Non serve un nuovo Mondo per salvarci, ma un nuovo popolo

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    Ogni settimana in collaborazione con la casa editrice nottetempo, cheFare pubblica una serie di interventi di filosofi, antropologi sul mondo naturale. Dopo mesi di reclusione forse è il caso di provare a capire che mondo abitiamo e soprattutto imparare a conoscerlo meglio. Oggi pubblichiamo un estratto dal saggio Esiste un mondo a venire? di Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro

    Un topos che si ripete con curiosa frequenza nei discorsi sulla crisi ambientale, sia tra coloro che riflettono sui possibili percorsi per affrontare la catastrofe che è già tra noi, sia tra quelli che credono nell’entusiasmo imminente di un nuovo stadio ontologico (gli accelerazionisti di sinistra e di destra), sia infine tra gli adepti del business as usual e del “drill, baby, drill”, è che “la storia non cammina a ritroso”, che “non si può tornare all’Età della Pietra” (o al Medio Evo, al tempo di Adamo ecc.).

    Come mai in tanti, da una parte e dall’altra (e dall’altra ancora), sembrano essere d’accordo su questo punto: “non si può tornare indietro”? Poiché qui non si sta parlando della palpitante questione fisica che riguarda il senso della “freccia del tempo”, dato che evidentemente non possiamo tornare indietro cronologicamente – perlomeno secondo la vulgata ontologica in vigore, che non abbiamo motivo di confutare in questo contesto –, occorre domandarsi che cosa ci sia di non evidente in questa frase così spesso ripetuta: cos’è che la rende così attraente o, piuttosto, cosa ci sarebbe di così scioccante nel mettere in dubbio la sua pertinenza?

    Ogni giorno che passa, vediamo confermarsi l’impressione che stiamo già vivendo, e che vivremo sempre di più, in un mondo radicalmente diminuito. Come sostenevamo in precedenza, è molto probabile che la riduzione di scala delle nostre pretese e ambizioni presto non sarà più solamente un’opzione.

    Vivremo sempre di più in un mondo radicalmente diminuito

    In secondo luogo, ciò non significa che siamo qui semplicemente per constatare che il mondo è già finito, sta finendo o finirà. Ci sono numerosi mondi nel Mondo.

    Prima si diceva che abbiamo molto da imparare dai popoli minori che resistono in un mondo impoverito, che non è nemmeno il loro.

    Ricordiamoci ancora una volta del film di Lars von Trier Melancholia e della fragilità e trasparenza della piccola capanna della “zietta spezza­acciaio”.

    Niente sembra più inutile e più patetico di questo rifugio puramente formale, questa brutta copia del tipi indigeno, e del piccolo rituale che vi si svolge per qualche secondo appena.

    Tuttavia, quel che accade al suo interno è forse molto più di un “mero” rituale inutile e disperato: si tratta di un magistrale bricolage, di una soluzione di emer­genza, di un concetto-oggetto selvaggio che esprime una percezione acuta della natura essenzialmente tecnica, tecnologica, del gesto rituale efficace – la capanna è la sola cosa, in quel momento, in grado di trasformare lo shock al quale non si può sfuggire (il dunque… di Stengers) in un evento, nel senso che Deleuze e Guattari (1996: 153) danno a questo concetto: “la parte che in tutto ciò che avviene sfugge alla sua propria attualizzazione”. […]

    Cosí come un giorno abbiamo avuto orrore del vuoto, oggi proviamo ripugnanza a pensare il rallentamento, la regressione, la ritirata, la limitazione, la frenata, la decrescita, la discesa – la sufficienza.

    Tutto ciò che rimanda a uno di questi movimenti indirizzati verso una sufficienza intensiva del mondo (piuttosto che a un superamento epico dei “limiti” che vada alla ricerca di un ipermondo) è tacciato molto rapidamente di localismo ingenuo, primitivismo, irrazionalismo, cattiva coscienza, sentimento di colpa o, addirittura, di dissimulare tendenze fasciste. […]

    Cosí, quando alcune comunità contadine “in via di modernizzazione” decidono di divenire nuovamente indigene, dimostrando davanti a un giudice la loro continuità storica con i popoli nativi ufficialmente estinti, come stanno facendo molte popolazioni rurali in Brasile dopo la promulgazione della Costituzione del 1988 – che ha concesso diritti collettivi di possesso della terra agli indios e ai discendenti degli schiavi insediati nelle campagne –, la reazione scandalizzata e furibonda delle classi dominanti è stata uno spettacolo imperdibile.

    Cosí come un giorno abbiamo avuto orrore del vuoto, oggi proviamo ripugnanza a pensare il rallentamento

    Purtroppo, non si potrà ridere ancora a lungo di coloro che continuano a utilizzare la frusta; la collera, sommata all’avidità di chi ha bisogno di cancellare l’alterità, si sta traducendo in un’offensiva concertata dai grandi proprietari terrieri – e dai loro partner, clienti e padroni – contro gli indios e gli altri popoli tradizionali del paese, attraverso vie legali e illegali, legislative e criminali.

    Accade così che l’unica possibilità (e desiderio) per un individuo o per una comunità sia quello di smet­tere di essere indio; è impossibile (e ripugnante) di­ venire nuovamente indio: come può qualcuno desiderare il passato come futuro?

    Ebbene, forse lo scandalo ha la sua ragion d’essere: forse è impossibile ridivenire storicamente indio; ma è del tutto possibile, ed è ciò che sta effettivamente accadendo, un divenire­indio, locale e globale, particolare e generale, un incessante ridivenire­indio che sta prendendo d’assalto importanti settori della “popolazione” brasiliana in un modo completamente inaspettato.

    È uno degli eventi politici più significativi di cui siamo testimoni nel Brasile odierno e sta contaminando, un po’ alla volta, un numero sempre maggiore di popoli brasiliani, oltre a quelli indigeni. […]

    Parlare della fine del mondo non significa parlare della necessità di immaginare un nuovo mondo al posto di quello presente, ma un nuovo popolo; il popolo che manca. Un popolo che crede nel mondo e che lo dovrà creare con ciò che gli lasciamo del mondo.

    Note