Ho perso la prima del film che avrebbe poi vinto il Leone d’Oro a Venezia—The woman who left di Lav Diaz—perché nella nuovissima Sala Giardino proiettavano L’anno del dragone di Michael Cimino, a cui era dedicata la 73esima mostra insieme ad Abbas Kiarostami. A sorpresa, durante la presentazione del presidente Barbera, si scopre che il film era in 35 millimetri. In pellicola! Sembrava un evento assoluto, quasi fosse un animale raro. A incoraggiare ancora di più l’entusiasmo feticista era il fatto che la “pizza” in cabina di proiezione era una delle due uniche copie al mondo. Per la precisione, quella di proprietà di Martin Scorsese, depositata a Rochester, una cittadina dello stato di New York. L’autore di Taxi Driver non solo ha girato Taxi Driver: da oltre vent’anni si dedica anche a finanziare e promuovere attività di restauro e conservazione di film con la sua Film Foundation, un’associazione legata, tra le altre, alla Fiaf (Federazione Internazionale Archivi Film) e alla cineteca di Bologna (a cui torneremo).
Alcuni giorni prima, sempre Scorsese aveva pronunciato una frase tanto ad effetto quanto vera: “Restaurare un film significa interpretarlo”. Era durante un’intervista nel contesto di Cinema Futures, un documentario sul passato e il futuro del film analogico nell’era digitale, del regista austriaco Michael Palm. Il doc, informativo ma con anche momenti “herzogiani”, pungola aspetti della nostra cultura audiovisiva che ci toccano davvero da vicino. Invece di inquadrare la discussione con il consueto piglio nostalgico, a Cinema Futures preme fin dai titoli di apertura mettere in chiaro cos’è cambiato: stiamo guardando sì un film ma se vogliamo usare la terminologia tecnica è un file—una serie di informazioni molto dettagliate stipate dentro una confezione chiamata DCP (Digital Cinema Package). “Per me il termine film è legato al meccanismo fotochimico—ho un’accezione abbastanza rigida del termine, ma tra file/film si può fare un interessante gioco di parole”, mi racconta Palm, che inaugura il suo documentario con un evento del 2001, in cui diversi produttori si incontrano per annunciare la fine della pellicola. Tronfi nei loro rigidi blazer, salutano il nuovo mezzo facendosi immortalare in procinto di gettare i vecchi rulli nell’immondizia. Molto anni Novanta, ma efficace. Un anno dopo George Lucas gira Guerre Stellari in digitale. Il cinema stava morendo?
Ovviamente, no. Lo spirito mortifero che abita questa discussione sfiora punte a volte quasi ridicole: dalla morte del film muto all’avvento del colore fino alla diffusione del 3D c’è spesso qualcuno che disturba zombie, vampiri e Marie Shelley vari per ricordarci dell’ambiguo rapporto tra cinema e morte/vita. Per spiegarsi, Palm sfrutta alcune scene tratte da Gremlins, quando le bestie inferocite prendono d’assalto un cinema dandogli fuoco. “C’è sempre una nozione apocalittica quando si parla dell’evoluzione dei media. Bisogna però ricordarsi una frase di Louis Lumiere, quando scrisse al fratello, poco dopo l’invenzione del cinematografo: <<Credo che quest’invenzione non abbia futuro>>. Appena nata, era già morta!”. Si parla infatti piuttosto di mutazione del supporto del mezzo cinematografico: Roger Ebert resistette a lungo contro il digitale, sostenendo che riusciva sempre a riconoscere la differenza. Arrivò poi il giorno in cui non fu più in grado di discernere il digitale dalla pellicola. Ma lasciando per un momento da parte le considerazioni estetico-filologiche, da questo cambio di paradigma emergono problemi etico-pratici molto pressanti. In realtà non è passato molto tempo da quando veniva proiettata la pellicola. Anzi, è stato solo nel 2014 che i cinema italiani hanno dovuto completare la conversione. Ma pensiamo semplicemente ai costi di aggiornamento di centinaia di migliaia di sale in tutto il mondo, che hanno dovuto cambiare le apparecchiature di proiezione. O il futuro delle fabbriche di pellicola, spinosa quanto popolare questione già esplorata con la fotografia di Ilford o Polaroid. Poi, la “sindrome multisala”: cosa è successo a tutte quelle copie distribuite durante il primo weekend di un film, poi in disuso immediato dopo pochi giorni di proiezione? Viene anche da chiedersi come sia possibile che de L’anno del dragone esistano nel 2016 solamente due copie, di cui una totalmente danneggiata dai sottotitoli. Quante copie saranno rimaste, invece, de Il petomane?
