Dobbiamo per forza vendere le nostre città?

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    Prosegue su cheFare il Diario di ricerca di Marianna D’Ovidio, qui la prima puntata.


    Recentemente con l’università di Bari ho avviato una ricerca su Taranto, che si può sintetizzare come segue: mappare creatività, cultura e innovazione locali per immaginare percorsi di sviluppo locale alternativi alla manifattura pesante e proporre misure di accompagnamento e sostegno di queste pratiche.

    “18 metri quadrati. 25 metri quadrati. 46 metri quadrati. Appartamenti perfetti. Immaginati al millimetro.Non sono necessariamente consumatore. Non posso definirmi consumatore.Non desidero diventare il proprietario di un oggetto o di un altro. Non chiudo gli occhi solo per vedere come starebbe questo o quello da me. Non esiste da me. Raramente capita che compri qualcosa. Raramente mi capita di desiderare qualcosa in più dell’affiancarmi all’esercito di consumatori veri e di marciare al loro fianco da un appartamento all’altro. Sono tutti confortevoli, uniti da un palmo di parquet e da un tappetino etno. Intorno a me si parla del buongusto nordico. So questo: sicurezza e inserite il codice pin. Mi getto su poltrone, divani, mi infilo in un letto disfatto. Si può. La libertà appare così. Dal piatto con cibo colorato scelgo un asparago lungo e senza memoria, me lo ficco nel naso”

    Elena Vlădăreanu – Spazio Privato (traduzione di Gabriele di Palma)

    Si è da poco chiusa la scadenza per un concorso di idee sulla città vecchia di Taranto. Pare che abbiano partecipato in tantissimi, dallo studio di Boeri, alle start-up di neolaureati tarantini.

    Sul bando si legge che l’obiettivo sarebbe quello di proporre “una strategia di sviluppo della Città Vecchia di Taranto, funzionale alla predisposizione del Piano di interventi per il recupero, la riqualificazione e la valorizzazione della Città. Il Concorso ha l’obiettivo di fornire alla città di Taranto idee per comporre una strategia di rigenerazione urbana completa e sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale.”

    In una delle lunghe passeggiate con cui mi ha introdotto alla città, la mia guida lancia una provocazione: Taranto come Berlino, arriva la Saatchi e ci compra tutti quanti”. Lo dice con orrore e repulsione, ma mi sembra di notare in fondo agli occhi anche una piccola scintilla di desiderio. “Facciamo festa per 10 anni, poi veniamo cacciati tutti, arriva la gentrification, i locali fighetti, gli stranieri su airbnb e finisce tutto”.

    In effetti città vecchia a Taranto è un luogo estremamente affascinate, dove il costo della vita è molto basso e vi è una grande disponibilità di immobili, anche pregiati, da ristrutturare. Palazzi storici che ora cadono a pezzi, giardini interni e terrazze vista mare (anzi, mari, visto che a Taranto di mari ce ne sono due).

    Certo, non basta il mare, (nemmeno quando si sdoppia), la buona cucina e qualche palazzo vuoto per trasformare la città vecchia di Taranto in Prenzlauer Berg, ma la situazione di Taranto non è poi così diversa da quella di altre città che erano in forte declino qualche decennio fa. Ad esempio come lo erano Bilbao o Glasgow nei primi anni ’90. Due città fortemente industrializzate, la cui economia si basava su produzioni industriali pesanti che si ritrovano con le fabbriche chiuse, tassi di disoccupazione altissimi, una forte marginalità sociale, problemi di alcolismo, tossicodipendenze e criminalità. Entrambe le città tentano la strada della riconversione attraverso un mantra oggi molto sfruttato: put the city on the map, metti la città sulla mappa. Fai diventare la tua città visibile, dalle una nuova identità e fai arrivare in città flussi di persone, ma soprattutto di denaro.

    Se Glasgow ha puntato a diventare la “Londra del nord” cercando di attrarre imprese di servizi avanzati e finanziari, Bilbao, come sappiamo bene, ha cercato (e vi è riuscita) di intercettare il flusso del turismo culturale di élite, i grandi interessi economici che girano intorno alla cultura. L’operazione, bisogna ammetterlo, è risultata di successo, per lo meno dal punto di vista economico: a fronte di un investimento di 98milioni di dollari spesi per la costruzione del museo Guggenheim (che è stato inaugurato nel 1997), cinque anni dopo, il suo impatto sull’economia della città è stimato per 168milioni di euro.

