Per Richard Sennett, dobbiamo immaginare strutture flessibili per un urbanesimo aperto

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    Partecipa a laGuida, il Festival Itinerante dei nuovi centri culturali di cheFare. Scopri il programma.


    Questo articolo fa parte dei contenuti de laGuida, il festival itinerante dei nuovi centri culturali. Ogni tappa de laGuida riunisce i nuovi centri culturali di una determinata zona d’Italia in rassegne online e dal vivo di conferenze, seminari e laboratori per sviluppare nuove competenze, costruire assieme un orizzonte di senso comune e costruire un dialogo con chi costruisce l politiche culturali e sociali. Il tema della prima tappa de laGuida – dedicata ai nuovi centri culturali di Liguria, Piemonte e Valle D’Aosta – è Partecipazione. E lo indaghiamo anche con le righe che seguono.


    Un “urbanismo aperto” per costruire un ambiente flessibile, non sovradeterminato o del tutto definito a priori, così da conservare i benefici del vivere insieme nelle città ma scongiurarne le minacce più pericolose. Quelle derivanti da virus e malattie, ma anche quelle legate agli effetti dei cambiamenti climatici.

    Per Richard Sennett, tra i più autorevoli intellettuali del nostro tempo, visiting professor di Urban Studies al Massachusetts Institute of Technology e senior advisor per il programma dell’Onu su cambiamento climatico e città, solo un urbanismo aperto o tattico è all’altezza della grande sfida che abbiamo di fronte. Evitare il sovraffollamento, mantenendo la densità sociale che rende ogni città veramente tale. Ne abbiamo discusso in quest’intervista per che Fare, in occasione dell’inizio de laGuida, il Festival itinerante dei nuovi centri culturali.

    La portata globale della pandemia, e la sua diffusione nei contesti urbani, ha ridato nuova linfa agli studi sulle città e agli interrogativi sui modi in cui le costruiamo e le abitiamo, questioni di cui lei si occupa da molti anni, con ricerche e libri centrali nella discussione accademica e non solo. Ritiene che da questa pandemia si possano già trarre delle lezioni, anche politiche, o è ancora troppo presto per farlo?

    Parto da una premessa: da 35 anni circa, da quando ho abbandonato l’insegnamento alla London School of Economics, sono consulente delle Nazioni Unite sulle questioni urbane. Una delle questioni più importanti su cui stiamo lavorando ora riguarda proprio le trasformazioni che la pandemia produrrà nelle città del Nord globale e del Sud globale.

    Il nodo complicato è in che modo legare la necessità di rendere le città più salubri da un lato e quella di renderle più verdi dall’altro. Non è facile tenere insieme contrasto alla “malattia” e contrasto e adattamenti ai cambiamenti climatici: molte delle ricette per affrontare il cambiamento climatico tendono a rendere le città più compatte, più affollate, più efficienti dal punto di vista energetico ma meno salubri, mentre le ricette per renderle più salutari spesso disperdono energia e tendono in un’altra direzione.

    La pandemia ci invita a pensare ancora di più con lo sguardo rivolto in avanti, puntando a quello che qualcuno definisce urbanismo tattico e io chiamo open urbanism.

    La pandemia ci invita a pensare ancora di più con lo sguardo rivolto in avanti, puntando a quello che io chiamo open urbanism

    L’urbanismo aperto non definisce e determina la città, come vorrebbe fare chi vede nella pandemia una spinta a isolare le persone, a suburbanizzare nuovamente la città, secondo il principio che quanto più la gente è distante, meglio sta. L’isolamento non è una cura. É una pessima soluzione, anche per la salute.

    Dobbiamo cercare modi e strumenti per un urbanismo più flessibile, non più rigido. Pensiamo al virus, un bersaglio in movimento che ha costantemente cambiato la propria configurazione, e alle risposte elaborate. C’è stato il momento in cui il virus è arrivato, che si trattasse dell’Italia o della Gran Bretagna, quando il lockdown era una necessità per rallentarne la diffusione, ma ora che il tasso di contagiosità è sceso abbiamo bisogno di tutta un’altra serie di strategie.

    La pandemia non sarà l’ultima, anche se trovassimo un vaccino. Con il mio gruppo di lavoro stiamo cercando di capire come creare città che siano più flessibili, che non debbano necessariamente chiudere, e chiudere tutto, per rispondere a un evento simile a quello affrontato. Che sappiano meglio modulare le strategie di risposta.

