La sterilizzazione sta uccidendo le città, una conversazione con Elena Granata

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    Negli anni ’50 e ’60, la giornalista e scrittrice Jane Jacobs osservava il modello urbanistico e capitalista che proprio in quegli anni stava ridefinendo il volto delle città americane e in particolare di New York. Un modello di rigenerazione urbana e risanamento edilizio che Jacobs criticava ferocemente, difendendo il suo Greenwich Village dalle grinfie dell’urbanista Robert Moses, che non esitava a sventrare interi vecchi quartieri per realizzare nuove infrastrutture e la cui idea di sviluppo era basata sulla modernizzazione dello spazio urbano e sul sacrificio dei quartieri popolari.

    Una forma di rigenerazione insopportabile per Jane Jacobs, che voleva salvaguardare i vecchi quartieri newyorkesi non in maniera nostalgica, per salvare un’immagine del passato, ma perché era in grado di vedere come fossero i quartieri più capaci di creare ricchezza di relazioni e culture, laddove un approccio ingegneristico alla città tendeva inevitabilmente a sterilizzarli. Jane Jacobs è per esempio la prima a criticare la centralità del traffico automobilistico – attorno a cui ancora oggi ruotano le città – e la pianificazione urbanistica che separa la città per usi e funzioni, senza considerare i modi in cui le persone abitano i luoghi.

    Jane Jacobs era per molti versi una “placemaker”: una figura ibrida, che osserva la città e i luoghi da una prospettiva molteplice. Può essere il parroco che sfrutta la sacrestia della chiesa per creare una palestra popolare, come ha fatto don Antonio Loffredo nel Rione Sanità di Napoli. Può essere Yvonne Aki Sawyerr, sindaca di Freetown, Sierra Leone, che ha fatto piantare un milione di alberi nella capitale sconvolta dalla deforestazione. Può essere uno studio di architettura come De Urbanisten di Rotterdam, che ha inventato le “piazze che si allagano”, che trattengono l’acqua piovana ma sono anche uno spazio per far giocare i bambini, senza che una dimensione prevalga sull’altra. 

    I placemaker sono persone che sanno “tramutare una buona idea in un progetto vivo che trasforma un luogo”. È chi “si cimenta con gli scarti delle città e ricuce periferie sconnesse”, chi “reintegra la natura in contesti urbani” e “capisce e sente le città guardandole dal basso”. Non è solo un architetto, non è solo un urbanista, non è solo un politico o un imprenditore. È chi “non agisce soltanto sugli spazi fisici, ma anche sui comportamenti umani e sulla natura, sui sentimenti e gli stili di vita, perché sa che è in gioco la nostra convivenza e la nostra salute collettiva. È il designer dei luoghi, l’inventore delle città che abiteremo”. 

    Gli esempi e le definizioni di cui sopra, così come la vicenda di Jane Jacobs, sono tutti tratti da Placemaker: gli inventori dei luoghi che abiteremo (Einaudi), saggio dell’urbanista, architetta e docente al Politecnico di Milano Elena Granata. Un libro non (solo) per specialisti, ma per chiunque abbia voglia di scoprire una visione diversa delle città, le loro potenzialità, i diversi modi in cui sono state interpretate e ciò che è andato storto negli ultimi decenni.

    Da quest’ultimo punto di vista – e seguendo Jane Jacobs – può essere utile fare l’esempio di alcuni vecchi quartieri popolari milanesi e della loro ricchezza sociale. Quartieri che affascinano e attraggono chi cerca un modo di vivere meno alienato e meno isolato, più comunitario e sociale. Quartieri-dedalo vissuti e frequentati dai suoi stessi abitanti e in cui le automobili trovano – letteralmente – poco spazio. “L’equilibrio di queste situazioni è però precario in tutte le città”, spiega Elena Granata. “Il segreto di questi vecchi quartieri popolari – a Milano potremmo fare l’esempio dell’Isola, ma anche di Ticinese o Porta Romana – è di tenere insieme il nuovo e l’antico, di ospitare il ceto ricco e medio assieme a quello popolare, di conservare il piccolo commercio su strada: le botteghe e i negozi che sono anche occhi sulla strada, un controllo naturale e spontaneo fino a tarda ora”.