Tempo fa, al Lago Film Festival ho incontrato Federico Savina, storico tecnico del suono responsabile della trasformazione al sistema Dolby in Italia. Racconta che era a Bologna al festival del Cinema Ritrovato, dedicato alla scoperta di film dimenticati e al restauro. Il programma includeva la proiezione di un film muto, restaurato e riversato in digitale. Ricordiamo come sono i film muti, no? Tutti traballanti, con una loro mobilità superficiale. Ecco, diceva Savina, la copia in digitale era ferma, perfettamente inquadrata. Riferisco l’episodio a Palm, che giustamente mi chiede “siamo sicuri che il pubblico più giovane, che magari non ha la stessa dimestichezza che abbiamo noi con l’immagine analogica del cinema muto, si renda conto di questa differenza?” Che il digitale influenzi l’esperienza cinematografica è fuor di dubbio per Cinema Futures.
Il documentario sostiene proprio che la bellezza del cinema derivi dalla sua instabilità. Palm riconosce che la pellicola “È senz’altro più vivace, instabile in un certo senso. La struttura della luce è diversa. Ma è ovvio, è anche una questione generazionale. Il film non è un mezzo stabile, non è che ogni pixel sia inchiodato allo schermo. La pellicola ha una struttura più caotica, proprio molecolare, mentre il digitale è matematicamente fissato sullo schermo. C’è una riflessione nota del montatore Walter Merch: <<Provate a filmare una stanza vuota, prima con la pellicola, poi in digitale. Guardare il film girato in pellicola vi darà l’impressione che è successo qualcosa; quello in digitale che qualcosa sta per succedere>>. Ecco, vedi come prende forma il discorso sul tempo. Un aspetto cruciale per me, nell’oggetto fisico e dunque nella pellicola, è che puoi osservare il processo di invecchiamento. E quindi bisogna pensare alle tecniche di conservazione, e tramandare il tutto al futuro.”
Mentre in Austria viene smantellato l’ultimo laboratorio di sviluppo pellicola, arriviamo a Rochester, alla periferia di New York e casa della Kodak. Un’intera cittadina occupata nell’industria della pellicola: nel 1980 gli operai impiegati erano 62000, vent’anni dopo solo 7000. Rochester era una specie di Silicon Valley dell’analogico, dove gli operai beneficiavano anche di un cinema per vedere film gratis alla fine di ogni turno. Quando l’azienda si riprese dalla bancarotta nel 2013, un gruppo di registi capitanati da Christopher Nolan, Scorsese e Tarantino spinse perché sei grandi studios si accordassero con Kodak per garantire ancora la produzione di pellicola. All’inizio di quest’anno, il direttore Jeff Clarke ha annunciato che riprenderà la produzione di pellicola in 8mm, il formato che “popolarizzò” il cinema in versione home movie. Non le sentite le grida di giubilio di Spielberg e soci in sottofondo? Eppure il tono di Mr. Clarke, intervistato dal documentario, era molto più simile a quello di un animalista che ringrazia le donazioni di Clooney per il salvataggio delle balene.
E quindi sì, la pellicola come animale in estinzione. Ma cosa succede con le centinaia di migliaia di pellicole prodotte in 120 anni di storia analogica? Cinema Futures è anche un viaggio nelle videoteche del mondo. Paul Klamer della Library of Congress racconta cosa significa tutelare l’esistenza di film che nessuno guarda da anni e che probabilmente non verranno mai più visti.
All’ultimo gradino della gerarchia delle immagini, ad esempio, non ci sono i b-movies, o i porno da quattro soldi; ma gli home movies, che forse un giorno saranno storicamente più eloquenti dei grandi classici. Ci sono gli archivi sotterranei, dove vengono accatastate scatole e scatole di pizze; ci sono quelli ultramoderni, come ad esempio delle grandi case di produzione, che progressivamente stanno digitalizzando tutto. Vediamo un braccio elettronico estrarre piccoli hard disk e ricopiare invisibilmente stringhe di numeri. Lì, un archivista hi-tech avverte però che i formati stanno cambiando con grande velocità.
È la solita storia dei codec che comprimono i dati e ne permettono poi l’estrapolazione per la lettura. C’è il prevedibile spauracchio di formati che non saremo più in grado di interpretare perché i software cambiano troppo in fretta. La buona notizia è che se alcuni sono controllati da programmi patentati come Final Cut, altri sono open-source come DivX o VLC. Ma è anche la storia dell’ultimo videoregistratore prodotto lo scorso luglio: Cinema Futures ci porta in una specie di zoo di VHS player, dove ogni modello è in funzione, sottoposto a continue manutenzioni, mentre i modelli più moderni duplicano cassette senza sosta. Il ticchettare della “mano d’opera” elettrica offre insieme la visione più tenera e apocalittica che ci si possa immaginare.
C’è una scena, in Cinema Futures, un nuovo carico di pellicole da restaurare arriva in un laboratorio californiano. Uno dei tecnici apre le pizze e ci fa vedere lo stato di conservazione: la copia di un film degli anni Venti si sbriciola come un cracker secco. In quel momento la digitalizzazione smette di sembrare il demone del cinema e anzi, piuttosto come la sua salvezza.
