Viaggi. Portogallo fra propaganda, miseria e integrazione

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    Nell’ultima settimana di aprile ho visitato il Portogallo con la mia compagna: tre giorni a Lisbona e tre giorni a Porto. È stata una vacanza in cui abbiamo provato a fare tutto ciò che si dovrebbe fare, secondo le guide e gli stereotipi, quando si va in Portogallo: abbiamo mangiato pesce e bevuto porto, visitato le chiese e i monumenti più famosi, passeggiato lungo i fiumi (Taiga e Duero), abbiamo pure “scalato” Sintra per arrivare in cima al Castel Do Mouros. In generale, pur consapevoli dei nostri ristretti orizzonti da turisti – sia temporali che cognitivi –, abbiamo cercato di trarre il più possibile da un’esperienza che, in definitiva, c’ha fatto innamorare di una terra che non conoscevamo. Anche il solo camminare fra le vie di queste città, a mio avviso, vale il prezzo del soggiorno: Lisbona e Porto sono entrambi luoghi dalle architetture incantevoli, costellate di edifici in stile liberty che ubriacano l’occhio del passante grazie alle loro forme, geometrie e – soprattutto – colori, che si esaltano nel contrasto e nei raffinati motivi che riempiono le tradizionali piastrelle in ceramica (gli azulejos). Insomma, le ragioni che possono rendere appagante una vacanza anche breve come la nostra, in Portogallo, sono tante e noi abbiamo potuto scoprirne solo una manciata, per quanto significativa; ma io non sono un travel blogger (purtroppo) e quindi non è di cibo, fado o Torre di Belem che voglio parlare in questo pezzo. No, se sono qui a scrivere è per via di alcune riflessioni maturate osservando anche la società portoghese, la sua conformazione e le interazioni che la compongono.

    Vado al punto: se provenite dall’Italia e guardate la gente intorno a voi a Porto o Lisbona – intendo quella del posto e non i turisti, che sono un botto e quasi sempre italiani – noterete forse abbastanza in fretta la natura multietnica della popolazione portoghese. Infatti, sebbene rappresentino comunque una minoranza all’interno di una società che è di fatto bianca come in tutte le nazioni europee, la presenza di persone di colore – soprattutto di origine africana e sudamericana, ma anche mediorientale e asiatica – è piuttosto consistente e facile da rilevare. Non è su questa presenza in sé che voglio soffermarmi, però, anche perché non è nulla di sorprendente se si pensa alla posizione geografica e al passato colonialista portoghese (ci torneremo); a colpirmi è stata piuttosto l’impressione di una maggiore armonia, una migliore integrazione, fra queste persone e quelle dalla pelle bianca – almeno rispetto a quanto sono abituato a vedere nelle città italiane. So che il tempo di osservazione su cui baso queste riflessioni è troppo breve e gli esempi che sto per citare non possono certamente costituire un campione definitivo e affidabile, ma nei giorni trascorsi lì ho assistito a diverse situazioni che hanno rinforzato questa sensazione: ho visto comitive composte da ragazzi bianchi e neri mentre guardavano la partita al pub; donne con l’hijab conversare con donne bianche da un balcone all’altro nelle strette stradine del quartiere Principe Real; ragazzini di colore e non, giocare a pallone insieme nelle piazze; un gruppetto di scolari che andava a prendere il treno, composto da più ragazzine nere e una bianca. A risaltare era, per me, il fatto che apparissero tutte e tutti perfettamente a loro agio, come se la semplice convivenza fra persone dalla pelle diversa sia una roba naturale, nell’ordine delle cose, e non qualcosa che rubi l’occhio del lisbonese (o del portuense) medio e che lo induca a dire, vedendola: «Ah, stanno cambiando i tempi!».

    «Bene, tutto molto bello», direte; «quindi società portoghese top e modello da imitare? È questo il punto?». Beh, no, non è questo; il punto è che di solito non è tutto oro quel che luccica, e probabilmente non lo è nemmeno in Portogallo. Se è vero che camminare per la prima volta a Lisbona e Porto può darti l’idea di una popolazione più avvezza alla buona convivenza e all’integrazione fra individui di etnie diverse, infatti, è vero anche che è molto facile accorgersi della prevalenza di persone di colore fra quelli che sono gli emarginati e gli scarti della società.

