Martedì 08 aprile 2025
Altre Urbiquità #2
 
Tre città cinematiche
Scritto da: Lorenzo Tripodi

Altre Urbiquità è una serie di tre articoli in cui Lorenzo Tripodi racconta le esplorazioni e le traiettorie teoriche che hanno portato al suo ultimo libro "Urbiquità - La città ovunque" (Agenzia X, 2024). Il primo articolo si legge qui.

In Urbiquità racconto la parabola dell’urbanizzazione planetaria attraverso le storie di tre città occidentali, con divagazioni attraverso il tessuto e i movimenti che le collegano. Una traiettoria personale e situata, che prende spunto da una domanda specifica intorno al mutato rapporto tra spazio e immagini quale fattore determinante nel ridefinire l’urbano. La scelta di concentrarsi su trasformazioni e conflitti leggibili attraversando lo spazio pubblico e i marciapiedi di Firenze, Berlino e New York non preclude di fatto l’osservazione dell’intreccio e l’interdipendenza progressivamente più sostanziale di fattori che si estendono su scala planetaria e hanno una natura sempre più fluida, dinamica, accelerata. Un evidente corollario della teoria dell’urbiquità tecnologica è che non sia più possibile immaginare una relazione speculativa, produttiva, o sensoriale con un luogo – urbano o non urbano che sia – senza che essa ci riconduca a una dimensione complessiva in cui cause ed effetti, bisogni e affetti si trovino ontologicamente connessi e indissolubili, come appare ormai evidente nell’era delle piattaforme e del big data.


Sono partito dalla culla del Rinascimento, rintracciando il blueprint prototipico della città cinematica nella Firenze forgiata dalla circolazione degli sguardi. Già agli albori dell’epoca moderna, Firenze assunse un ruolo trainante nel processo di distribuzione planetario delle immagini e delle informazioni attraverso dispositivi innovativi che vanno dal perfezionamento della prospettiva, all’ottica, fino alla lettera di cambio che consentì lo sviluppo del commercio e della finanza internazionale. La parabola che origina nella luminosa alba di una civilizzazione delle immagini, diventando manifesto della relazione primordiale tra arte e capitale, si risolve nella sua nemesi quando, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, la produzione di immagine inizia a fagocitare la ragione d’essere della città, spingendo a una crescente inabitabilità del centro storico.

La mia esplorazione prende avvio negli anni Novanta, in cui emergeva forte il conflitto tra movimenti sociali e studenteschi che rivendicavano un uso sociale dello spazio pubblico e una nuova dimensione estrattiva dell’economia culturale intenta a capitalizzare il valore del setting urbano attraverso lo sfruttamento commerciale dell’immagine. Primo caso di un centro storico dichiarato nella sua interezza patrimonio UNESCO, Firenze si trasforma in un laboratorio d’avanguardia nella rinascita dei centri urbani nel quadro delle economie simboliche. Processo che genera una espulsione progressiva dal centro di studenti e ceti meno abbienti, aprendo anche una breve stagione di appropriazione del consistente patrimonio industriale in abbandono attraverso l’azione dei centri sociali e altri movimenti dal basso. Movimenti che verranno ad essere presto drasticamente ridimensionati e sterilizzati dalla violenza del mercato e dalla repressione, ma, come arrivo a concludere, anche dall’irruzione di internet e dei social media. Antesignana dei processi di turistificazione, foodification e disneyficazione dell’heritage che diventeranno presto ubiqui, Firenze si qualifica come archetipo primitivo dell’urbanistica cinematica.

Da qui il mio viaggio si sposta a Berlino, che negli anni Novanta sembrava mostrare aperture differenti verso un modello di città inclusiva, accogliente, aperta a visioni di sviluppo che trovava espressione in innumerevoli forme di produzione spontanea e creativa. Le pratiche insorgenti che a Firenze apparivano marginali se non interstiziali si manifestavano qui in maniera molto più estesa sull’intero territorio urbano, caratterizzandone sostanzialmente l’identità.

Uscendo dalla prolungata crisi postbellica Berlino si ricicla negli anni Novanta come territorio di sperimentazione per alternative sostenibili e innovazione sociale, dispiegando nuovi immaginari, perseguendo caparbiamente modelli alternativi di produzione simbolica e culturale,. Di Berlino Urbiquità racconta l’incessante, emozionante lavorio delle pratiche quotidiane – creative, di resistenza, di sopravvivenza – il dispiegarsi di immaginari dal basso, la costruzione di commons tangibili e intangibili e la critica dialettica che si dipana nell’appropriazione quotidiana e fisiologica della città nell’instancabile riassemblarsi del sociale. Presto però la storia urbana di Berlino viene inesorabilmente riassorbita nelle irresistibili dinamiche del processo di estrazione planetaria guidato dalle nuove entità transnazionali del capitalismo delle piattaforme e della finanza transnazionale. Essa ci mette di fronte all’inesorabile processo di appropriazione ed estrazione di valore da parte del sistema semio-capitalista – pura e semplice alienazione, in termini marxisti – che si esplicita nella gentrification dei quartieri rigenerati da quegli stessi immaginari e pratiche, nell’espulsione delle componenti più deboli, nell’impoverimento delle classi medie, nella precarizzazione del lavoro e nello sfruttamento, e nella complessiva erosione del diritto alla città. A partire dall’inizio del nuovo secolo il processo di riconquista della creatività spontanea si dispiega in maniera sempre più sistematica, trasformando quello che viene prodotto dalla creatività sociale in plusvalore da estrarre nella economia della città, che si ritrova lanciata nell’empireo delle città creative, trasformandosi in incubatore globale di creative industries e rivalorizzando progressivamente il patrimonio costruito come campo di speculazione.