Questo finché però non vediamo in azione i software di restauro: se lasciati andare col pilota automatico appiattiscono del tutto la profondità e la consistenza del film. Bisogna lavorarci manualmente, fotogramma per fotogramma, discernere un graffio dall’ombra di un oggetto. Un lavoro certosino per cui si è naturalmente offerta la manodopera estera a basso costo, a cui i grandi studios o collezioni nazionali danno in appalto il restauro dei loro archivi. I pionieri di quest’industria sono gli indiani, spesso gli stessi che creano le effetti speciali di centauri guerrieri nel Signore degli Anelli e simili. Chiedo al regista come ha scoperto queste imprese. “È stato per caso. Quando ho iniziato le ricerche pensavo che ogni studio o laboratorio gestisse la restaurazione internamente. Ovviamente lo fanno anche, ma è molto più costoso rispetto all’appalto straniero. In ogni caso queste imprese sono molto presenti online, alcuni hanno anche succursali ad Hollywood. Sono grandi. La compagnia che abbiamo visitato noi nel documentario aveva già restaurato qualcosa come l’80% del cinema indiano. C’erano 800 operai, solo lì dentro. Non li chiamerei sweatshop, ma poco ci manca. Quando ti rendi conto della mole di materiale e la quantità della manodopera necessaria… è impressionante. Me ne ha parlato per primo uno degli archivisti: quando è venuta fuori la cosa mi ha detto <<mandiamo il materiale in India, ma non posso parlarne…>>. Probabilmente sarebbe imbarazzante se Firenze dovesse appaltare il restauro della propria eredità rinascimentale ai cinesi!”
Mi chiedo se esiste un codice etico condiviso—e sì, esiste, per lo meno all’interno della federazione archivi film, la FIAF. Con sede a Bruxelles, la FIAF è un organo mondiale che gestisce, controlla e supporta tutte le iniziative di conservazione dell’immagine in movimento. Tra i primi a instituire un archivio come lo conosciamo adesso furono i nazisti e curiosamente è proprio durante la Seconda Guerra mondiale che si mossero i primi passi per un’alleanza internazionale della tutela del film.
Commencini e Lattuada, che avevano preso in custodia la collezione del milanese Mario Ferrari, sono i primi a fare richiesta a nome del nostro paese, ma l’Italia farà parte dell’associazione solo dopo la guerra. La FIAF è anche l’unica che fornisce corsi di formazione specializzati di restauro e archiviazione (il primo incontro didattico si svolse a Berlino est nel 1973, quasi a suggerire che la conservazione del cinema supera certe discordie politiche), organizza rassegne di varia natura e monitora costantemente la lista di laboratori fotochimici ancora operativi. Il ritornello, ovunque, è “Don’t throw away film! Prints will last”.
Dove però manca un’etica condivisa e una pratica controllata è tra i professionisti dello “scanning”. Sempre più frequente è l’archiviazione digitale dei tratti somatici e del corpo degli attori: non solo da manipolare l’età a là Benjamin Button ma, e soprattutto, per rimpiazzarli in caso di morte improvvisa. Il caso più eclatante fu quello di Paul Walker, che morì durante la realizzazione del settimo episodio di Fast & Furious.
All’epoca la Universal non rilasciò informazioni sulle proprie tecniche di “rianimazione”. Qui davvero potremmo parlare di vudù digitale. Seguendo questi toni futuristici, il percorso di Cinema Futures si conclude all’Internet Library di San Francisco.
C’è di tutto: dalla più recente riunione plenaria del parlamento Europeo ad anime arabe. Il fondatore Brewster Kahle si fa inquadrare mentre scompare lentamente nel buio di un piccolo container pieno di server, “la biblioteca più grande del mondo… più grande di Alessandria!”. Il suo entusiasmo è condivisibile: è tutto open source, una risorsa estesissima, e sempre accessibile. Messa in questi termini, il digitale smette di sembrare una minaccia per il cinema, e anzi, diventa forse il suo unico alleato.
Chiudo la chiacchierata con Michael Palm chiedendogli dell’unico tema che Cinema Futures non affronta, e cioè i cinema—i templi dell’immagine in movimento, come li chiama qualcuno. Digitale significa anche VoD, per esempio, a rifocillare tutta quell’ideologia dello “staying in the the new going out”. “Mah, direi che saranno ancora in giro per un po’, i cinema. Non è solo lo spazio architettonico, ma anche il modo in cui facciamo esperienza del tempo in un cinema. Lì dentro si è in qualche modo dipendenti, sottomessi, al suo modo di far trascorrere il tempo. Al cinema non possiamo manipolare lo scorrere del tempo come facciamo con altri media. Certo, è chiaro che abbiamo anche l’esigenza di giocarci, interagirci—abbiamo sempre questa necessità demiurgica, ma dall’altra parte il cinema rimane il padrone del nostro tempo.”