Alcune storie sono come i rami di un albero: partono dallo stesso tronco, usano la stessa linfa, si nutrono della stessa pioggia e crescono sotto gli stessi raggi. Sono legati dalla stessa origine, pur liberandosi poi nello spazio indipendentemente, con la propria vita, la propria ispirazione. Eppure essi sono albero. Uno. Quando si parla di ex Asilo Filangieri di Napoli e di Usi Civici bisogna avere chiari in mente alcuni principi, che sono soprattutto principio, sguardo rivolto a un inizio.
Nulla di tutto quello che è stato realizzato sarebbe stato possibile senza l’avvio di un discorso ampio che è partito altrove. Nulla sarebbe oggi senza il sostegno dei movimenti e senza gli slanci che almeno un quinquennio fa facevano prendere il volo a gruppi di analisi culturale e socio-politica distribuiti in più zone del territorio nazionale. Si è partiti grazie a una rete vasta, che è territoriale, che è nazionale e che è nata sul tema della ridefinizione dei diritti dei lavoratori del terzo settore e della cultura intesa in ogni sua declinazione.
“La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo, quali relazioni con la natura apprezziamo, quale stile di vita desideriamo o quali valori estetici coltiviamo.” David Harvey “Rebel cities. From the right to the city to the urban revolution”
Bisogna avere la convinzione che non esistono spazi di serie A e spazi di serie B, come non esistono vincitori e vinti. Bisogna sapere che quello proposto da l’Asilo è un modello alternativo e assolutamente innovativo di elaborazione che agisce nel Pubblico, ma anche che la varietà di pratiche e scenari aperti e apribili è enorme. Il Teatro Valle Occupato ha avuto un decisivo ruolo nell’avvio di queste riflessioni che si sono dipanate ovunque con modalità difformi e che rispecchiavano il carattere genetico delle città in cui prendevano forma.
Napoli ha fatto emergere queste posizioni nel marzo del 2012 con l’occupazione da parte del collettivo di lavoratori dell’arte, della cultura e dello spettacolo “La balena” di quella che era una struttura sottoutilizzata e destinata a diventare roccaforte dell’ennesima macchina dei grandi eventi: il Forum Universale delle Culture.
Questa occupazione è poi diventata presidio e nel tempo ha condotto a un dialogo con l’amministrazione comunale.
Ciò che nasceva sotto la definizione di collettivo si scioglieva progressivamente, dopo una lenta presa di coscienza, in un’assemblea cittadina molto più larga, già molto presente sin dagli inizi. Basterebbe dare un’occhiata distratta ai video caricati su youtube che documentano le prime assemblee cittadine.
Molteplicità di uditori ha significato molteplicità di visioni offerte. La città stava già partecipando con una voce diretta e composita. Non solo, ma tutto il pensiero prodotto e l’avanzamento attuato sul piano giuridico non esisterebbero oggi senza la prassi faticosa di una comunità che si è riunita intorno a quel bene.
A Napoli, nel 2011, la neonata giunta De Magistris aveva inserito nello statuto comunale un primo riconoscimento dei Beni Comuni, ancora legato però alla definizione proposta dalla Commissione Rodotà nel 2007-‘08. Condizione, questa, che apriva a scenari potenzialmente interessanti ma ancora distanti dal riconoscimento di un’idea dei beni comuni come autogovernati dalla cittadinanza.
In particolare, il primo documento ufficiale del Comune che riconosceva quella dell’ex Asilo Filangieri come una forma di sperimentazione è di appena tre mesi dopo l’occupazione, del 24 maggio (Delibera n. 400/2012).
Tuttavia l’Asilo, da parte sua, ha sempre sostenuto con rigore l’idea di superamento di facili e confortevoli soluzioni che, di contro, non avrebbero consentito uno spostamento dell’asse, uno scardinamento giuridico.
Normalmente la relazione che intercorre tra i beni e la comunità è mediata dal Comune di riferimento che si interpreta, in quanto proprietario formale di quei beni, come suo unico gestore e amministratore. L’Uso Civico capovolge questa logica. La comunità si impegna ad utilizzare il bene in modo inclusivo e aperto secondo un corpus di regole che è esplicitato nella Dichiarazione d’Uso Civico.