    Un equilibrio dai molteplici vantaggi pratici, eppure fragile: “È il loro stesso ecosistema che li rende fragili, perché questi quartieri diventano oggetto di quei processi di cambiamento sociale che chiamiamo gentrification: il quartiere popolare, proprio per com’è fatto, inizia a piacere a chi può spendere e investire finché non si dissipa proprio quell’elemento per cui le persone l’avevano scelto in primo luogo. Dal punto di vista dell’economia è un perfetto esempio di tragedia dei beni comuni: tutti vorrebbero andare al pascolo, ma se ci andiamo tutti facciamo fuori il pascolo”.

    Un processo che proprio la già citata Isola descrive perfettamente. Da quartiere popolare, e poi anche alternativo, ha iniziato ad attirare una fascia di popolazione benestante attratta dalle sue particolarità, dalle botteghe artigiane, dal commercio di prossimità, dal clima “di paese” che si respira. Finché le botteghe artigiane non sono scomparse e al loro posto sono sorti decine e decine di ristoranti, sono stati innalzati grandi complessi abitativi di lusso e, infine, si è perduto proprio il clima che aveva affascinato in primo luogo. “La politica dovrebbe fare una cosa sola: stare attenta a non facilitare troppo quei processi che dissipano la ricchezza di cui sono fatte le città”, prosegue Granata. “Era quello che diceva Jane Jacobs: se passa una visione di un certo tipo si rovina proprio quello spirito del luogo che, nel suo caso, faceva di New York la New York che sogniamo”. 

    In una città come Milano – che espelle gli abitanti storici dei quartieri popolari (o ex popolari) per fare strada a chi investe, i cui prezzi per le case e per gli affitti la rendono quasi inavvicinabile ai giovani e che procede come un treno in una trasformazione che sembra beneficiare solo chi sta in alto – ci si rende conto di tutto ciò? Il sindaco Beppe Sala e i suoi assessori ne sono consapevoli? “Beppe Sala non solo lo ignora, nel senso più genuino del termine, ma non ne è neanche minimamente interessato, perché non ha un’anima poetica. È veramente un amministratore delegato nel pieno delle sue competenze e i suoi assessori saranno probabilmente della stessa scuola”.

    È necessaria un’anima poetica per guidare una città? Probabilmente sì, se si vuole vederne la gestione non solo in termini di bilanci, investimenti o ritorni di capitale, ma anche di socialità, di comunità, di spazi pubblici, di mix sociale e di convivenza. E anche per comprendere come una città pulita, sterilizzata e conformista non potrà mai essere una città che crea innovazione. “L’unica vera innovazione in un mondo insterilito nelle sue prassi ideative non può che nascere dal disordine, dai margini, per voce di chi è fuori dal coro, nasce per rotture e talvolta per assoluta casualità”, scrive Granata in Placemaker.

    La New York degli anni ’70, la Londra degli anni ’80, la Berlino degli anni ’90/2000. Se pensiamo alle città che più sono state in grado di innovare e creare non vengono certo in mente l’ordine e la pulizia. Al contrario. È un caso? “Non è un caso e questa cosa ha anche un suo nome preciso: biodiversità. Se un bosco è biodiverso sopravvive meglio a qualunque cambiamento: è la complessità intrinseca che fornisce resistenza a un luogo naturale. La stessa cosa vale per la città. Per esempio: dove si sono creati i grandi movimenti politici? Nelle pieghe, nei luoghi dove c’era confronto e conflitto. Oggi tendiamo ad avere luoghi molto più sterili: o perché sono tarati verso l’alto, verso le classi più abbienti, o perché hanno perso biodiversità. Se Beppe Sala lo capisse, capirebbe che Milano si trova su una traiettoria molto pericolosa e che ciò che l’ha resa grande negli anni passati rischia di perdersi: l’idea di un posto dove ci si ibrida, ci si mescola. Dove ci sono la moda e il design assieme al volontariato, alla chiesa e alle comunità immigrate. Se togli lo sporco, la varietà e il conflitto la città diventa meno fertile e si insterilisce. È tautologico, ma l’innovazione nasce dove ci sono i giovani: una città costosa, anziana e borghese difficilmente troverà spazio sullo scacchiere internazionale”.