    Lisbona in realtà riesce abbastanza bene in quel compito portato avanti da tutte le grandi città turistiche europee, che consiste nel provare a nascondere il più possibile i poveri alla vista dei turisti e dei non-poveri che ne visitano le aree più belle e commerciali, tipo Bart Simpson che nasconde la roba inutile sotto il letto o dentro l’armadio cantando insieme a Shary Bobbins. Non ne vedi tanti muovendoti per le vie più importanti, a parte quei volenterosi ragazzi che provano a venderti il fumo o i classici rivenditori ambulanti sempre sorridenti; tuttavia, basta grattare leggermente la superficie: è sufficiente andare in quei posti chiave, che equivalgono di fatto a guardare sotto il letto di Bart. L’ultima mattina eravamo a prendere il pullman per Porto dalla stazione degli autobus, caotica e piena di gente che andava e tornava; mancavano cinque minuti alla partenza ma io dovevo pisciare e l’autista, tranquillo, m’ha detto che c’era il tempo per andare in bagno. Per arrivarci dovevo scendere delle scale e accedere al sottopassaggio che collega la stazione al centro commerciale adiacente. Scendendo, ho percepito come un cambio d’atmosfera: dal sole forte, dal costante movimento e dal brusio della superficie, stavo entrando in una dimensione del tutto diversa, e cioè più fredda, più calma, più zitta; arrivato giù, ho scoperto che quella del sottopassaggio era davvero la realtà capovolta, abitata dai reietti del mondo di su. Lungo tutto quell’ampio corridoio semibuio potevi vedere tappeti e sacchi a pelo disposti per terra o sulle panche a ridosso delle mura; al loro interno o sopra di essi, alcune decine di uomini, donne e bambini che dormivano, riposavano o se ne stavano seduti a guardare te che passavi, negli occhi una sfumatura di tristezza, rabbia repressa, oppure proprio il nulla, nessun sentimento verso la vita, solo una profonda, irreversibile rassegnazione. Ho camminato fra quelle schiere di tappeti e letti improvvisati come il visitatore di una terra aliena, nel silenzio. Trovato il bagno, sono entrato: era in ottime condizioni, quello sì. (Cosa puoi pensare, a quel punto, se non che teniamo più alla cura dei cessi che non a quella delle persone in miseria?). Ho pisciato, sono uscito dal bagno, ho rifatto la mia sfilata tra i fantasmi e sono asceso nuovamente al mondo che fa finta di niente, abitato da quelli che si raccontano che va tutto bene. L’autista era lì che m’aspettava, al sole, davanti all’entrata del bus. M’ha chiesto se fosse tutto ok, ho risposto «Sì, sì» e siamo partiti. Colore della pelle nel sottopassaggio: non c’è bisogno di dirlo, vero?

    La povertà estrema è una piaga che colpisce anche i bianchi, ovvio; tuttavia, diciamo pure che si tratta di una condizione che sembra avere una predilezione per le cromie della pelle più scure. Del resto, si sa: «se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo», in Portogallo come nel resto del mondo; per cui, se sei una persona di colore, puoi star certo che le tue possibilità di vivere in miseria o – se riesci a trovarlo – di fare un lavoro umile o consumante, magari pagato a nero, siano abbastanza più alte rispetto a quelle di una persona dalla pelle bianca. Non si tratta di sfiga, però, bensì di fenomeni sociali originati da cause storiche e politiche; e se parlare di sfortuna per descrivere la situazione di emarginazione di certe minoranze demografiche è sbagliato, additare queste ultime come responsabili dei mali che affliggono la popolazione occidentale (bianca, s’intende), è da stronzi.

    Andre Ventura è il corrispettivo portoghese di Salvini, Meloni, Abascal, Le Pen, ecc. ecc. Soffia sul fuoco della rabbia di quelle classi bianche che vedono dissiparsi i propri redditi e le proprie certezze in quest’epoca di sprofondamento economico e offre loro un nemico facile e subito riconoscibile. «Odia il nero», gli dice; «che sia proprio nero o solo un po’, portoghese o straniero, tu odialo e starai meglio». Le aggressioni a sfondo razzista in Portogallo sono aumentate in percentuale significativa negli ultimi anni, come riportato da varie organizzazioni umanitarie come Amnesty International, ed è difficile non leggere una qualche correlazione fra queste e l’ascesa del partito di estrema destra di Ventura (“Chega!”, che significa “Basta!”), impostosi alle ultime elezioni politiche del Paese come terza forza parlamentare col 7% dei voti. Ho letto di lui e della sua propaganda violenta nei giorni trascorsi lì, per comprendere un po’ meglio il contesto che stavo visitando; già a mezzora dal mio arrivo a Lisbona, comunque, m’era bastato vedere un mega manifesto elettorale affisso in una rotonda, nei paraggi dell’aeroporto, per capire lo stile dialettico del suo partito. Nel manifesto spiccava un primo piano di Ventura e, più piccole, le facce di altri politici (presumo) suoi rivali, sbarrati con una X rossa. Hashtag “Vergonha” e poi, a caratteri cubitali, la scritta “Portugal precisa de uma limpeza!”, che vuol dire: “Il Portogallo ha bisogno di una pulizia!”. È affascinante vedere coi tuoi occhi come certe strategie di comunicazione politica, tutte punti esclamativi e veleno, s’assomiglino fortemente da un posto all’altro, al punto che sembra di guardare gli stessi manifesti, gli stessi post, le stesse facce…

