Lavoro e innovazione: Ri-Maflow, una fabbrica recuperata

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    L’innovazione è al lavoro, anche dove il lavoro sembrava finito. Lungo la strada che traccia la zona industriale di Trezzano sul Naviglio, hinterland milanese, a poca distanza dalla stazione ferroviaria, tra un capannone vuoto e un’attività produttiva o logistica in funzione, si può incontrare uno dei pochi esempi italiani di fabbrica recuperata, un’attività economica rimessa in funzione e gestita dai lavoratori dopo averla occupata.

    Ri-Maflow, nome scelto a rimarcare il taglio netto con l’azienda, la Maflow, che fino al 2012 produceva componenti per autovetture: dal 2013 un gruppo di operai occupa i capannoni lasciati dalla proprietà polacca, subentrata al gruppo italiano ‘Maflow spa’ messo in amministrazione controllata nel 2009, e inizia a gestire direttamente la fabbrica, o quel che ne resta. Privati di tutti i macchinari, i lavoratori devono inventarsi nuove attività economiche finalizzate a crearsi un reddito e condizioni di lavoro dignitose.

    Inizia così il percorso, tuttora in atto, di invenzione del presente e progettazione del futuro: non solo un piano industriale che preveda attività produttive sostenibili economicamente e organizzativamente nel medio-lungo periodo, ma anche attività immediatamente remunerative in grado di sostenere finanziariamente i lavoratori e il progetto stesso. Gli ammortizzatori sociali vanno via via esaurendosi per tutti gli ex operai Maflow, a cui si uniscono altri lavoratori in cerca di futuro.

    Le attività di custodia di beni, il mercatino dell’usato, gli sgomberi e i traslochi, un laboratorio di riparazione e riutilizzo di materiale elettrico ed elettronico, spazi artigianali, una sala prove musicale, un bar e una piccola mensa, una ciclo-officina, piccole produzioni agro-alimentari e un Gas (Fuorimercato) che puntano su prodotti di qualità e liberi da sfruttamento. Queste sono le attività in capo all’Associazione ‘Occupy Ri-Maflow’ che hanno fin qui permesso di resistere, garantendo un sostegno economico ai lavoratori, che però attraverso la cooperativa puntano a creare vere e proprie attività produttive in grado di dare loro salari dignitosi. Tra queste è appena partita la riparazione dei pallet per il trasporto merci, che consentirà ai primi lavoratori Ri-Maflow di tornare ad un’attività lavorativa a tuti gli effetti.

    In Argentina nasce un vero e proprio movimento cooperativo che unisce più di 300 aziende ormai consolidate

    Sempre che si arrivi ad un accordo con la proprietà dello spazio industriale, Unicredit Leasing, e l’amministrazione comunale di Trezzano, che consenta l’usufrutto gratuito o a prezzo simbolico per un primo periodo, in modo da lanciare le attività produttive e renderle sostenibili economicamente nel medio periodo. La questione della proprietà dei mezzi di produzione e delle strutture rappresenta in effetti uno dei problemi maggiori delle fabbriche recuperate, che puntano al riconoscimento legale dell’occupazione per poter operare a tutti gli effetti sul mercato, anche se creando spazi autonomi di distribuzione, e secondo le leggi, in particolare quelle a tutela dei lavoratori.

    È quanto accade nelle fabbriche recuperate sparse nel mondo ma concentrate in Sud America (Ruggeri A., 2014, Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow, un’esperienza concreta contro la crisi, Edizioni Alegre). Proprio dall’Argentina provengono modello e denominazione di fabbrica recuperata: già prima della grande crisi economica di inizio millennio partono le prime sperimentazioni di fabbriche gestite dai lavoratori e proprio nel pieno di questa crisi si moltiplicano le autogestioni, essendo sempre più difficile rimpiazzare l’imprenditore che fallisce o delocalizza e per un operaio trovare un altro posto di lavoro (Marchetti A. , 2013, Fabbriche aperte. L’esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, il Mulino).

    In Argentina nasce un vero e proprio movimento cooperativo che unisce più di 300 aziende ormai consolidate e che punta a diffondere conoscenze e esperienze verso altri lavoratori di fabbriche in via di chiusura e a trovare soluzioni giuridiche per la regolarizzazione della proprietà.

    L’Europa è stata solo toccata da questo modello economico-organizzativo ma con interessanti casi in Francia (Scop.Ti, vicino a Marsiglia), in Grecia (Vio.Me. a Salonnico), Turchia (Özgür Kazova a Istanbul), mentre il sud America è stato investito con molta più forza e rappresenta il fulcro del movimento: Brasile, Venezuela, Uruguay presentano numerosi casi di fabbriche recuperate.

    Nel nostro paese si contano pochi esempi: oltre a Ri-Maflow, Spazio Zero a Roma e la fattoria Mondeggi nella campagna fiorentina. Più frequenti i casi di workers buy-out, altro tipo di riappropriazione del processo produttivo, questa volta tramite l’acquisto dell’azienda da parte dei lavoratori uniti in cooperativa, che impegnano buone uscite e risparmi, sostenuti anche dalle federazioni cooperative nazionali che forniscono loro consulenza e finanziamenti.

