Andrà tutto meglio, lezioni dalla crisi

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    In giorni infettati dal Coronavirus che espande la sua corsa attraverso il pianeta, in giorni passati in una quarantena per proteggerci da un nemico invisibile, in giorni passati computando la inarrestabile espansione del contagio e valutando le drammatiche conseguenze sull’economia, molti non vedono l’ora che la crisi passi perché tutto torni come prima. io no! Io no, io non voglio che tutto torni come prima, perché è quello che facevamo prima che ha generato la pandemia, perché sono stati i nostri comportamenti a scatenare il virus, che, cacciato dal suo ambiente naturale, ha trovato una nuova specie da infettare: noi.

    Molti non vedono l’ora che la crisi passi perché tutto torni come prima. io no!

    Allora io vorrei trasformare l’auspicio #andràtuttobene, che ci ripetiamo per consolarci, in #andràtuttomeglio, da ripeterci per stimolarci a cambiare, a usare la crisi come una metamorfosi di tutto quello che abbiamo sbagliato, a partire dalle città, il nostro habitat.

    Sono convinto che serva, infatti, una riflessione competente e di sistema per imparare dalla crisi, per capire non solo quali debbano essere i nuovi comportamenti per fermare l’epidemia, ma soprattutto come rivoluzionare i nostri comportamenti dopo, una volta sconfitta la pandemia, e come evitare – o mitigare – nuovi casi simili (ci saranno se non cambiamo modello di sviluppo).

    Significa capire in che modo debba cambiare il nostro stesso modello di sviluppo e il nostro modo di abitare il pianeta, come scrivo nel mio libro Futuro. Politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019), in cui propongo le azioni necessarie per sfuggire ad un futuro che ci sorprenda con le sue drammatiche epifanie – come l’apparizione improvvisa del coronavirus e la sua drammatica espansione – adottando invece un atteggiamento proattivo che ci consenta di agire oggi, cambiando molte distorsioni della nostra relazione con la natura, progettando un futuro che non sia distopico, ma seducentemente “protopico”.

    Già in un rapporto del 2007 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci metteva in guardia sulle infezioni virali come una delle minacce più consistenti in un pianeta sottoposto al grave cambiamento climatico, e lo ripeteva, con quella che oggi appare una profezia, ma era solo profonda conoscenza del mondo, nel 2015 Bill Gates.

    I virus, infatti, essendo patogeni che non vivono senza le cellule animali, cercano sempre nuovi ospiti. E noi gli abbiamo aperto le porte: le variazioni di pioggia e umidità, il riscaldamento, la vorace espansione urbana cambiano le interazioni tra le diverse componenti biologiche e quando le nicchie ecologiche si spalancano i virus colonizzano un nuovo essere (noi) comportandosi inizialmente in modo molto aggressivo.

    Numerosi segnali ci dicono che oggi non siamo di fronte a un “cigno nero”

    Numerosi segnali ci dicono che oggi non siamo di fronte a un “cigno nero” (un evento improvviso e imprevisto), ma che siamo alla fase apicale di una crisi pandemica che si diffonde dal Secondo Dopoguerra e che aveva trovato un primo allarme negli anni ‘60 del XX secolo, quando esplosero le contraddizioni del capitalismo prodotto dalla Rivoluzione Industriale e iniziò a diffondersi la consapevolezza che il modello di sviluppo occidentale producesse diseguaglianze sociali, un impoverimento culturale, un consumo di risorse fisiche molto oltre i limiti del pianeta e un susseguirsi di crisi economiche derivate (il rapporto del Club di Roma sui “limiti dello sviluppo” è del 1972!). Oggi, nell’era della Pandemia Climatica abbiamo l’obbligo di ripensare radicalmente il modello di sviluppo assecondandone la sua metamorfosi verso una resilienza strutturale.