    Prima di ragionare sulle lezioni “politiche” della pandemia, ci racconta qualcuna delle ricerche condotte con il suo gruppo?

    Uno dei risultati delle nostre ricerche ci dice che la produttività del lavoro da casa è più bassa di quella del lavoro faccia a faccia.

    Non dovrebbe sorprenderci: lavorare online è un processo lineare, anche avere una discussione via Zoom lo è, perché non c’è vera interazione e comunicazione di gruppo quando ognuno è concentrato sullo schermo. La produttività deriva da complessi processi di interazione continua. Chi sostiene che non ci sia più bisogno di andare in ufficio o nell’azienda “perché tutto più essere fatto online” sostiene un’idea economicamente nociva e che aumenta le disuguaglianze sociali. Molti dei lavori della classe media possono essere trasferiti su uno schermo, ma l’immondizia non si raccoglie on-line, le case non si puliscono on-line.

    Chi è socialmente più in basso risulta più esposto al rischio. Una risposta che produce danni sociali non è una vera risposta.

    Il pericolo più grande della pandemia è quello identificato da Giorgio Agamben: la naturalizzazione dello stato d’eccezione

    Dobbiamo minimizzare i rischi che a volte sono legati alla vicinanza fisica, ma conservare i benefici che derivano dallo stare insieme. Ci sono molti modi pratici per farlo. Contano gli orari di lavoro, per esempio. Se tutti vanno a lavoro e rientrano a casa nello stesso orario, ciò inevitabilmente produce affollamento, ma se cominciamo a diversificare e ridistribuire gli orari di lavoro possiamo diminuirlo. Per ora, quello rimane un “altro” modo di vivere, familiare alla classe operaia – gente che lavora di notte e che riesce comunque a mandare avanti una famiglia -, non alla classe media. Quel che chiamo open urbanism, urbanismo aperto è proprio questo: la sperimentazione delle diverse possibilità che abbiamo per costruire il nostro rapporto con la città.

    Un’alternativa alle risposte rigide, che spesso diventano permanenti. Anche sul piano politico, il pericolo più grande della pandemia è quello identificato da Giorgio Agamben: la naturalizzazione dello stato d’eccezione, il farsi permanente delle leggi e del controllo. Negli Stati Uniti, come reazione al terrorismo e agli attentati dell’11 settembre sono state introdotte leggi molto severe, ancora in vigore. Il pericolo oggi è reale e va scongiurato. In una società aperta l’emergenza non dovrebbe essere normalizzata, diventare permanente.

    Pare di capire che la pandemia abbia rafforzato ancora di più la sua convinzione – al centro di Costruire ed abitare. Etica per la città – che occorra costruire città più incomplete, con spazi non sovradeterminati nelle loro funzioni ma “ambigui”, flessibili, porosi. Eppure c’è chi oggi sostiene che la smart city – in cui forme e funzioni sono sovradeterminate a priori – sia anche più salutare, più resistente alle malattie. Come replica?

    Il problema non è la smart city di per sé, ma che tipo di smart city abbiamo in mente. E quale uso del potere della tecnologia.

    Anche qui conta molto il contrasto tra le città del Nord globale e quelle del Sud globale. In alcune città “povere” del Sud globale come Delhi o Lagos le reti di risorse e sostegno istituzionale sono piuttosto deboli nello spazio pubblico, e spesso chi ne ha bisogno riesce a ricevere assistenza solo usando il telefono, attraverso un buon uso della tecnologia, modellato sul contesto locale. Senza un telefono cellulare alcune comunità non avrebbero affatto informazioni fondamentali.

    Nelle cosiddette smart cities del Nord globale le tecnologie sono usate invece per il controllo e per l’isolamento, ecco perché in questo caso l’idea che le smart cities siano più salutari è un non-senso. In questo caso quel che puoi fare usando l’app giusta è non entrare mai in contatto con chi è potenzialmente esposto al Covid, in genere gente della working class, che si tratti di chi fa le pulizie in casa, di chi guida il bus, di chi raccoglie l’immondizia o di chi si prende cura dei nostri bambini. Con una app puoi evitare di entrarci in contatto. È forse smart? Non lo è, è un isolamento che diventa privilegio.

