Viaggi / Una città che non lascia indietro nessuno

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    “… tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”.

    Italo Calvino, Le città invisibili

     

    Cos’è una città che regala possibilità? È quella città dove le strade sembrano tessere un intrico di quelle che Baudelaire chiamava le corrispondenze, andate e ritorni, risposte a domande che non sapevamo di farci ma per le quali attendevamo lumi da sempre.

    Emil Cioran, esule romeno accolto in terra francese e da questa adottato, diceva che sotto il cielo di Francia viveva un’umanità che “respirava nel possibile”. Per usare la sua lingua, o meglio, quella che lui aveva mutuato da una città che gli aveva spalancato le braccia, “une humanité aboutie”, letteralmente umanità realizzata.

    “Un paese è grande, più che per l’alto grado di fierezza dei suoi cittadini, per l’entusiasmo che ispira agli stranieri, per la febbre che trasforma genti nate sotto altri cieli in satelliti dinamici”, scrive sempre Cioran, in quella dichiarazione d’amore alla terra francese, crudele e spassionata come solo i grandi amori sanno essere, che è il libro De la France.

    Verificare che quanto scritto da Cioran corrisponda al vero non è la nostra intenzione, quanto salire su quello slancio d’irrequietezza, su quella carica di vitalità che la città di Parigi aveva donato a uno scrittore che considerava l’essere nato un inconveniente.

    Un orizzonte che colmi l’immaginario, soddisfi l’inquietudine dei sensi, con una pienezza estetica e narrativa. Diceva Calvino: “Quanto a me, sto bene solo quando non ho da pormi la domanda: ‘perché sto qui,’, problema da cui si può prescindere di solito nelle città che hanno un tessuto culturale così ricco e complesso, una bibliografia così sterminata da scoraggiare chi fosse tentato di scriverne ancora”.

    La città che offre possibilità è allora quella che fornisce un paesaggio, una scenografia nella quale muoversi. Un immaginario, che si nutre di peregrinazioni solitarie ma anche del sentirsi parte di qualcosa di grande, più grande, uno spazio all’interno del quale non ci si limita a spostarsi da un punto all’altro ma si è partecipi di un dinamismo collettivo, di una comunità.

    Decenni prima che si aprisse il dibattito sull’inclusione, due stranieri s’erano sentiti a casa proprio a Parigi, in una delle città più escludenti d’Europa. Perché quella città offriva loro spazio e tempo, declinati nelle loro infinite opportunità. Il dono dell’invisibilità, come diceva Calvino. Quello di sparire da un luogo e ricominciare poco più in là. La possibilità di ricominciare e rinascere ogni qualvolta lo si desidera. Il tempo di ripensarsi e lo spazio per ritrovarsi. O ancora, più semplicemente, lo spazio e il tempo compressi della metropolitana, che a Parigi come in poche altre capitali, consente di avere una città intera in una mano, di spostarsi con leggerezza e velocità da un punto all’altro della capitale.

    Ieri, come oggi, una città che possa dirsi casa è quella che riesce non solo a dare risposte ma anche continuamente a far nascere nuovi interrogativi, in un’osmosi che non s’arresta.

    Una città che sia in grado di sfuggire all’isolamento, prendendosi gioco dei confini dello spazio (un esempio sono, ancora una volta, le linee metropolitane di città come la suddetta Parigi, Bilbao o Porto che si allungano nelle periferie o fino agli snodi più importanti, come paesi vicini o aeroporti, senza curarsi pedissequamente della geografia), ma anche di quelli del tempo, continuando a coltivare esperienze virtuose del passato e sapendo anticipare le necessità del futuro.