    Tutti hanno cominciato a parlare di un “effetto Bilbao” e molte città hanno provato a imitare la capitale basca, innescando una lunga catena di investimenti (di soldi pubblici) in grandi musei destinati alla mera sopravvivenza: si è a lungo documentato come queste strategie di sviluppo non sono facilmente esportabili, che ogni contesto ha delle caratteristiche uniche e che è difficile riuscire in queste operazioni. In poche parole: Bilbao è una grande e fortunata eccezione. Tutt’altra questione invece se vogliamo parlare dell’impatto del Guggenheim di Bilbao sulla cultura e la società locali.

    Il tema della rigenerazione urbana attraverso la cultura ha dominato il dibattito sulla città negli ultimi 20 anni: interi pezzi di città (e non solo fisica) sono stati (s)venduti sul mercato, dominato da grandi corporation internazionali interessate a massimizzare il profitto nel minor tempo (Saskia Sassen ne ha parlato recentemente in un convegno a Venezia). L’effetto è ben noto: omologazione della produzione culturale verso modelli accettati e richiesti dal mercato; precarizzazione della forza lavoro; consumo della città e gentrification; polarizzazione sociale.

    Tra le tante analisi (più o meno critiche) che si occupano di sviluppo locale attraverso la cultura, ultimamente quella proposta da Sacco, Ferilli e Tavano Blessi dello Iulm di Milano ha attirato la mia attenzione (Sacco et al. 2014). Secondo i tre autori queste politiche di sviluppo poggiano su 3 approcci teorici principali che potremmo riassumere così: 1. attrarre imprenditori e consumatori culturali (fanno qui riferimento alle tesi di Richard Florida); 2. concentrare sul territorio attività culturali e sviluppare politiche di cluster, così come sostiene Michael Porter; 3. favorire e sviluppare le competenze culturali locali, in una prospettiva vicina alle teorie delle capabilities di Amartya Sen.

    Secondo Sacco e colleghi, ogni approccio porta con sé rischi per lo sviluppo locale: i primi due sarebbero socialmente poco sostenibili (si legga: dominazione del mercato sulla cultura); il terzo, al contrario, rischia di ridursi nello sviluppo di una cultura locale e localistica, non solo poco appetibile dal mercato, ma, soprattutto, totalmente priva di innovazione e di sofisticatezza, appiattita sul contesto locale.

    Prima di riportare la soluzione proposta dagli autori, torniamo al caso di Taranto e alla tanto agognata rigenerazione urbana. Il concorso di idee sicuramente ha avviato un processo in cui si mette Taranto “sulla mappa”, tanto più se davvero hanno partecipato studi di architettura di portata internazionale. Io non ho nessuna risposta, né proposta, conosco ancora troppo poco la città per poter anche solo ipotizzare degli interventi, però posso cominciare a individuare alcune coordinate all’interno delle quali mi piacerebbe che ci fosse una discussione aperta, che ha a che vedere con la rigenerazione urbana della città attraverso la cultura. In particolare vorrei riflettere sulla relazione tra sviluppo locale e attivazione/intercettazione di flussi globali di capitali. Sappiamo che ciò ha delle conseguenze importanti sulla produzione culturale da un lato (appiattimento della produzione culturale sui canoni richiesti dal mercato) e sulla sostenibilità sociale del contesto dall’altro, quello che non sappiamo ancora è se esistono delle alternative tra uno sviluppo locale snaturato dal mercato e arretratezza.

    Credo che per risolvere la questione che vede da un lato città sempre più gentrificate e polarizzate, e dall’altro città decadenti ed emarginate, occorra riflettere su due temi cruciali: anzitutto, la relazione tra locale e globale; in secondo luogo, il tipo di flussi globali che le nostre città intercettano.

    Rispetto alla relazione locale-globale, nel loro articolo Sacco, Ferilli e Tavano Blessi sottolineano come, nei progetti di sviluppo attraverso la cultura, di norma le dimensioni locale e globale non siano intrecciate. Spesso, il contesto locale viene ridotto a una cornice di sfondo, che non interferisce con le politiche di sviluppo tutte orientate al mercato internazionale; al contrario, vi sono politiche che esaltano la dimensione locale, come unico elemento chiave, perdendo ogni legame con il globale. Occorrerebbe, secondo gli autori, una visione articolata su entrambi i livelli, locale e globale, e che sappia tenere insieme i tre approcci (attrattività alla Florida, concentrazione alla Porter ed empowerment alla Sen) che sinora, nella pratica, sono stati separati.

