Quindi ci siamo. Oggi parte la votazione online della terza edizione del bando cheFare; per due mesi sarà possibile votare i 40 progetti scelti tra gli oltre 700 presentati. Dieci tra questi, i più votati, incontreranno la giuria che sceglierà i tre vincitori dei tre premi da 50.000 euro.
E come ogni anno, guardando ai 40 ci interroghiamo sul senso dell’onda trasformativa dell’innovazione culturale. Chi si rivolge a cheFare pensa e pratica nei termini di una sperimentazione costante, e questo rende praticamente impossibile costruire una sintesi dei mutanti strani e belli con i quali ci relazioniamo. Quello di cui siamo sicuri è che ci troviamo di fronte ad una fotografia che ci dice molto sulla complessità di quello che sta avvenendo lungo le frontiere della produzione culturale. Più in generale, siamo convinti che i progetti in gara ci diano indicazioni preziose su cosa sta cambiando nei mondi della cultura in generale, e che siano un’eccezionale cartina di tornasole riguardo alle trasformazioni più macroscopiche della società e dell’economia.
È chiaro che in Italia c’è una grande fame di spazi: le comunità culturali dal basso stanno cercando nuovi modi – sostenibili e concreti – di costruire luoghi nei quali la cultura possa essere vissuta come un dialogo continuo con il territorio e chi lo abita. E non si tratta solo di spazi fisici. Sempre più progetti pensano in termini di piattaforme digitali per l’accesso a quel sapere che ancora troppo spesso viene imbrigliato, trattenuto, chiuso a chiave. Dopo gli anni della grande infatuazione per il virtuale, è sempre più chiaro che i confini tra quello che accade online e quello che accade offline si stanno sfumando.
cheFare3 ci dice che c’è sempre più voglia di relazione. Sta crescendo l’attenzione verso i pubblici: non più riceventi “muti” di verità elaborate in torri di cristallo e non solo semplici fruitori di prodotti chiusi e predefiniti. I pubblici sono sempre più al centro di reti di relazione che divengono il motore pulsante dell’iniziativa culturale. E non è un caso che questa trasformazione avviene spesso con i modi e gli strumenti, se non con le forme ed i linguaggi, delle sperimentazioni portate avanti nei mondi dell’innovazione sociale. Perché è in questi territori contigui che la gestione partecipata delle risorse sta divenendo uno strumento chiave per nuove forme di inclusione sociale.
Tra i 40 di cheFare3 ci sono piccole organizzazioni dinamiche al fianco di realtà più consolidate capaci di reinventare la propria progettualità. Questi anni di lavoro gomito a gomito ci hanno insegnato che per chi partecipa alla fase di voto le dimensioni contano poco. Quello che conta veramente sono lo sguardo con il quale i partecipanti interpretano l’attivismo culturale e l’intelligenza con la quale interrogano le comunità.
È ormai una piccola tradizione che l’interfaccia che presenta sinteticamente tutti i progetti in gara rimandi in modo più o meno esplicito al gioco. Il primo anno si potevano scorrere i progetti facendo girare una ruota; a distanza di tempo quella scelta ci dice molto, forse, della scommessa che abbiamo fatto noi per primi. Il secondo anno i progetti erano carte da voltare, strumenti ludici e allo stesso tempo tentativi di leggere il futuro. Quest’anno invece giochiamo con gli aquiloni. Staremo a vedere chi si librerà più in alto e anche chi, mosso dal vento, troverà nuovi cieli per volare.
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