La città è prima di tutto una costruzione politica. Intervista a Rodrigo Pérez de Arce

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    Rodrigo Pérez de Arce è un osservatore minuzioso delle città e delle loro trasformazioni. Ha fatto delle sue continue camminate un tavolo da lavoro. È il maestro di una generazione di architetti, interrogandosi da sempre sullo spazio pubblico. Classe 1948, dopo la laurea all’Università Cattolica del Cile lascia il suo paese alla vigilia del colpo di stato e fa ritorno nel 1990, con il ritorno della democrazia. Trascorre quei 17 anni a Londra. Docente e progettista, ha rimodellato la Plaza de Armas nel cuore di Santiago e ridato vita alla vecchia Stazione Mapocho, diventata centro culturale. Nel 2019 ha pubblicato una nuova edizione di Valparaiso. Un balcón urbano, per le Ediciones UC. Lo incontriamo a Venezia, tra gli ospiti di WaVe, la rassegna di workshop internazionali dell’Università IUAV, curati quest’anno da Andrea Iorio. 

    Il suo libro è pieno di schizzi, annotazioni minute, dettagli, vedute: è una sorta di città catalogo. Questo modo di sviscerare la città camminando è anche un modo per progettare?

    «In un certo senso sì. È un modo di ricordare, ti obbliga a stare di fronte a qualcosa di diverso: ogni luogo ti interroga e ti costringe a cercare soluzioni. Ho passato la vita a camminare, osservare, disegnare. È un atteggiamento contemplativo e partecipante ed è anche antropologico. È un dato biografico: ai miei tempi di ragazzo non c’erano molti libri o biblioteche e nemmeno opere di architettura incredibili come qui. E l’unico modo per apprendere era osservare un mondo quotidiano, ordinario: è una operazione comunque bella perché non dai un giudizio di valore a priori su ciò che vedi, ma ti costringe ad essere aperto e in ascolto. In parte per me è anche il lascito della Scuola di architettura di Valparaíso che all’epoca era molto situazionista. Ricordo che ci davano la foto di una casa dicendoci: vai e trovala. E la ricerca di quella casa ci impegnava un semestre: è un compito molto intelligente, perché ti obbliga a conoscere la città, la logica urbana, pensare all’ubicazione di quella casa, alle tipologie di edifici nella massa del costruito. Sviluppare un appetito per la città mi sembra un modo giusto per insegnare l’architettura».

    Eppure, oggi percepiamo la città in modo ancora più disorientante. La stessa idea di città è in crisi: dalla mobilità ai conflitti sociali, l’allarme ecologico fino agli spazi domestici che si sono mostrati così inadeguati durante la pandemia. La città non sembra reggere alla sfida del tempo

    «La città si nutre e produce da sempre crisi, prima di tutto perché è una costruzione politica: la polis. Ogni crisi condivide un problema comune: la inaccessibilità delle città. Lo vedo nel mio Paese: nella stessa città c’è gente che vive come se fosse in Svizzera, letteralmente, gli spazi pubblici magnifici e le case splendide; poi c’è gente che vive in condizioni tremendamente vulnerabili e precarie. Per questo credo che guardare la città “dalla città” sia così importante, perché ci permette di renderci conto di cose minute, di vedere la vita quotidiana della gente». 

    Quindi che ruolo può assumere l’architettura? Può fuoriuscire dai suoi limiti e assumere altri compiti?

    «Abbiamo una storia dell’architettura che si poggia su grandi famiglie ricche e potenti che commissionano edifici, opere pubbliche, dimore. C’è sempre un Gonzaga, nella storia dell’architettura, che lascia magnifiche opere per il principe o per il clero e oggi per una banca o un cliente potente. E fino a un certo punto l’intera città ha sempre beneficiato di questa architettura. Oggi mi sembra che il fuoco dell’architettura non possa passare che attraverso lo spazio pubblico. Ho lavorato e lavoro molto su questo. E ogni volta mi sembra che le istituzioni pubbliche, le autorità politiche, non abbiano ben chiaro che lavorare sullo spazio pubblico significa lavorare sulla dignità dello spazio pubblico». 

    E qual è la sfida maggiore?

    «È una sfida culturale. Ad esempio: in Cile ci capita sempre di battagliare sulla qualità della pavimentazione. Siamo un paese che ha dell’ottimo materiale in pietra ed eccellenti saperi artigiani: potremmo utilizzare risorse del luogo e allo stesso tempo valorizzare il lavoro locale, spendendo meno e con migliore qualità. Eppure, quasi sempre le autorità chiedono materiale industriale, magari da importare e quando gli proponi un’alternativa seria ti guardano senza capire, quasi offesi, come se li trattassi da provinciali.

    L’altra questione aperta è il verde urbano, ora drammaticamente importante con il cambio climatico: una città alberata è molto più piacevole, più sicura, più sana. Abbiamo come architetti uno strumento potente che è il progetto, con cui possiamo creare consapevolezza, visualizzare soluzioni, creare dibattito e convincere. Il disegno è un linguaggio universale, ancestrale, ben prima della scrittura; è uno strumento molto seduttivo e sveglia desiderio, ha una sua forza emotiva e persino erotica, potremmo dire. L’architettura può parlare a sfere sociali diverse: ho avuto modo di progettare in contesti molto popolari e discutendo con gli abitanti, che hanno un mondo culturale così diverso, il progetto ci ha permesso di creare un terreno comune per capirci e riconoscerci. L’architettura può interpretare il bisogno democratico di ricostruire la polis: anzi, mi sembra questo il compito che le appartiene nel XXI secolo».