L’interpretazione che studiosi, giuristi e attivisti vicini o interni alle vicende dell’Asilo sono riusciti a definire sui beni demaniali nella prospettiva di Uso Civico è che l’ente proprietario e gestore, cioè il Comune, è un ente che amministra per tramite terzi, dove i terzi sono le stesse comunità, i cittadini, il popolo. Il pubblico si fa garante di ultima istanza delle regole di produzione autonomica, partecipando ad esempio agli organi di garanzia e all’assunzione di responsabilità connesso all’accessibilità degli spazi (come la normativa antincendio, l’apertura e la sorveglianza dei locali, etc).
Nel dettaglio, la Dichiarazione si è declinata con due caratteristiche portanti: intanto viene riconosciuta una comunità informale, quindi non una serie di individui ma una comunità mutevole ed estremamente aperta, potenzialmente infinita; inoltre contempla che gli organi di autogoverno, tra cui il principale (l’assemblea di indirizzo), hanno il potere di modificare le regole, hanno, cioè, attraverso una procedura aggravata, il potere di autonormazione. Quindi non viene affermato un regolamento statico, ma viene riconosciuta a questa comunità la possibilità di modificare nel tempo le regole per permettere di adeguarle alle pratiche, ma attraverso una procedura particolare che consente di non venire meno alle garanzie che si sono date nel momento costitutivo.
Le questioni di ordinaria e straordinaria manutenzione trovano, anch’esse, una risposta esaustiva nel Regolamento d’uso civico. E si tratta di un passaggio importante perché in questa partita molto si è giocato su ciò che riguarda le responsabilità che si assume l’amministrazione, sia rispetto alle questioni legali sia rispetto alle questioni che riguardano l’impegno economico.
Le assemblee e le riunioni interne cominciarono ad essere frequentate anche dagli assessori (Alberto Lucarelli, prima, e Carmine Piscopo, poi) non di rado accompagnati da funzionari amministrativi. Proprio questi ultimi possono rappresentare il maggiore scoglio tecnico ponendo apparenti impossibilità che vanno analizzate attraverso il confronto, prima di essere dichiarate come blocchi insormontabili. I confronti sono stati molto accesi talvolta con punte di scontro. Tuttavia è stato un processo fondamentale di educazione ai linguaggi: in questa apertura al dialogo la cosa che premeva maggiormente la comunità dell’Asilo era di mantenere saldi i propri punti fondamentali.
Si è cercato di fare una vera attività di traduzione, abbiamo imparato il linguaggio delle istituzioni e abbiamo insegnato alle istituzioni il nostro linguaggio.
Era un atteggiamento, il nostro, che non prendeva il “no” come risposta ma se c’era un “no” si cercava di andare a rimuovere gli ostacoli che portavano a quel “no” quindi di ragionare su quali erano le possibilità che, nel rispetto dei punti per noi irrinunciabili, riuscivano a rimuovere quei blocchi. Se da attivisti diciamo che il risultato è positivo, da giuristi e ricercatori diciamo che lo è ancora di più perché ha permesso a tutti noi di confrontarci con i dirigenti pubblici e quindi di stare proprio dentro il diritto amministrativo, capire cosa succede concretamente quando si cambiano certe regole.
La cosa evidente è che c’è una discrasia di ritmo tra Giunta, Consiglio e Amministrazione che vanno a ritmi diversi. La Giunta è molto avanti su tutto questo, ma trova resistenza nel Consiglio e ancora più resistenza negli apparati amministrativi. Per cui tutti i passi avanti e i passi indietro sono dovuti a queste tre diverse lunghezze d’onda.
È stato possibile questo all’Asilo anche perché l’Asilo non è uno spazio identitario, o meglio è uno spazio dove diverse identità possono convivere e ibridarsi tra loro.
Allo stesso tempo il successo dell’Asilo non è solo il successo dell’Asilo perché la sua forza è sempre stata legata a tutti gli altri spazi e movimenti territoriali e nazionali che nella varietà di espressioni stavano ragionando su questi temi.
