Sono nata a Livorno, vicino al mare. Nella vita ho cambiato molte città impacchettando ogni volta le radici da cui sono nata: un pizzico di toscanità che viene fuori ogni tanto, l’amore per la nebbia della mia parte lombarda, le spalle larghe delle mie donne istriane. Ho vissuto in Belgio un po’ di anni e ho imparato cosa vuol dire non corrispondere agli stereotipi, quelli che all’estero vogliono gli italiani bassi, scuri di capelli e magari un po’ malavitosi.
Io e Torino ci siamo annusate a lungo. Non è stato amore a prima vista: di Torino non ci si innamora – diceva Cesare Pavese –Torino si ama. Da più di 15 anni questa è la mia città. C’è nata mia figlia. C’è la mia casa, ci sono i miei amici, i miei mercati preferiti, i portici che riparano dalla pioggia, la bellezza della sua architettura, i fiumi che si incrociano, la vita che scorre. A Torino ci sono tante città, una dentro l’altra come le bamboline russe e ci si sente a casa anche se si viene da fuori. A Torino c’è la capacità di inventare e rinnovarsi, anche in modo doloroso. C’è un modo unico di affrontare i problemi e tentare di risolverli con pragmatismo e concretezza. E con la sapienza operaia del mettersi alla prova, magari sbagliare ma poi inventare qualcosa di nuovo.
Manca il mare ma è davvero l’unico, vero difetto di questa città. Per capire Torino ci vogliono tempo e gambe buone. Io ho usato l’uno e le altre. Dal 2006 sono Assessore della Giunta Comunale e mi sono occupata di periferie, di progetti di integrazione, di arredo urbano, di riqualificazione dello spazio pubblico. Ho imparato ad andare da Lucento a Via Artom senza passare dal centro e senza navigatore, preparandomi, forse, ad un futuro da taxista di cui sono molto fiera. Nella mia vita ho lavorato, progettato, studiato, formato, scritto (Curriculum). Ho sempre fatto fatica a spiegare a mio nonno che lavoro facevo. Mi sono occupata di Europa, di relazioni internazionali, di città, di politiche culturali, di intercultura, di sviluppo locale. Ho lavorato qui e altrove. Ho viaggiato molto e mi è venuta la paura dell’aereo. Però ho guardato Torino anche con gli occhi di altre città europee.
Ho sempre pensato che la politica fosse un modo di guardare il mondo e di mettersi a servizio. Politica è una bella parola, così come democrazia. Se gli diamo il senso giusto e la facciamo in tanti. E’ un modo, intanto, di essere cittadini e di esercitare responsabilità. Anche responsabilità è una bella parola. Come etica pubblica. Come umiltà. Come rigore. Come sobrietà. Giustizia sociale. Uguaglianza. Legalità. Sono tante le parole belle, se riusciamo a dargli il giusto significato e se diventiamo capaci di trasformarle in azioni e cose da fare.
Sono iscritta al Partito Democratico dal 2009 (Perché mi sono iscritta al PD), dopo una vita militante: ho scelto di innestarmi in un progetto politico difficile, complicato ma anche sensato per affrontare i mali di questo nostro paese. Io porto scarpe comode, perché ascoltare la città significa camminarci in mezzo. Ho sempre borse grandi e pesanti, perché deve starci dentro almeno un libro che leggo quando non ho voglia di pensare da sola. Mi piace immensamente ascoltare le storie, perché la politica è innanzi tutto umanità e empatia. Deve piacerti, l’umanità, per occupartene sul serio.
Cucino molto e assaggio tutto, perché il cibo è il modo più semplice per digerire gli altri. E il mescolamento dei cibi è la migliore metafora per raccontare come, nella storia dell’umanità, ci siano stati continui intrecci. Noi non mangeremmo le melanzane se non ci fossero stati gli arabi. Non avremmo idea di cosa sia la polenta se non fosse arrivato il mais dal Perù (La lega e il cibo extra-comunitario), o il pomodoro, i fagioli, il cacao. In quel posto che non esiste che è la Padania non si mangerebbe polenta taragna con le salsicce se non ci fosse arrivato il grano saraceno dalla Turchia e il maiale dalla Cina.
Questa sono io. Almeno quello che voglio raccontare perché ciascuno di noi è composto da mille identità intrecciate che compongono la propria storia. A dispetto di chi pensa che l’identità sia una e per sempre e abbia a che fare solo con le proprie origini etniche o geografiche. Mi piace pensarmi un pezzo del puzzle, la cui totalità va disegnata insieme ad altri. Perché agire da soli è noioso e abbastanza inutile.
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