    La contrapposizione netta tra smart cities e città aperte dunque non mi convince, perché sembra presupporre un solo, unico uso della tecnologia. Un telefono cellulare è un pezzo di tecnologia molto diverso da una camera di sorveglianza, usata come avviene per esempio a San Paolo per evitare l’ingresso di un estraneo, uno della classe operaia in un posto che si ritiene non gli appartenga, in una “gated community”. Ma con un telefono possiamo interagire, creare, comunicare, creare una piccola rete informale online come pratica democratica. Sono entrambi strumenti tecnologici. Il problema non è la tecnologia, ma l’uso della tecnologia e il potere che deriva.

    Poco fa ha fatto riferimento alle tesi di Agamben sui pericoli dello stato d’eccezione. Tra gli strumenti per istituire, monitorare e far applicare lo stato d’eccezione ci sono, sempre di più, quelli tecnologici. La stessa idea di smart city è intimamente legata a un certo uso della tecnologia, tanto che in Costruire e abitare lei invita a diffidare di quella che definisce come “fantasia tecnologica”. Ritiene che nei Paesi a capitalismo neoliberale sia prioritario affrontare il “pericolo tecnologico”?

    Oggi il problema del capitalismo neoliberale non è la tecnologia, ma il fatto che in Paesi come gli Stati Uniti o l’Inghilterra questo capitalismo produce un welfare state così debole. Negli Usa devi essere molto ricco, e spesso bianco, per essere curato in un ospedale.

    Per la gente oggi è più importante questo che non lo stato della tecnologia. Il neoliberalismo ha creato società molto deboli nell’affrontare sfide ampie, complesse e difficili come quella attuale. L’Inghilterra è l’essenza del neoliberalismo in Europa ed è molto meno capace di contenere la diffusione del contagio rispetto a Paesi anche più poveri come la Grecia proprio perché ha un sistema sanitario così debole.

    Perché la Grecia e l’Italia, più poveri di noi, hanno svolto un lavoro migliore? Perché abbiamo disinvestito più di loro nella sfera pubblica. Quel che del neoliberalismo conta davvero sono questi effetti. Si prenda l’esempio della Germania, più simile per benessere e per grandezza all’Inghilterra: ha fatto molto meglio perché lo Stato è più forte e più efficace in ambiti fondamentali della vita comune.

    Per restare ancora sul neoliberalismo: in alcuni dei suoi libri precedenti – penso per esempio ad Autorità o a La cultura del nuovo capitalismo – lei ha sostenuto che il capitalismo finanziario consente al potere di sganciarsi dall’autorità, di abdicare all’autorità e all’accountability, con una sorta di divorzio. Ora, durante la pandemia molti governi hanno guadagnato ulteriore potere, gli esecutivi sono diventati più forti e meno vincolati. Anche in questo caso all’aumento del potere corrisponderà un’abdicazione o il contesto è così particolare che i governi dovranno rispondere delle loro azioni?

    Un esempio paradigmatico di questo distacco e scollamento è, sfortunatamente, quello degli Stati Uniti, che non hanno dispiegato una vera e propria politica nazionale contro la pandemia e che vantano un presidente che sostiene che il virus tutto sommato non sia un suo problema, suggerendo ai cittadini di iniettarsi sostanze nelle vene. Faccio notare che i Paesi che più si contraddistinguono per una maldestra e colpevole risposta al Covid – il Brasile, gli Stati Uniti e l’Inghilterra – sono quelli in cui il potere da tempo e con più evidenza ha divorziato dall’accountability.

    La contrapposizione tra smart cities e città aperte non mi convince

    So che a molti italiani la gestione della pandemia in Italia appare pessima, ma anche il presidente del Consiglio Conte può diventare un modello di accountability se lo si compara a Boris Johnson, che andrebbe paragonato semmai a Salvini, che non ha mai reso conto delle sue scelte.

    Ritiene che con la pandemia i cittadini – per esempio negli Stati Uniti o in Inghilterra – siano più inclini a rivendicare la trasparenza e la coerenza dei politici, che siano più portati a chiedere conto delle scelte da loro compiute, o che tendano a delegare di più alle autorità?

    Sia in Brasile che negli Stati Uniti, e direi in parte anche in Inghilterra, c’è un’enorme volontà popolare mossa da uno scontento profondo e che rivendica proprio questo: trasparenza nelle decisioni dei governi, conoscere i criteri e le scelte compiute. Il problema però è come rendere trasparenti e rispondenti anche quei regimi il cui potere è sì concentrato, ma che dispongono di meno risorse. Per il gruppo delle Nazioni Unite a cui ho fatto riferimento è una questione urgente e reale, che riguarda alcuni governi africani o dell’Asia meridionale, Paesi con poche risorse e scarsa trasparenza verso i cittadini. Vista da lì è come se la sua domanda diventasse meno cruciale, o addirittura un lusso.