Per noi era più importante fare un passo avanti col movimento che non fare uno scarto da soli. D’altronde la prima delibera che non riguardava solo l’Asilo è stata scritta in un lavoro congiunto con altre sette realtà. Questo ha condotto all’approvazione di alcuni importanti emendamenti e ad una nuova delibera di Consiglio comunale che ha riconosciuto nell’aprile 2016 l’Uso Civico come istituto di autorganizzazione civica legittimato a diventare strumento di amministrazione dei beni pubblici. Un processo che ha portato ancora più nettamente all’avvio del percorso per il riconoscimento di altri sette spazi sul territorio come spazi ad uso civico, attraverso una nuova delibera del giugno 2016.
In sintesi, all’interno della dichiarazione vengono stabilite queste competenze: l’Amministrazione si assume la responsabilità delle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, utenze e guardiania; la comunità “dei lavoratori in autogoverno”, invece, si fa carico delle spese vive relative a tutte le attività che si svolgono all’interno dello spazio quindi spese che riguardano il dotarsi di strumenti e attrezzature per la produzione e per le pratiche culturali assumendosi, inoltre, la cura quotidiana del bene.
Il Comune ha giustificato questo in forza di quattro anni di attività culturali e produzioni condotte all’Asilo dimostrando che il reddito sociale, il valore che indirettamente è stato prodotto, supera quanto viene investito relativamente allo spazio. Il valore culturale e sociale, che non si può quantificare numericamente, ha una ricaduta di molto maggiore rispetto a quanto concerne il mantenimento del bene.
“Non, dunque, una centralità fondata sulla nozione di “reddito finanziario”, nozione che ha contraddistinto storicamente l’assegnazione dei beni del patrimonio pubblico, quanto, piuttosto, l’idea secondo cui il “reddito sociale”, con i suoi Usi Civici (Uti Cives), è parte integrante del “reddito economico”, in quanto parte essenziale del benessere sociale e delle proiezioni delle collettività insediate” – scrive l’Assessore Piscopo a proposito di “La politica per i Beni Comuni a Napoli”.
(qui due validi approfondimenti teorici su “Uso civico urbano. Beni pubblici e collettivi nella prospettiva costituzionale” e “I Beni Comuni e la partecipazione democratica. Da un “altro modo di possedere” ad “un altro di governare”)
Il distinguo tra le modalità tradizionali di concessione e una visione nuova, lo spiega bene – nei termini e nei modi – il comunicato di Casa Bettola (Reggio Emilia) che a novembre 2016 chiamava la città a discutere della possibilità di adeguare il modello napoletano al territorio emiliano, nello specifico all’edificio in questione.
L’iniziale scetticismo della Provincia sulla fattibilità del passaggio legale, sull’impossibilità legata a dubbie facoltà istituzionali, è stato messo in crisi da un atto concreto: la delibera n. 446/2016 con cui, il Comune di Napoli, riconosce i sette spazi napoletani, oltre l’Asilo, come «spazi che per loro stessa vocazione (collocazione territoriale, storia, caratteristiche fisiche) sono divenuti di uso civico e collettivo, per il loro valore di beni comuni». Insomma, il precedente è nato.
Così in Emilia Romagna, alla luce di ciò che è avvenuto a Napoli, si sta procedendo alla scrittura collettiva di un Regolamento di Uso Civico e Collettivo dello spazio. La Provincia di Reggio Emilia, dopo l’incontro avuto con alcuni rappresentanti de l’Asilo (avvenuto l’11 gennaio 2017), si impegna a studiare le carte delle delibere napoletane per individuare eventuali criticità, analizzarle e provare a scrivere con la comunità di Casa Bettola un nuovo Regolamento d’Uso Civico.
È ancora tutto da costruire ma si è aperto uno spazio di possibilità. E così torno a David Harvey e ai suoi, lefebvriani spazi di possibilità. Lo spontaneo giunge insieme in un momento di “irruzione”, quando diversi gruppi eterotopici improvvisamente vedono, anche solo per un fugace momento, le possibilità di azione collettiva per creare qualcosa di radicalmente diverso.
Quello che lui mette tra virgolette nel suo Rebel cities, quel “something different” che non necessariamente deriva da un piano cosciente, ma più semplicemente da quello che la gente fa, sente, percepisce e arriva ad articolare cercando un senso alla sua vita quotidiana ecco quel “something different” cercherò di raccontarlo in uno spazio a parte. Che seguirà.
Immagine di copertina: ph di Sabrina Merolla