    Siamo oggi in pieno Antropocene, l’era dell’accelerazione delle modifiche territoriali, sociali, economiche e climatiche prodotte dall’umanità sbaragliando tutte le altre specie viventi e diventando la più potente forza che deforma l’ambiente. L’Antropocene urbano, l’urbanizzazione espansiva, ha divorato il suolo naturale, le strutture identitarie dei palinsesti culturali e le trame vegetali delle città, ha invaso ecosistemi delicati. Gli habitat urbani hanno invaso gli ecosistemi naturali, risvegliando ed espandendo malattie prima confinate e separate negli ambienti silvestri. È stata devastata la capacità degli insediamenti urbani di intrattenere le necessarie relazioni omeostatiche con le componenti naturali, è stato spazzato via il valore rigenerativo della cura dei luoghi di vita, così come sono stati interrotti o deviati i naturali processi circolari e armonici tra uomo e natura.

    Come uscire dalla crisi ambientale planetaria (che è anche sanitaria, sociale ed economica come stiamo vedendo in questi giorni drammatici)? La risposta deve essere un nuovo approccio responsabile e militante non solo per ridurre l’impronta ecologica delle attività umane, ma per utilizzare la nostra intelligenza a servizio della sensibilità nei confronti dell’ambiente, delle persone e del patrimonio culturale, ma soprattutto per ripensare le città come luoghi del nostro abitare in armonia con la natura, in equilibrio con le altre specie viventi, in omeostasi con il pianeta.

    Significa tornare – come abbiamo sempre fatto soprattutto in Italia – a progettare città che non solo dialoghino con la natura ma che usino, con rispetto, come materiale del progetto urbano, significa riattivare un metabolismo circolare dell’acqua, del cibo, dell’energia, della natura, dei rifiuti, delle persone e dei beni. Sono quelle città che io chiamo Augmented Cities: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove, più intelligenti per ridurre i costi, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti, più fluide per accogliere le diversità, più produttive per tornare a generare benessere, più collaborative per coinvolgere tutti e più circolari per ridurre gli sprechi ed eliminare gli scarti. (M. Carta, Augmented City. A Paradigm Shift, ListLab, 2017)

    La rigenerazione degli habitat umani dopo la crisi, quindi, la rinascita delle nostre città quando usciremo dalla penombra delle nostre case per tornare ad abitare lo spazio collettivo pretende di ripensare il modo con cui viviamo, apprendendo dalle nuove pratiche che abbiamo sperimentato in questi giorni di doloroso “distanziamento sociale”.

    È l’ora del salto dalla città del Novecento alla città del XXI secolo

    Alla rigida separazione – figlia del Movimento Moderno – dei luoghi dell’abitare, del lavorare, del divertirsi o del produrre dobbiamo sostituire un progetto urbanistico prima, e architettonico dopo, di luoghi ibridi che, aiutati dall’innovazione tecnologica e digitale, possano accogliere funzioni temporanee e multiple entro un ciclo che guardi all’arco della giornata o dell’anno nella distribuzione delle funzioni, nell’attrazione di usi ad elevata carica di innovazione, nel rifugio di cittadinanze plurali.

    Non più case, uffici, piazze, strade, parchi, ma luoghi che siano insieme case, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, interpretando più ruoli con un nuovo e più complesso copione urbano. Ma anche i diversi spazi urbani cambieranno, diventando essi stessi più flessibili, non rigidi contenitori, ma spazi porosi attraversati da umanità diversificate. È l’ora del salto dalla città del Novecento alla città del XXI secolo.

    Quando, dopo questi giorni di quarantena, che ci hanno fatto capire che lo spazio domestico è importante ma non quanto lo spazio urbano, torneremo ad animare le nostre città con il calore dei nostri corpi, quando torneremo a vivere lo spazio pubblico della città, quando torneremo a frequentare i luoghi del lavoro come spazi della relazione sociale e non solo della produzione, quando torneremo nelle scuole e nelle università come incontro di persone che si scambiano conoscenze e idee imparando reciprocamente, quando torneremo ad abbracciarci, non dimentichiamo la lezione di questa sospensione forzata della nostra “urbanità”, non dimentichiamo la dolorosa nostalgia per lo spazio pubblico, non dimentichiamo la nostra responsabilità nella apertura dei vasi di pandora degli ecosistemi naturali devastati.

    La nostra società aperta – solo temporaneamente rinchiusa a casa – sconfiggerà il suo microscopico nemico e tornerà più forte grazie alla resilienza che avremo imparato a esercitare in questi giorni drammatici. Guariremo solo se cambieremo tutto, perché “tutto vada meglio”.

    Note