    In Thailandia, un Paese molto popoloso ma con poche risorse – ci sono pochissimi ventilatori sul territorio nazionale – come affrontiamo la questione? Più povero sei e più complicata diventa la questione, più diventa un lusso. Collaboro da molti anni con l’Onu, ma negli ultimi 4 anni il mio coinvolgimento è cresciuto e ho compreso meglio la differenza tra Nord globale e Sud globale. Ci sono alcune questioni che ci paiono urgenti in un luogo e che non lo sono in un altro. Spesso si tratta di una questione di risorse. La sfida per me è verificare come mettere in pratica le proposte avanzate nel mio libro Costruire e abitare in posti che dispongono di poche risorse materiali e in cui ci si affida di più al potere dell’immaginazione per affrontare i grandi problemi, incluso quello del sovraffollamento.

    Costruire e abitare contiene molte proposte concrete per le città. Una parte è dedicata all’ambiente costruito, al modo in cui pianifichiamo gli spazi urbani. Crede che la pandemia cambierà il modo di disegnare e progettare le città? E come promuovere l’urbanismo aperto da lei invocato? Da dove partire?

    La pandemia ci esorta a ripensare funzioni, modi e materiali con cui progettiamo e costruiamo le case in cui viviamo, ci spinge verso unità immobiliari che possano espandersi e “distribuirsi” nello spazio nei periodi in cui c’è bisogno di separazione, ma che siano capaci di riaggregare i residenti quando non ci sia la necessità contraria.

    Un esempio specifico: abbiamo finanziato e costruito molti grattacieli di appartamenti per i poveri, secondo un modello abitativo ispirato a Le Corbusier, mentre avremmo dovuto immaginare strutture più distribuite, costruite a livelli più bassi, che permettano di adottare forme di distanziamento sociale nel caso di bisogno.

    È necessario rendere più poroso l’ambiente che lega il dentro e il fuori

    Oggi ci stiamo interrogando sul come ottenere la stessa densità abitativa di una torre di appartamenti in una struttura più diffusa e flessibile, riconfigurabile. Come farlo in modo economico e come farlo praticamente, con quali materiali: legno, pannelli, piuttosto che mattoni.

    C’è bisogno di un ambiente più aperto, adatto alle circostanze pandemiche o post-pandemiche. Si tratta di immaginare edifici molto diversi da quelli a cui siamo abituati. Non strutture rigide, come le torri verticali, che sono poco salutari e che come unico spazio in comune e di contatto tra i residenti hanno 2-3 ascensori, spazi chiusi perfetti per un virus.

    Si tratta di rendere più poroso l’ambiente che lega il dentro e il fuori, più orizzontale, costruirlo in modi più flessibili. Ecco una cosa che gli urbanisti potrebbero fare come risposta alla pandemia.

    Occorrono poi nuovi esperimenti nei trasporti e nei servizi pubblici, con l’uso di piccoli bus e tram, evitando di estendere ulteriormente la rete delle metro sotterranee. Il modello di Tokyo, una città molto densa, con abitazioni verticali, ma con medie di contagio basse ci dice inoltre che contano anche i comportamenti sociali adottati negli spazi urbani. Si tratta del “costruire” ma anche del modo in cui abitiamo, dell’ambiente fisico e dei comportamenti che scegliamo di usare.

    Il distanziamento sociale ha illuminato una delle questioni chiave del vivere negli ambienti urbani: la densità. La pandemia è come se ci intimasse di ridurre la densità, per esempio decentralizzando le città, ma lei stesso ha fatto notare che affinché sia energeticamente efficiente è utile che una città sia densa, “centralizzata”. Sul lungo termine le due esigenze rischiano di entrare in contraddizione?

    Non porrei la questione in termini così antitetici. L’obiettivo è la densità senza l’affollamento. Si può fare. La sindaca di Parigi ha adottato una formula molto ingegnosa per descrivere tutto questo, “la città dei 15 minuti”. Intende mantenere i vantaggi economici e sociali della densità, ridimensionando il problema dell’affollamento attraverso un uso dei trasporti meno problematico, che incentivi i residenti a camminare e andare in bicicletta. Un modello “distribuito” interessante.

