Al controllo passaporti adesso c’è un biscione da un’ora e mezza, adesso che hanno unito le file e non c’è più “chi viene da dentro” e “chi viene da fuori”. Dal 2025, pare, servirà un mini-visto in stile statunitense. Dopo la Brexit, la Gran Bretagna è davvero diventata un’isola. Buffo che fosse proprio uno dei loro, John Donne, a scrivere che “no man is an island”. Chissà quanto ci aveva visto lungo. Chissà su che cosa cercava di metterci in guardia.
In fila allo Scottish Border all’aeroporto di Edimburgo mi dico che almeno io ha fatto in tempo a vederlo diverso, il Regno Unito, nell’anno subito prima della pandemia. Ma no, siamo più precisi: la Scozia è una cosa, il Regno Unito un’altra. Perché il 62% degli scozzesi non voleva andarsene dall’Unione Europea. E, secondo dati di fine 2022, il 53% sarebbe favorevole all’indipendenza da Westminster. Tra le motivazioni, proprio rientrare nell’Unione. Mentre aspetto il mio turno provo a caratterizzarla, questa Scozia possibile. Accogliente, cosmopolita, istruita. La casa che ho creduto anch’io di aver trovato e che, come uno sfratto, mi è scivolata tra le dita. Più che un sogno, una macchina del tempo per cavalcare il passato.
Sia chiaro: tutto quello che sentite sulla Scozia è verità. Le morti per overdose sono in aumento dal 2013, d’inverno il sole fa la gobba alle 14:30, il piatto nazionale è il Mars fritto, la birra è around the clock e l’economia si basa su energia, siderurgico e turismo. Non più Trainspotting, beninteso. Ma credo che la maggior parte continuerebbe a preferire una villetta nel Sud della Francia alle nuvole basse, velocissime, dei grigi cieli scozzesi. Che cosa vi state perdendo, davvero, non lo sapete.
Da quando sono andata cerco di tornare un paio di volte l’anno, da queste parti. Mi dico, questa volta noleggerò un’auto e su fino alle Upper Highlands, dove si campeggia e volano sciami di moscerini succhiasangue. Penso alle Orcadi, alle Shetland, isole nell’isola. A Skye e ai fiordi dell’Ovest. Un bambino la disegnerebbe come un vecchio pettinino, la Scozia, o un manico di violoncello in due dimensioni: zigrinato da un lato, ampio dall’altro. Penso all’intera guida di viaggio ma poi, alla fine, rimango sempre in città. Edimburgo è arroccata tra mare e colline, stretta dall’interno nei suoi vicoli ripidi, bui, fumosi (la Londra di Dottor Jekyll e Mr. Hyde fu costruita dallo scozzese Stevenson sulla base di Edimburgo). Eppure, paradossalmente, lascia spazio. Come poi tutta la Scozia, che con il triplo della superficie dell’Emilia-Romagna conta solo un milione di abitanti in più. Edimburgo è il doppio di Torino e ospita 300.000 abitanti in meno.
Ci si sta comodi: nelle case, ampie e dai soffitti generalmente ariosi. Nelle grandi aree verdi senza recinti né orari di apertura. Per chi esce dal formicaio di Milano e abita di fianco al Parco Trotter – lucchettato la notte, potrebbe invece essere un laboratorio –, un surplus di luogo è già avvenente. Ma lo spazio si allarga ancora, e passandoci più delle canoniche due settimane di vacanza arriva dentro, soffuso e intimo. Espande proprio, la Scozia, anima e polmoni.
Lo vedi quando ci studi, e gli incontri con persone del luogo avvengono principalmente al pub delle 4pm, o sui taxi, al posto di guida. Altrimenti è colore, lingue che rimbalzano sul timpano. Sono attirati dalle ottime università (per le classifiche, The University of Edinburgh è sedicesima al mondo per qualità), dalle opportunità di ricerca che spaziano dalle letteratura all’intelligenza artificiale, da piccoli vantaggi sociali: gli assorbenti mestruali gratis, il BA (Bachelor of Arts, Laurea Triennale) gratis per chiunque abbia vissuto in Scozia per almeno tre anni; ci sono passi concreti per la transizione a Net Zero grazie a fattorie di pale eoliche, turbine per l’energia mareomotrice e sperimentazioni sull’energia da idrogeno; i diritti della comunità LGBT+ sono riconosciuti dal 2005 con le unioni civili, dal 2014 con la possibilità di same-sex marriage, dal 2007 con il finanziamento governativo (la prima volta al mondo) della Scottish Trans Alliance, progetto per il riconoscimento dei diritti transgender (e con la proposta di rendere più snello il processo di affermazione di genere, che ha scatenato la faida J.K. Rowling vs Scotland). Dalle nostre italiche parti direbbero che svendono lo “spirito” del popolo scozzese: sarebbero in errore.
Certo, non è possibile pensare che la terra di Braveheart, di fiera tradizione gaelica e norrena, che chiama smidollati i conquistatori inglesi del Sud e presenta la derivazione locale del gaelico come seconda lingua su segnali stradali e nomi delle istituzioni, sia morbida sulla tradizione. Ma per trasmetterla ai New Scot – già, non agli “stranieri” – organizza eventi di scambio e formazione, in cui antiche usanze e costumi vengono riproposti – così anche una papera come me può imparare a danzare i Cèilidh, scatenate danze rurali di tradizione gaelica. Lasciando la religione rigorosamente alle scelte del singolo.
Nel 2019 speravo di abitare qui, nella terra più larga che avevo mai conosciuto. Poi una pandemia, poi le prime conseguenze della Brexit, hanno tolto alla Scozia la sua ampiezza, ammainato la bandiera con cui si era presentata al mondo nell’ultimo decennio. Oggi, gli studenti europei pagano l’università come gli internazionali: si parte dai 24.000 pound all’anno (il costo del corso che ho frequentato: +17.000 sterline). Il costo della vita è fuori controllo per colpa di generi alimentari e spese per l’energia; trovare un’abitazione prende mesi; le strade si riempiono di negozi sfitti; il cinema storico della città, luogo di cultura e aggregazione, è stato chiuso l’anno scorso; il festival di cinema di Edimburgo, tra i più prominenti nella fascia media europea, ha rischiato di saltare; la pinta di birra – alimento del popolo per eccellenza, fino a tre anni fa costava 2,50/3,50 pound – ha superato i 5 pound; e a ogni mio ritorno aggiungo al bagaglio più storie di chi “vuole tornare a casa”, implicando che la Scozia non lo sia più.
La Brexit è stata una brutta chimera. L’inflazione del Regno Unito è la peggiore di tutti i paesi del G7. Le politiche Tory di Westminster non riescono a superare la mitologia di un paese-parco giochi per straricchi. I fondi europei interrotti hanno piegato l’equilibrio virtuoso che la Scozia si era costruita per uscire dai disastrosi Anni ’80 e ‘90 (lì sì che, Irvine Welsh e povertà).
Le persone che mi spingono nella coda ai passaporti si fanno vicine. L’aria si lima d’ossigeno. I bip ritmici delle porte che si aprono sul Border hanno la solennità di una preghiera, Aye Bu Chòir Eh Yes: Sì, per favore, fateci stare senza gli inglesi, una buona volta.
*Aye Bu Chòir Eh Yes* Slogan della campagna guidata dallo Scottish National Party a favore di un secondo referendum per l’indipendenza della Scozia.
Immagine di copertina di Roan Lavery da Unsplash