    La distinzione tra fabbriche recuperate e workers buyout consiste nel modello di recupero dell’azienda, conflittuale solo per le fabbriche recuperate, e in quello di organizzazione e gestione del lavoro, democratico e collettivo nel primo caso (decide l’assemblea dei lavoratori), gerarchico nel secondo (decide il CdA) seppur sotto la stessa forma giuridica di cooperativa. Percorsi distinti, quindi, forse non contrapposti, entrambi di attivazione diretta dei lavoratori; certamente quello delle fabbriche recuperate è un fenomeno più radicale, non tanto per la questione della legalità formale, quanto per il modello economico e sociale proposto, aperto al quartiere e alla società, partecipativo, innovativo dei modelli di organizzazione del lavoro, dell’economia e del welfare.

    Le fabbriche recuperate mostrano uno stretto rapporto con il contesto urbano

    Esempi di controllo operaio si trovano abbondanti nella tradizione del movimento operaio ottocentesco e novecentesco (Ness I., Azzellini D. 2011, Ours to Master and to Own. Workers’ Council from the Commune to the Present; Chicago, Heymarket books), ma la fase storica contemporanea presenta un movimento operaio più debole e l’assenza di una direzione politica e sindacale delle autogestioni. In effetti l’avventura di Ri-Maflow non parte con lo scopo di occupare e gestire la fabbrica: di fronte alla delocalizzazione e alla mancanza di nuovi capitali, la ventina di donne e uomini (sugli 80 che avevano partecipato a presidi e proteste) si sono trovati senza prospettive, complice la prolungata crisi economica, e si sono progressivamente convinti di essere in grado di sperimentare una forma organizzativa e sociale che rompe le relazioni di subordinazione e di dipendenza dall’imprenditore. Ed è stato così per il movimento delle Fabricas Recuperadas argentine che semmai si è ispirato alle parole d’ordine dei Sem Terra ‘occupare, resistere, produrre’.

    Quella di Ri-Maflow e delle fabbriche recuperate rappresenta una sfida innovativa su più livelli. Contro luoghi comuni, regole e prassi organizzative, pervasive disuguaglianze di classe e di genere. La prima battaglia è contro il pregiudizio che chi lavora alle dipendenze non sia in grado di gestire tutti i processi lavorativi e di prendere decisioni commerciali, organizzative, amministrative. La sfida di questi lavoratori è di prendere in mano le funzioni dirigenziali, gestendole in modo collettivo: l’assemblea di gestione diventa il luogo decisionale sulle strategie e sull’organizzazione dell’attività. L’assunto è che una fabbrica abbia sempre bisogno di operai ma che possa funzionare senza padroni. Ma si tratta di una sfida complicata: non è facile cambiar ruolo, relazioni e mentalità, bisogna acquisire nuove competenze, rompere barriere psicologiche proprie e altrui.

    Il confinamento dell’operaio nel suo ruolo di subordinazione è pervasivo, nella testa dei lavoratori stessi, che faticano ad assumersi responsabilità di direzione, così come nella cultura sindacale e cooperativa, che, almeno in Italia, considera semplicemente irrealizzabile o controproducente il controllo operaio dei luoghi di lavoro. Infatti, nel nostro paese è stato scarso l’appoggio da parte dei sindacati ai processi di recupero autogestito – nel caso di Ri-Maflow solo un sindacato di base ha sostenuto l’iniziativa diretta dei lavoratori – mentre sindacati e movimento cooperativo promuovono, come detto, la strada a-conflittuale dell’acquisizione della proprietà con una forma di gestione formalmente più democratica ma pur sempre gerarchica.

    Le fabbriche recuperate mostrano uno stretto rapporto con il contesto urbano, con i quartieri popolari nei quali sono collocate e con associazioni, gruppi sindacali e politici, scuole e università; da qui il termine ‘fabbrica aperta’, che contrasta la chiusura dei cancelli e la segretezza dei processi produttivi tipici della proprietà privata.

    Come nell’esperienza argentina questo si traduce in servizi per la comunità, istruzione per ragazzi e università popolari, attività culturali e ricreative, collaborazione con università per reperire conoscenze e competenze tecniche, così per Ri-Maflow vuol dire collaborazioni con scuole, associazioni di quartiere e di volontariato, la costruzione di reti di iniziativa sociale per nuove forme di welfare mutualistico, ma anche l’apertura dei cancelli alla popolazione per offrire spettacoli, luoghi di divertimento, di incontro e di informazione.

    Intorno a Ri-Maflow si è creata una rete di sostegno locale, essenziale per la resistenza del progetto, ma si vanno consolidando legami su scala nazionale, per esempio le reti di produzione e consumo solidale, e internazionale con la costruzione di una rete europea e internazionale di fabbriche autogestite che organizzano incontri periodici e di studiosi militanti che sostengono questi percorsi di autogestione.

    L’innovazione (del lavoro) è al lavoro, allora, all’interno della classe operaia. In una fase di crescita del lavoro autonomo di seconda generazione e di esaltazione di start-up e auto-imprenditorialità, la creatività, il coraggio, l’affrontare la crisi e il dare corpo a nuovi modelli economici e organizzativi non passa necessariamente attraverso le classi alte e istruite, le giovani generazioni e i meccanismi sociali e produttivi del capitalismo; si possono trovare anche nelle aziende senza padroni, anche senza andare troppo lontano.


    Questo intervento di Guido Cavalca fa parte di un serie (qui la presentazione) a cura di Marianna D’Ovidio e Roberta Marzorati sui temi urbani. Uno spazio sviluppato da cheFare in collaborazione con il dottorato UrbEur di Milano. Qui i pezzi precedentemente usciti a cura di Guido Anselmi, Simone Caiello, Alessandro Maggioni, Chiara Rabbiosi, Caterina Satta e Adriano Cancellieri, Alberto Vanolo.

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