    Qui alcuni esempi tutti nostrani, di realtà innovative, immaginifiche e utopiche, nel senso positivo del termine: le MicroAree di Trieste che, in seguito all’intuizione di Basaglia, coltivano il programma di promozione del benessere e della coesione sociale  in forma congiunta con l’Area Sociale del Comune di Trieste, dalla locale Azienda sanitaria e dall’Azienda territoriale per l’Edilizia residenziale (ATER) con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita degli abitanti residenti in alcuni rioni con una forte concentrazione di disagio sociale attraverso la presenza costante di operatori sanitari nei caseggiati più bisognosi; l’associazione di Maestri di Strada di Napoli che, passo dopo passo, scavando lentamente come acqua nella roccia, sta salvando intere generazioni dalla dispersione scolastica, senza ipotecare il futuro, ma costruendolo; in ultimo, la più piccola, in tutti i sensi: la città bambina nata nel cuore della Puglia, nell’area della città metropolitana di Bari, precisamente a Corato, dove ci si allena a mantenere uno sguardo bambino, un cuore grande ma piccolo piccolo, con un palcoscenico dove, per entrare, tocca abbassare la testa e mettersi all’altezza dell’infanzia. Interessante, e già con risultati positivi, è il modello delle città30, che punta alla sicurezza stradale di ogni cittadino e alla possibilità di vivere la strada in tranquillità, con lo sguardo volto alla necessità di accelerare la transizione ecologica. 

    Una città che offre possibilità è quindi una città che non lascia indietro nessuno; che abbia porte aperte e corridoi ideali tra case e scuole, dove il patto educativo di co-responsabilità non sia solo un foglietto da consegnare e riportare firmato all’inizio di ottobre, ma un vero e proprio atto di nascita di una comunità educante, da rinnovare ogni anno, dove la scuola prenda il coraggio di bussare in quelle case che, attraverso i loro figli, mandano richieste d’aiuto, e che i genitori siano invitati più spesso a vedere e partecipare a quello che succede in un’aula.

    Idee, insomma, impensate, lontanissime da quel modello ormai stantio della città dei 15 minuti, virtuoso sui manuali e sulle riviste di settore ma irrealizzabile nel nostro oggi, almeno finché le attuali abitudini economiche e consumistiche ci ordineranno di acquistare una matita dall’altro capo del mondo e farcela recapitare a casa, e ricevere quotidianamente la visita di quattro magazzinieri. Città che possono anche essere chiuse alle automobili ma di certo non ai corrieri o, ancora peggio, ai rider, ostaggio delle aziende della logistica, a loro volta inchiodate al giogo dei nostri clic compulsivi.

    Sono, questi ottimistici 15 minuti, inevitabilmente irrealizzabili, se inoltre per i servizi di base occorrono almeno tre quarti d’ora in numerose aree del Paese: un esempio, la cosiddetta “diagonale du vide”, una linea trasversale che taglia in due la Francia, mettendo insieme tutte quelle zone dove le scuole si svuotano, gli ambulatori chiudono, i paesi diventano dormitori o città fantasma; o in Italia, i punti nascita e i reparti di Chirurgia ordinaria completamente chiusi in alcune aree interne, come nell’intera provincia di Brindisi, o ancora i reparti di Chirurgia e Ortopedia chiusi in diversi paesi della provincia di Lecce, una condizione che fa della parte d’Italia più sovraccarica di turisti e bagnanti nei roventi tre mesi estivi una landa desolata dove rompersi un braccio può diventare una tragedia.

    Le aree metropolitane corrono allora il rischio di fagocitare se stesse, nella spasmodica ricerca di generare mobilità, attrarre arrivi e partenze, incrementare il proprio potenziale di svendita, trasformandosi in non luoghi, blateranti artificiosità per chi li attraversa, pericolosissimi e deludenti per chi cerca di restarvi. La città diventa quella che fa finta di non vedere la sua umanità, i suoi residenti, chi cerca ordinarietà e stabilità, inseguendo la folla in cerca di esperienze ed esoticità.

    Allora, qual è la città che regala opportunità, quale la città che include, accoglie e mi consente di “respirare nel possibile”? L’utopia: una città che consente di continuare a farsi domande, pur garantendo a ciascuno dei suoi abitanti le risposte; un luogo che mi permetta di sentirmi invisibile, ma che si assicuri che io sia visto.

     

    Immagine di copertina di Sean Foster da Unsplash

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