    Per unire ambiente e salute, il pensiero verde e il pensiero salutare occorre pensare modi di vivere e strutture flessibili

    Alcune soluzioni prevedono invece investimenti massicci, che non ci sono necessariamente in una città come Lagos, per esempio.

    Sulla questione più ampia su cui mi sollecita: per unire ambiente e salute, il pensiero verde e il pensiero salutare, torno a dire che occorre pensare modi di vivere e strutture flessibili. Possiamo affrontare, rispondere e adattare le strategie alla diversa gamma di problemi posti dalla pandemia e dal cambiamento climatico praticando un urbanismo aperto, o tattico. A partire dall’idea che il problema centrale oggi non è la densità, ma il sovraffollamento.

    Passiamo ai comportamenti durante la pandemia. Una delle tesi centrali del suo libro Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione è che il cooperare sia una tendenza presente nei nostri geni, ma che allo stesso tempo sia una capacità che va esercitata, sviluppata, approfondita, imparata di volta in volta, un vero e proprio lavoro che richiede impegno. Guardando alle settimane di lockdown, direbbe che, isolandoci, la pandemia ci abbia fatto disimparare l’arte della cooperazione, o che abbia prodotto una spinta contraria?

    Non potendo farlo dal vivo, la gente ha sviluppato nuove reti usando il potere degli strumenti di comunicazione, sempre più efficaci. In città come Delhi e Lagos, in cui lo Stato e le istituzioni funzionano meno che altrove, si sono sviluppate nuove abilità nel cooperare e nel comunicare. La gente impara e ha imparato a cooperare. Superando alcune barriere. Come “ex americano”, penso alla questione razziale negli Stati Uniti e al modo in cui l’educazione possa formare alla collaborazione o disincentivarla, o a un presidente per il quale i neri sono tutti criminali.

    Negli ultimi giorni abbiamo assistito invece a tante manifestazioni, a richieste per maggiore cooperazione. Sono cresciuto in un ghetto di Chicago e sono rimasto sorpreso dal vedere la capacità di mantenere l’ordine durante molte proteste, come ci sia stata relativamente poca violenza in certi quartieri considerati difficili, socialmente più promiscui. Nei quartieri socialmente più isolati, in cui c’era già meno cooperazione e meno bisogno di cooperare, si è registrata invece più violenza. I dati e le tendenze di questo periodo confermano che di fronte a un’emergenza si impara a cooperare, dove ci sono reti di comunicazione.

    Nel libro Insieme lei enfatizza l’importanza dei rituali, uno dei modi di cui disponiamo per strutturare scambi simbolici, per stabilire legami sociali solidi, resistenti. Ritiene che la pandemia abbia prodotto e spinto alla costruzione di nuovi rituali?

    È una domanda molto interessante, ma temo di non conoscerne la risposta. Forse è ancora troppo presto per dirlo. Mi vengono in mente le reti di comunicazione stabilite tra chi era malato e bisognoso di aiuto e chi forniva quell’aiuto, comunicazioni che hanno assunto anche i tratti di un rituale. Ma allo stesso tempo riconosco la rottura del rituale della morte, privato dei sacramenti, una novità che le persone hanno finito per accettare, anche se malvolentieri (non credo che ne deriverà un ritorno alla religione).

    Il sentimento di vulnerabilità non dovrebbe riguardare soltanto i più fragili, gli anziani, ma la società nel suo insieme

    I rituali secolari sono differenti. Riguardano non il trascendente, ma il trans-relazionale. Hanno valore immediato, non posticipato. Una riflessione generata dalla pandemia – dunque non un rituale – riguarda il rapporto tra le generazioni.

    Racconto una cosa personale. Sto per andare in pensione. Ho una certa età. Ho parlato con molti amici più o meno della mia età, settantenni e ottantenni o giù di lì, e abbiamo constatato come la nostra specifica vulnerabilità sia divenuta la misura di tutto.

    Capisco che la società vada riconfigurata in modo che non cada vittima di nuovo di questa e simili malattie, ma il sentimento di vulnerabilità non dovrebbe riguardare soltanto i più fragili, gli anziani, ma la società nel suo insieme. La pandemia ci costringe a fare i conti con la morte, ma dovremmo pensare a come proteggere i giovani, la società futura, non solo i vecchi. È una logica differente.

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