    In quei giorni, in Portogallo, si celebrava la Rivoluzione dei Garofani, festività nazionale per ricordare la caduta del regime fascista di Salazar, un po’ come la nostra Festa di Liberazione; anche il giorno dell’anniversario è lo stesso, il 25 aprile, ma a parte questa coincidenza possiamo dire che si tratta di due eventi storici avvenuti con modalità piuttosto differenti. In generale va detto che è una ricorrenza importante, molto sentita nel Paese, perché la Rivoluzione dei Garofani segnò la fine dell’epoca autoritaria, illiberale e colonialista del Portogallo. Proprio la refrattarietà a concedere l’indipendenza alle popolazioni colonizzate fu uno dei motivi che alimentò la rivoluzione, poiché costringeva il Portogallo a impegnarsi in conflitti e guerre contro le forze indipendentiste di quei Paesi, spendendo risorse e investimenti a scapito di una situazione economica interna sempre più difficile. Con la caduta del regime, il Portogallo concesse finalmente l’indipendenza anche agli ultimi avamposti coloniali che gli erano rimasti, liberando così dalla propria presenza quei territori che aveva occupato per secoli e sul cui sfruttamento aveva basato gran parte della propria crescita economica e del proprio prestigio nazionale. Uno sfruttamento tutelato con la forza e attraverso la sottomissione di quei popoli, a cui non rubava soltanto le risorse materiali ma anche quelle umane: il Portogallo fu infatti uno dei Paesi protagonisti e principali fautori di quella grande tragedia storica che è stata la tratta degli schiavi dall’Africa (e non solo) all’Occidente, con buona pace dei lusotropicalisti. Così come tutti i Paesi colonizzatori (compreso il nostro), quindi, anche il Portogallo ha le mani sporche; e se registra un’alta presenza di persone di origine straniera sul suo territorio, questo è dovuto anche al suo passato imperialista, durante il quale ha imposto la propria cultura e la propria lingua a società e popolazioni lontane che ne avrebbero fatto volentieri a meno – e, soprattutto, ne ha distrutto l’economia e la stabilità interne. Politici come Andre Ventura, nostalgici dei regimi violenti che furono, paiono incarnare la voglia viscerale di opporsi a ogni assunzione di responsabilità; lo spirito di chi rinnega le atrocità commesse dal suo Paese e pretende così di liberarsi da tutte quelle persone che ne sono testimonianza vivente. Ma che senso ha, ad oggi, quando tutti ne sono di fatto consapevoli, e le stesse vittime storiche del colonialismo hanno sempre più coscienza di ciò che è stato nelle loro terre di origine, degli abusi che sono stati fatti sui loro avi? E che senso ha, ancora e di nuovo, stare a difendere una purezza che sappiamo benissimo non essere mai esistita, come se non fossimo già il risultato di una commistione continua; come se quella dell’umanità non fosse da sempre una storia di incroci e contaminazioni, ben rappresentate da quello stile manuelino che ha dato forma ad alcuni dei più belli edifici di Lisbona e Porto?

    Ecco, quando sento tutti questi politici neofascisti parlare di difesa delle tradizioni e dei valori ecc. ecc., penso che essi stessi costituiscano la prova concreta che la società occidentale è al capolinea: vecchia e rancorosa, arroccata sulle sue posizioni, incapace di adattarsi ai cambiamenti. Tuttavia, non bisogna dimenticare che le loro idee non sono condivise da tutti, per quanto ci ritroviamo in un momento storico in cui le elezioni in Occidente tendono a premiare le destre, più o meno estreme, ben più che in passato. Come dicevo all’inizio, camminando per Lisbona e Porto ho avuto l’impressione di star visitando un luogo dove vige una buona armonia sociale fra le diverse etnie che compongono la popolazione – buona, ovviamente, non in senso assoluto ma sempre rispetto agli altri contesti che ho conosciuto – e, nella mia mente, questa era la prova che c’è una parte solida di società che resiste alla seduzione dei discorsi d’odio. Ovviamente potrebbe essere tutta una suggestione, qualcosa che io ho voluto credere; la sciocca illusione del turista che crede di poter davvero comprendere qualcosa nel giro di pochi giorni. Anzi, pensandoci a mente fredda dopo diverse settimane, molto probabilmente è così; eppure, parlare con Rana m’ha fatto credere che magari non mi stessi inventando proprio tutto.

