La nostra società contemporanea sembra essere caratterizzata da un deficit dell’attenzione patologico: l’incapacità di concentrarsi è il fantasma che si aggira in un Occidente sottoposto a un carico di informazioni sempre più massiccio e sempre più fondato su equilibri di ibridazione culturale tra uomo e macchina. Anche senza prospettare scenari apocalittici è innegabile che qualcosa sta cambiando, la nostra capacità di pensiero è una struttura plastica, metamorfica che reagisce in base alle modificazioni dell’ambiente circostante. A un ambiente differente, corrisponde una modalità di attenzione differente, e questa nuova modalità non può che essere naturalmente alla base di ogni analisi non superficiale del nostro sistema economico, culturale, etico, politico contemporaneo.
In Francia, da qualche anno, l’Ecologia dell’attenzione sta assumendo le forme di un dibattito di ampio respiro, soprattutto per merito del filosofo Yves Citton, professore di Letteratura francese presso l’Università di Grenoble e co-direttore della rivista “Multitudes”. Sui rapporti tra soggettività e dispositivi mediatici, Citton ha pubblicato nel 2012 Renverser l’insoutenable (Seuil), diretto l’opera collettiva L’Économie de l’attention. Nouvel horizon du capitalisme? (La Découverte, 2014), e pubblicato Pour une ecologie de l’attention (Seuil, 2014).
Poco tempo fa ha organizzato e curato a Cerisy una settimana di studi su Archéologie des media et écologies de l’attention, primo grande convegno dedicato a quella che possiamo chiamare a tutti gli effetti una nuova scienza in formazione. Lo abbiamo incontrato in quell’occasione e abbiamo cercato di mettere a fuoco con lui alcuni nodi fondamentali del suo discorso.
Che cos’è l’ecologia dell’attenzione e in che cosa si diversifica da una pura e semplice forma di economia dell’attenzione?
L’idea di un’economia dell’attenzione nasce intorno al 1995 con l’esplosione di Internet. Internet nel giro di pochissimo tempo ha reso immagini, suoni, discorsi, informazioni, disponibili gratuitamente in quantità sempre più massicce venendo a creare una sorta di frizione con il nostro tempo di attenzione che rimane invece sempre lo stesso. Si crea così un divario sempre più ampio tra ciò che vorremmo leggere-vedere-conoscere e ciò che possiamo leggere-vedere-conoscere data la limitazione strutturale della nostra attenzione. L’attenzione diventa allora qualcosa di estremamente prezioso, qualcosa di fortemente legato alla struttura profonda delle nostre società capitaliste ed è monetizzabile, valutabile secondo le leggi di scambio e di profitto economico proposte dall’economia classica (se ci pensiamo bene google, fb, etc semplicemente non fanno altro che vendere e comprare la nostra attenzione).
Di fronte a questo nuovo tema di riflessione – l’attenzione come merce – l’approccio ecologico che si sta imponendo in questi ultimissimi anni ha spostato invece il discorso da una questione di puro e semplice profitto a una questione di sostenibilità e di buona o cattiva gestione delle risorse. L’ecologia dell’attenzione è soprattutto una questione di ambiente. Ci si interessa meno agli individui (in quanto elementi singoli di compravendita attenzionale) e più agli ambienti (in quanto sistemi di interazione attenzionale), ambienti che non possiamo non considerare come fortemente condizionati dagli ambienti mediatici. Se oggi investiamo una grandissima parte della nostra attenzione negli smartphone, nei computer, nei giornali, nei videogiochi, praticare un’ecologia dell’attenzione non può prescindere da uno studio e da una riflessione sui media in generale.
Per quanto riguarda i media, mi sembra che la tua proposta di riflessione teorica vada in una direzione ben precisa: declinare l’ecologia dell’attenzione con l’archeologia dei media. In che modo?