    La seconda questione ha a che fare con i flussi globali. Spesso, quando ci riferiamo ai “flussi globali” diamo per scontato che si tratti di movimenti di capitale globale, gestito dalla finanza internazionale, e in effetti spesso è così; però dobbiamo tenere presente che la globalizzazione ha prodotto altri flussi, non necessariamente legati al capitale. Se vogliamo rimanere nell’area culturale/ideologica, forse il più noto prodotto della globalizzazione in questo senso è il movimento no-global, che si pone(va) in forte contrasto e antagonismo rispetto a una globalizzazione capitalistica.

    Reti internazionali di turismo sostenibile, di operatori culturali, di artisti underground sono tutti esempi di flussi globali che non hanno interesse a snaturare né la cultura, né la società locale.

    Certo, hanno un potere rigenerativo non indirizzato al mercato e portano di sicuro poco denaro alle casse locali, ma, rispetto al potenziale economico, hanno comunque il vantaggio di inserire il contesto locale in un mercato (alternativo a quello mainstream) più ampio, e, di conseguenza, esibirlo di fronte a più acquirenti. Hanno inoltre un potenziale creativo molto interessante, in quanto espongono creativi, artisti, operatori culturali in genere, a un panorama di idee, conoscenze ed esperienze molto vasto e variegato, dando la possibilità di creare sinergie, contaminazioni, collaborazioni o, semplicemente, nuove idee.

    Se torniamo a Taranto, vediamo che di flussi globali che “attraversano” la città, ce ne sono forse anche troppi, con l’acciaio, l’arsenale, la marina militare e qualche turista mangia-e-fuggi. Ma sono tutti flussi che non hanno nessun rapporto costruttivo con il locale, che non sono sostenibili e non arrivano ad arricchire culturalmente la città. Nella mia seconda esplorazione a Taranto ho cominciato a parlare, ascoltare, osservare, partecipare. Ho visto una serie di pratiche culturali, inclusive, intelligenti, alcune inserite nel mercato, altre che il mercato lo rifiutano, tutte tese a portare avanti una riflessione sulla città. In gran parte hanno beneficiato di bandi regionali, nati sotto il cappello del programma regionale Bollenti spiriti.

    Ho quindi cominciato a studiare Taranto con quelli che potremmo definire innovatori culturali, e che sono interessati alla rigenerazione urbana della città (a cominciare da città vecchia). Questi innovatori potrebbero essere soggetti attivi nell’intercettare flussi globali alternativi a quelli del capitalismo sfrenato, interessati anche alla rigenerazione sociale e culturale propriamente detta, e non (solo) alla rendita immobiliare.

    Ho avviato questo pezzo con una poesia, 18 metri quadrati, di Elena Vlădăreanu, poetessa rumena che ho avuto modo di conoscere a Taranto, in una serata in cui lei leggeva le sue poesie, con in braccio la sua bambina, e il traduttore, Gabriele di Palma, ce le rendeva comprensibili. L’evento si è svolto in una chiesetta sconsacrata, Sant’Andrea degli Armeni, che è visitabile dai turisti grazie alla collaborazione degli abitanti del quartiere. Chi la vuole vedere può collegarsi, attraverso un q-code, a un sito internet e trovare il nome della persona (e l’indirizzo) che ha la chiave della chiesa quel giorno. Riceve la chiave, visita la chiesa, riporta la chiave. La poetessa rumena e il turista non snaturano la cultura e la società locale, anzi creano legami, portano innovazione culturale. Certo, non fanno massa critica, non bastano per rigenerare una città. Ne servono a migliaia, servono i flussi, appunto.


    Immagine di copertina: ph. Maarten van den Heuvel da Unsplash

    Intervento cofinanziato dal Fondo di Sviluppo e Coesione 2007-2013 – APQ Ricerca Regione Puglia “Programma regionale a sostegno della specializzazione intelligente e della sostenibilità sociale ed ambientale – FutureInResearch”

    Note