rinnovato ardore, come al terreno sul quale agire con decisione per ricomporre le fasce neglette del corpo sociale. Negozi e appartamenti sparsi diventano così avamposti, accampamenti di comitati elettorali che annunciano la imminente stagione di ripristino di negoziazioni con il territorio.
Certo, così facendo la parola “periferia” conserva giusto il suo sinonimo di degrado e insicurezza, come se ciò che abitualmente identifica fosse l’origine di tutto il male delle città, dell’ingiustizia sociale e della discriminazione: e anzi come se delimiti il campo in cui recarsi per sconfiggere sul nascere le forme più violente del dissenso.
Vi è stata una stagione, non troppo lontana, nella quale molte parole ben più discriminanti sono scivolate via dal linguaggio comune, perché considerate scorrette: a nessuno oggi verrebbe più in mente di usare la parola negro o handicappato, se non per conservarne un valore d’uso insultante. Periferia no, è di fatto un insulto, una svalutazione, ma che si accetta di buon grado: fausto preludio a programmi di intervento, rispetto ai quali un poco di cinica autocommiserazione è anzi caldamente consigliata. Diventare periferia, alla fine, rende, “riqualifica” .
Ciò nonostante (o forse anche per questo) le città, e in particolar modo i sistemi urbani più complessi, dove vivono, o intorno ai quali si organizzano, la gran parte dei viventi, continuano a sfuggire da un racconto coerente e puntuale. Quanto più i nostri centri storici diventano teatro di vanità, tanto più si perde contatto e sensibilità verso ciò che gli sta intorno. Sintomo conclamato, questo, di una condizione culturale incapace di affermare i codici di interpretazione di ciò che è stata, nel bene e soprattutto nel male, la costruzione del paesaggio urbano della seconda metà del Novecento.
In mancanza di codici, vengono quindi meno gli strumenti, anche i più elementari per comprendere cosa si ha di fronte, così a pagarne le spese è proprio il linguaggio. Il dominio esteso delle nostre città tende per progressive semplificazioni ad essere percepito (e di conseguenza letto e raccontato) secondo il permanere antistorico di un’irreversibile logica duale centro/periferia che è ormai goffa e banale. Colpevole, infine, del radicarsi di una sostanziale perdita di identificabilità delle parti che – per differenza – compongono le città nel loro insieme.
Da oggi in poi non userò più la parola periferia, e vorrei venisse cancellata dai dizionari e dalle enciclopedie, non la pronuncerò più e in ogni modo ne sconsiglierò l’uso, perché, ormai prigioniera e strumento dei luoghi comuni del linguaggio corrente: banalizzata e svuotata del suo significato più autentico.
Di questa restituzione fossilizzata delle città, si giovano in primo luogo, le crescite incontrollate delle loro appendici, così generiche e inespressive, da risultare indistinte e intercambiabili.
In questo grave analfabetismo dei codici, amalgamiamo lo stratificarsi dei modelli insediativi, non distinguendo i valori, di quel poco che è stato fatto di buono dai frutti di ripetute stagioni di pianificazione degenere.
Il ritardo culturale e le complessità interpretative aumentano oltre misura se consideriamo che i violenti flussi delle più recenti migrazioni, attraversano le città condensandosi nei quartieri più poveri, anche in prossimità dei centri aulici, lì dove i valori di mercato sono più bassi e il tessuto edilizio più fragile e spugnoso.
Tutti fenomeni insediativi votati al disagio, ragione di smarrimento, instabilità e microconflitti che non favoriscono certo l’integrazione, e che finiscono per alimentare le forme diffuse di quel rancore all’origine di una demagogia dell’insicurezza.
Indicatori su cui – in assenza di analisi più mirate e scrupolose, di come le cose vanno via via mutando – si fonderà la convinzione che non sia possibile sfuggire alle impotenza interpretativa della complessità degli organismi urbani, e che, con le nostre contraddizioni schematiche, non si faccia neppure in tempo a identificare i componenti della sua mutevole sostanza sociale.
Nella povertà dei distinguo della periferia colonizzata politicamente, sopravvive nell’utilizzo del termine, una eco visibilmente fuori luogo. Bisogna quindi cancellare una parola per ri-fare spazio, obbligarci a guardare l’altrove privi di schematismi del linguaggio, spostare lo sguardo, osservare e camminare in prossimità delle cose, conoscerle sino alla natura del loro principio, abitarle per comprenderle.
Pratiche cui non a caso, sulla scia delle teorie e sperimentazioni degli esercizi di promenadologia di Lucius Burckhardt, animarono in Italia, a partire dai primi anni novanta le azioni di alcuni collettivi indipendenti (come città svelata e Stalker) che tentavano di ricondurre alla sua primitiva aurora, l’origine del rapporto dell’uomo con il territorio che lo circonda, la misura dei propri limiti, la comprensione dei caratteri del proprio ambiente di vita e di acquisire consapevolezza nello sguardo alle cose.
Sensibilità, sperimentazioni, nuove forme di analisi per la conoscenza dei fenomeni urbani contemporanei che ancora faticano a trovare riscontro in ambiente accademico. Percorsi di ricerche, di maturazione di competenze del tutto disattesi, ma che almeno tentavano di colmare quello scarto di visione delle politiche urbanistiche, che oggi appare in tutta la sua gravità ancor più incolmabile.
Esercizi di cui tutte le città avrebbero urgente bisogno per mettere a punto strumenti di riprogrammazione e verifica permanente, osservatori di infinita curiosità, animati dalla sensibilità di sguardo e dal confronto di nuove discipline, portatrici di saperi e universi interpretativi diversi.
Dimenticandosi di ogni modello precostituito di periferia, bisognerebbe attraversare le città per riconoscere le variabili di significato con le quali definirne il paesaggio, camminarle consapevolmente quale primo risultato estetico per dare un nome proprio a quel che oggi è caos e interpretarlo, compiendo un successivo e nobile passaggio di emancipazione nel dare luogo a ciascuna delle sue forme di abitare.