La prima cosa da dire è che l’archeologia dei media riflette sullo sviluppo dei media a partire da categorie temporali diverse rispetto a quanto fa ad esempio la storia di media. Noi umani abbiamo l’abitudine di comunicare da decine di migliaia di anni emettendo suoni diversamente modulati, con i gesti della mano o con l’espressione del volto. Da cinquecento anni usiamo anche, per comunicare, la carta stampata. Da un secolo, comunichiamo attraverso media elettrici o elettronici (telefoni, radio, televisione). Da vent’anni usiamo internet. Abbiamo avuto qualche decennio per abituarci alla tv, abbiamo avuto solo qualche anno per abituarci a internet. Oggi come oggi viviamo dentro l’era digitale, ne siamo immersi in profondità, ma non abbiamo per nulla i mezzi intellettuali, concettali, immaginari per comprenderne gli effetti sulla nostra soggettività e sulla nostra società in generale. L’archeologia dei media cerca di colmare questo ritardo concettuale, questo gap tra pratiche quotidiane e effetti di strutturazione identitaria attraverso uno studio del passato, o meglio, attraverso una nuova modalità di studio sul passato.
La storia dei media categorizza il suo oggetto di studio in termini di successione: attraverso i secoli diversi media si succedono gli uni agli altri, l’uno rimpiazza più o meno l’altro prendendone il posto. Per l’archeologia dei media, non è un problema di successione: un medium non sostituisce l’altro, ma semplicemente si sovrappone a quest’ultimo. Studiare i cosiddetti “vecchi media”, non significa andare indietro nel tempo verso qualcosa che è scomparso, ma indagare uno strato che è sempre presente nel presente. Fare archeologia dei media significa pensare la storia in termini di strati sovrapposti e sempre attivi, molto più che in termini di sostituzioni, novità e obsolescenze.
Al di là della sua collocazione lungo l’asse del progresso tecnologico, che cosa è un medium secondo i media-archeologi?
Quando pariamo di media pensiamo generalmente ai mass-media (i giornali, la radio, la televisione). L’archeologia dei media dà invece una definizione di medium molto più ampia. Secondo Marshall McLuhan anche una lampadina è un medium. A prima vista questo concetto non sembrerebbe essere per nulla intuitivo, ma se ci spostiamo da una categorizzazione secondo un ordine di senso a una categorizzazione secondo un ordine di uso ecco che le cose cambiano notevolmente. A ben guardare infatti possiamo utilizzare il nostro corpo come un medium, possiamo utilizzare una lampadina come un medium, possiamo utilizzare una pentola come un medium. È la funzione di un oggetto a definire il suo statuto di medium e niente altro. Per essere considerato un medium un oggetto deve soddisfare tre esigenze: registrare, trasmettere, e trattare un’immagine o un’ informazione. Registrarla nel tempo, trasmetterla nello spazio e modificarla. Secondo Bruno Latour la modificazione è un elemento imprescindibile dall’agire mediatico dal momento che non si può né trasmettere né registrare senza anche necessariamente trasformare il dato che stiamo trasmettendo-registrando.
Un altro elemento da considerare per una definizione di medium nei termini di un’archeologa dei media è il rapporto lessicale che intercorre tra i termini mediatico e medianico. Ancora oggi la parola medium ha una doppia valenza, possiamo leggerla nei termini di mezzo comunicativo di massa e nei termini di un tramite tra mondo dei vivi e mondo dei morti (il medium delle sedute spiritiche, ad esempio). Tra Sette e Ottocento il legame tra queste due letture era estremamente forte e vitale, il magnetismo animale alla Anton Mesmer, l’occultismo, lo spiritismo per brevissimo tempo hanno convissuto all’interno del mondo scientifico accanto ai primi studi sull’elettricità e l’elettromagnetismo. In un secondo momento questo genere di ricerche e di esperimenti è stato allontanato dalla ricerca scientifica “seria”, dalle accademie, e tra le due accezioni del termine si è andato delineando un fossato sempre più marcato.
L’archeologia dei media oggi si interessa a entrambe le valenze, attribuendo ai media un valore medianico estremamente significativo. Il fatto di poter registrare voci umane o l’immagine di corpi in movimento, di trasmettere la visione di questi corpi e il suono di queste voci anche quando le persone che ne sono proprietarie non sono più presenti, è qualcosa che tocca i limiti tra la vita e la morte, tra ciò che si vede e ciò che si crede, tra la vita che stiamo vivendo e il suo fantasma. A ben guardare, anche semplicemente leggendo un libro ho un’esperienza di tipo medianico. Se leggo le Confessioni di Rousseau, la soggettività di Rousseau stesso mi parla attraverso i secoli, la soggettività di un uomo morto nel 1778 parla a me, oggi, nel 2016. E in questa tensione temporale, in questo rapporto di scambio tra me e Rousseau, sta esattamente il fulcro del concetto di medium in quanto oggetto mediatico-medianico.