    Oggi noi parliamo della città dei 15 minuti, pluricentrica, capace di avere servizi ed essere sostenibile. Che ne pensa?

    «Innanzitutto penso alle realtà urbane latinoamericane così segregate, con una città di servizi molto ben strutturata e una enorme periferia da dove partono e tornano i lavoratori al servizio della prima. Viaggiano tre ore al giorno: è impressionante. Quindi per poterla destrutturare c’è bisogno di un cambio prima di tutto sociale, che rompa il monopolio del luogo dell’impiego e del luogo-dormitorio. E quest’ultimo dovrebbe essere considerata città: il che significa darle la possibilità di creare propri lavori.
    Mi piace pensare al rapporto tra poesia e periferia: il padre di Pablo Neruda era ferroviere, Gabriela Mistral veniva da una zona molto povera, i genitori di Nicanor Parra erano umili contadini. E mi piace pensare ai tanti architetti inglesi che ho conosciuto vivendo a Londra, che venivano da quartieri così poveri che si sono formati grazie a sistemi di borse di studio. Voglio dire che c’è un potenziale enorme di capitale umano che non stiamo utilizzando, non diamo opportunità, non emerge. Allora, per tornare alla città dei 15 minuti: certo, le zone più marginali devono avere tutti i servizi, ma finché non ci saranno investimenti e non si distribuisce la ricchezza, questa gente continuerà a viaggiare tre, quattro ore al giorno nella città dei 15 minuti degli altri. Eppure, qualcosa è successo».

    A cosa si riferisce?

    «Durante la pandemia, nel mio quartiere e ovunque, sono comparsi molti venditori di verdure. Prima andavamo solo al supermercato e ora andiamo in questi negozietti o da questi ambulanti per la carne, la verdura, la frutta. Mi sembra fantastico. Nei lunghi mesi di emergenza sanitaria avevamo timore di entrare nei supermercati e in molti, d’altra parte, perdendo il lavoro, hanno cominciato a vendere mele, melanzane, far pane in casa e poi si sono presi la strada. Forse questa è la vera città dei 15 minuti: meno monopolista, con molti imprenditori diffusi in tutto il corpo urbano. Quando era bambino arrivavano gli agricoltori dalla campagna con i loro carretti, poi arrivarono i supermercati: io ricordo perfettamente il primo supermercato aperto in Cile. E ricordo di essermi reso conto, d’improvviso, che i contadini coi loro carretti erano scomparsi, era scomparsa una parte di umanità, il commercio di quartiere, che era quasi tutto gestito da immigrati europei. Si era rotta una relazione tra l’abitante della città e il contadino. D’altra parte, le città europee sono sempre state delle città dei 15 minuti, poi si sono perse, ma dovrebbero ricordarsi che questa è la loro storia».

    Lei prima parlava di alberi e mai come ora è venuto alla luce il rapporto tra città e mondo vegetale. Abbiamo scoperto l’intelligenza vegetale come modello. 

    «È una dimensione che cerco di utilizzare il più possibile. Credo che ora abbiamo una consapevolezza più profonda di quello che significa “mondo vegetale”, che risulta essere molto più sofisticato di quello che immaginavamo. Scommettiamo sugli alberi non solo per la loro dimensione e bellezza, ma anche perché sono un eco-sistema complesso. Credo che la separazione tra architettura e paesaggismo sia molto dannosa, dovremmo valorizzare i singoli saperi per aggregarli in una visione comune. Uno studente di architettura dovrebbe pensare a un albero così come a una scala o a una finestra. La separazione e la iper-specializzazione dovrebbero trovare un modo per conversare, riconoscersi, incontrarsi e pensarsi in un sistema di relazioni. Dovremmo recuperare la cultura del Rinascimento che sapeva farlo.

    Piantare un albero è una proiezione di futuro, è uno scambio formativo per l’umano

    Un albero ci interroga sul microclima, sulle stagioni, sullo spazio e sul lavoro di cura: esperienze basiche, che ci riportano alla relazione tra cultura e coltivazione, perché un edificio resiste nel tempo, ma un albero necessita una cura continua, bisogna irrigarlo, potarlo. In inglese c’è una parola affascinante che è husbandry, che proviene da husband, da un aspetto maritale, qualcosa che ci obbliga a stabilire una relazione pratica e culturale con un mondo vivo. Siamo parte di esso. Piantare un albero è una proiezione di futuro, è uno scambio formativo per l’umano. Sulla scala urbana, significa anche riportare funzioni che abbiamo espulso dalla città, come l’agricoltura. Ricordo il patio delle case dove si piantavano alberi da frutto e verdure, che poi si sono trasformati in giardini ornamentali. Ricordo che mio padre aveva piantato due alberi di pesche e uno di fichi, due albicocchi e un noce: prendevamo la frutta da lì. E questa è una sfida che nel XXI secolo stiamo riprendendo, ricollegandoci alla memoria. È un cambio di paradigma: fino a qualche decennio fa le ciminiere erano simbolo di futuro, stampate sulle monete di carta, e oggi non sono che problemi enormi, lasciati in eredità alle generazioni più giovani».

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