    Rana è un uomo originario del Bangladesh che lavora in uno di quei tipici negozietti per turisti, pieni di calamite raffiguranti le attrazioni locali, accendini, piatti, tazzine ecc., a Porto. Eravamo entrati nel negozio per acquistare un po’ di calamite da regalare poi ai nostri amici in Italia e, al momento di pagare, m’ha chiesto di dove fossi: «Italia, vero?», così, in italiano. Ora, chiariamo: tutti a Porto sanno riconoscere un italiano da come parla, del resto il Portogallo è, come dicevo sopra, una terra invasa dai turisti italiani, che di fatto portano avanti un tentativo non organizzato di colonizzazione delle sue città principali da anni e anni. A maggior ragione sa riconoscerlo Rana che, come c’ha detto, ha lavorato nel nostro Paese per qualche anno. Ci si trovava bene, anche se non andava particolarmente matto per Roma, dove ha vissuto per un periodo – «Troppe persone, troppa confusione» ha motivato, e lì per lì abbiamo annuito ridendo, ma in seguito ho pensato che è incredibile come il caos di quella città sia tale da far storcere il naso a un bangladese, cioè una persona che proviene da una nazione la cui capitale, Dacca, ha più di sei volte la popolazione di Roma e più di venti volte la densità di abitanti per km quadro (!). Parlava un italiano imperfetto ma in modo abbastanza sicuro, Rana; pareva aver piacere a conversare con noi e, aldilà della solita ruffianeria da negoziante che deve ingraziarsi i clienti, questo sembrava confermare il fatto che tutto sommato non gli dispiaceva vivere in Italia. Poi però, circa un paio d’anni fa, ha dovuto lasciarla: «Non mi davano i documenti. Troppo tempo per i documenti, non li danno mai». Non siamo scesi nel dettaglio ma immagino si riferisse ai permessi di soggiorno e al loro rinnovo; cosa che, in Portogallo, potrà ottenere più facilmente: «Qui è più semplice», ci ha detto. Noi abbiamo confermato che purtroppo in Italia tira da tempo una brutta aria per quanto riguarda l’accoglienza e difficilmente le cose cambieranno presto, e lui ha risposto, col sorriso: «Eh lo so, lo so: Meloni!». L’ha detto senza rancore e senza aggiungere altro, non voleva criticare lei o gli italiani o il nostro essere razzisti; era un po’ divertito e un po’ rassegnato, come a dire: «Hey, che vuoi farci, questa è la vita purtroppo», sua e dei milioni di persone come lui nel mondo, costrette a sfangarla ogni giorno nonostante tutti quegli ostacoli burocratici che paiono messi lì apposta per mandarti via. In Portogallo, però, almeno secondo Rana, quegli ostacoli sono meno impervi, e magari questo è uno dei fattori che contribuiscono a facilitare l’ambientamento, l’integrazione, la convivenza pacifica fra le persone.

    Magari sì, anche se, in realtà, attivisti come Mamadou Ba – dirigente di SOS Racismo e difensore dei diritti civili – evidenziano come in Portogallo ci sia ancora tanto lavoro da fare per mettere in piedi politiche realmente inclusive, a partire da quelle urbanistiche e abitative che, troppo spesso, penalizzano proprio le fasce di popolazione composte da afrodiscendenti e immigrati. Insomma, è impossibile capire in una settimana se la società portoghese è meglio attrezzata della nostra per gestire i fenomeni migratori e l’avanzamento dei discorsi d’odio che pare inesorabile nei Paesi occidentali. La realtà, come sempre, è troppo complessa e sfaccettata per riuscire a inquadrarla in modo univoco; avrei voluto parlare di nuovo con Rana per provare a sciogliere un altro po’ di quella complessità, facendogli qualche altra domanda che lì per lì non m’era venuta in mente. Siamo anche ripassati davanti al negozietto dove lavorava, nel nostro ultimo giorno di vacanza, ma lui non c’era. Sulla porta, a osservare i passanti alla ricerca di potenziali clienti, c’era un altro ragazzo: lo stesso colore della pelle, una storia diversa; gli stessi, eterni sbattimenti.

     

    Immagine di copertina di Michiel Annaert da Unsplash

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