Ma quindi possiamo intrepretare la prospettiva archeo-mediatica come una maniera di riconfigurare il presente?
La storia dei media è la storia dei vincitori, di quei mezzi di comunicazione che “ce l’hanno fatta”. L’archeologia dei media invece rivisita il passato per entrare nei Cabinets de curiosité (di questo ne parla spesso Siegfried Zielinski), per soffermarsi sulle cose bizzarre, cose di cui non sappiamo troppo bene che fare e che riguardano più l’immaginario che la pratica comunicativa in quanto tale. Tutti questi oggetti, tutte queste invenzioni non hanno cambiato la storia, sono stati il più delle volte sbagli, esperimenti non riusciti, ma ci aiutano comunque a ripensare il presente. Il mio lavoro sui media è nato da una lettura di Charles-François Tiphaigne de La Roche, un medico normanno del XVIII secolo, sconosciuto ai più oggi e che ha teorizzato invenzioni tanto avveniristiche quanto irrealizzabili. Leggendolo, dialogando con i suoi testi, e nello stesso tempo leggendo Friedrich Kittler e Marshall McLuhan, ho iniziato a lavorare sui media di oggi, sulla definizione di cosa è un medium oggi.
Chi sono i media archeologi, qual è la loro formazione?
Uno dei punti più saldi su cui si fonda l’archeologia dei media è che non ci possiamo accontentare di fare archeologia dei media nelle università. Questo tipo di approccio non è riservato solo agli studiosi, ai teorici, agli accademici, ma necessita di un dialogo costante tra pensiero teorico e pratiche artistiche. Gli artisti contemporanei che lavorano sul digitale ci permettono oggi di mettere in crisi ogni definizione precostituita di soggettività. Il loro lavoro sui media ci costringe a ripensare che cosa è un soggetto, non solo dal punto di vita tecnologico, ma politico e identitario. Siamo immersi profondamente in un ecosistema tecnologico di cui non comprendiamo ancora troppo bene gli equilibri e le pratiche artistiche ci offrono la giusta distanza per poter iniziare a guardarli davvero.
Occuparsi di ecologia dell’attenzione e di archeologia dei media può quindi essere considerato un atto politico?
Credo ci si sia una parola che meglio di tutte rappresenta la nostra società odierna: Mediarchia. Oggi possiamo dire di vivere in una mediarchia, dal momento che le nostre modalità di strutturazione in quanto pubblico di consumatori, di lettori, di fruitori sono fortemente condizionate dai dispositivi mediatici. Kittler diceva che i media determinano “ogni nostra situazione”, nel senso che nelle nostre società occidentali c’è un condizionamento onnipresente e strutturante che deriva dall’efficacia e dalla diffusione capillare dei media nel tessuto sociale. Prima di parlare di politica dobbiamo quindi sempre porci la questione di come è strutturata la mediarchia in cui stiamo vivendo, dobbiamo comprendere che chi compra, chi vota costituisce un pubblico, e un pubblico è sempre il prodotto di un agire mediatico. Dobbiamo iniziare a capire cosa sono e cosa fanno i media per poter organizzare forme di azione politica che siano efficaci a livello planetario. Beninteso, manifestare in piazza, occupare un aeroporto, una scuola, un teatro, è assolutamente necessario (e non si tratta affatto di Folk Politics come dicevano gli accellerazionisti), ma non è sufficiente. Dobbiamo immaginare forme di pensiero che siano slegate dalle logiche capitalistiche e dobbiamo ripensare le azioni artistiche, le azioni educative, le azioni politiche all’interno di una nuova comprensione del sistema mediatico. In questo senso l’ecologia dell’attenzione oltre a essere una pratica di studio è anche e soprattutto una pratica di resistenza, esattamente come pensare l’archeologia dei media significa darsi dei modi di teorizzare i media del tutto liberi dal pensiero tecnologico imperante indotto dalle logiche capitaliste.