A questo punto il libro  si rivolge alla capitale globale dell’industria dell’immagine e di quello che potremmo altresì definire l’impero dell’immagine, esaminando New York City, cinematic city per antonomasia e città-emblema della rivoluzione verticale. La metropoli che ha materializzato nell’esuberante erezione nelle sue superfici comunicanti l’egemonia del semio-capitale viene còlta nel particolare frangente di una crisi devastante che si snoda tra due atti tragici: primo, l’attacco alle Torri gemelle, evento che con spiazzante cinismo Karl Heinz Stockhausen ha osato definire la più grande opera d’arte della storia, riconoscendo seppur con cattivo gusto e tempistica inopportuna la performance simbolica che l’atto terroristico infliggeva a una grande potenza che più di qualsiasi altra fonda il suo potere sul dominio delle immagini; secondo, la crisi dei mutui subprime, con il crollo di Lehman Brothers e le ulteriori ripercussioni destabilizzanti negli assetti del capitalismo globale – crisi che ha a suo modo frantumato la facciata dell’impero delle immagini, polverizzandola, ma anche accelerandone la riconfigurazione proteica in una nuova consistenza schiumosa e urbiquitaria, e dimostrando ancora una volta la straordinaria capacità del capitalismo di rigenerarsi dalle sue ceneri. 


Times Square rappresenta l'emblema della cancellazione e della sterilizzazione della viscerale, corporea ed erotica vita pubblica di una New York che fu.


Il mio viaggio nello spazio urbano di New York comincia dal frastornante scenario di Times Square. La forma stessa di Times Square rappresenta l’idea di attraversamento quale essenza propria dello spazio pubblico nordamericano. A differenza della piazza di stampo europeo, che esalta la funzione dello spazio aperto come luogo di sosta, ritrovo e conciliabolo, il termine square nella toponomastica statunitense indica un crocevia di importanza primaria, l’intersezione di due arterie principali. Times Square incarna in toto, anche dal punto di vista morfologico, questa logica: si tratta letteralmente di una “X”, spazio dinamico che esiste architettonicamente in virtù del movimento, del flusso, del cambiamento. Provate ad immaginare Times Square a schermi e luci spente e senza traffico: svanirebbe, letteralmente. Cuore pulsante di Manhattan, analogamente alla Potsdamer Platz Berlinese, Times Square è sempre stata nodo centrale nella geografia culturale newyorkese, e forse della intera nazione americana, il luogo dove si festeggia l’arrivo del nuovo anno, il centro del distretto degli spettacoli, dell’entertainment, dei media. Tutte le contraddizioni tra puritanesimo e disinvoltura morale della nazione contenute in un unico luogo, in una paradigmatica dialettica tra etica del denaro e morale del sesso. Times Square rappresenta da sempre l’essenza stessa della vita pubblica newyorkese, caratterizzata da un’euforica iperattività, densità, diversità di offerta, simmeliana promessa di anonimità e intensificazione della stimolazione nervosa. Times Square rappresenta la visione definitiva della città sovraesposta, ribalta di corporate power transnazionali e di media center globali, ma anche emblema della cancellazione e della sterilizzazione della viscerale, corporea ed erotica vita pubblica di una New York che fu.

A partire dagli anni Ottanta, Times Square è oggetto di una serie di politiche e investimenti volti a riqualificare uno dei più viscerali e controversi spazi della città, trasformandolo in spazio di intrattenimento globale. La “san(t)ificazione” di Times Square avviene attraverso un processo drastico che ha portato alla cancellazione di molte anime e qualità del luogo. Un processo in cui la Disney Corporation ha avuto un ruolo parallelo a quello delle politiche repressive-militari della zero tolerance propugnata dal sindaco Giuliani, istituendo un laboratorio di urbanesimo neo-liberista di avanguardia planetaria, dove si è sperimentato il modello del Business Improvement District e la privatizzazione totale dei servizi locali – persino nell’amministrazione della giustizia.

Le osservazioni svolte in queste città agli albori del nuovo millennio convergevano nel mostrare una città che andava a configurarsi sempre di più come un palinsesto televisivo. Intorno a un nuovo spazio pubblico denotato come spazio di esposizione, risultato di un’urbanistica cinematica, in cui le forze trainanti e strutturanti della forma urbana emergente erano quelle dell’industria dell’intrattenimento e delle tecnologie informatiche, in stretta simbiosi con il complesso militare. Di “disneyficazione” parlavamo esplicitamente già all’inizio degli anni Novanta, preconizzando la deriva del centro storico di Firenze trasformato in una monocoltura turistica intriso di iperrealità à la Baudrilliard, ma era evidente che il modello del parco a tema funzionava anche per descrivere la deriva di Berlino, trasformata in un Kindergarten per pionieri della creatività e serbatoio di lavoro a buon mercato per start-up e angel investors, come nel distretto dedicato di Mediaspree. Il crescere dell’investimento delle corporazioni legate all’industria dei media, Sony, Warner Bros, Viacom, JCDecaux, eccetera, era visibile nell’emergere dei brand nel paesaggio urbano, fino al branding della città stessa, e nel crescente valore scenografico e trasmissibile (broadcastable) del paesaggio urbano.

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