    A una prima occhiata, potrebbe sembrare che una visione innovativa della città sia incarnata per esempio dalla Fondazione Prada. Un luogo che porta l’arte e la cultura in periferia, in cui un grande brand di alta moda issa la sua bandiera a due passi dalla ferrovia e dall’abbandono. Le cose, però, non sono così semplici: Elena Granata definisce la Fondazione Prada “un’isola preziosa”, una “piccola città ideale per l’arte contemporanea” ma incapace di generare “effetti di luogo” e di produrre “beni comuni godibili anche dal contesto locale”. In poche parole, nella Fondazione Prada – che la stessa Granata ammette essere un’eccellenza sotto molteplici punti di vista – “prevale un’assoluta mancanza di relazioni con il territorio circostante”.

    Come avrebbe potuto questa struttura dialogare di più con il quartiere? “Prima di tutto va detto che Prada non ha mai prestato attenzione a questi aspetti”, precisa Elena Granata. “La moda, in generale, è il settore meno interattivo e meno capace di integrazione, perché parla a un suo pubblico globale e internazionale. Il progetto di Rem Koolhaas sceglie un contesto periferico in virtù del fatto che gli conferisce una certa eccentricità, è economico e potenzialmente un grande investimento, visto che è a due passi da dove avverrà la riqualificazione dello scalo ferroviario. L’amministrazione è quel soggetto che dovrebbe chiedere conto di un ritorno di bene comune. Questa è la dinamica della contrattazione urbanistica: esigere dal privato una restituzione, che è ciò che in tutte le città del mondo viene fatto”.

    Nonostante questa restituzione non sia avvenuta in un’occasione in cui si è portata cultura in periferia, com’è il caso della Fondazione Prada, si è invece paradossalmente verificata con lo sbarco del più grande colosso della Silicon Valley in pieno centro città, dove uno scintillante negozio Apple ha sostituito lo storico cinema Apollo di piazzetta Liberty. In che modo un Apple Store offre un ritorno di bene comune? “In parte è una provocazione che dimostra come la mia visione non sia ideologica”, spiega Elena Granata. “Soprattutto però osservo quelli che sono gli effetti territoriali di un processo. Apple in questo caso ha fatto un’operazione molto evoluta: non solo tutto il negozio è all’insegna di un munariano ‘vietato non toccare’, ma contemporaneamente si è generato uno spazio ibrido, anche pubblico. Quella piazzetta è adesso un luogo che non chiude mai, dove i ragazzi si danno appuntamento, con gradinate sempre accessibili. C’è una ricaduta positiva anche sui cittadini”.

    Al di là dei singoli esempi positivi o negativi, quello che più in generale si nota è come “da tempo l’architettura ha perso il proprio ruolo di pungolo intelligente della società, la sua capacità di trasformazione reale dei luoghi e delle città, la sua capacità di generare visioni di lungo periodo”, come scrive Granata. Quand’è che si è persa? “Da almeno cinquant’anni, e in particolare in Italia, l’architettura è diventata ancella della politica, è subalterna agli interessi immobiliari, compiacente al potere costituito. Non propone un’alternativa”, accusa l’autrice di Placemaker. “L’architettura nasce per immaginare relazioni tra l’uomo e la natura, per risolvere le grandi questioni del nostro tempo: la disuguaglianza, la povertà, il bisogno di casa. Gli architetti hanno perso la voce e la capacità di critica e di protesta. È la prima disciplina che ha a che fare con noi, ma è l’ultima di cui ci occupiamo collettivamente”.

    E se una delle “visioni di lungo periodo” di cui c’è grande bisogno fosse quella della città dei 15 minuti, secondo cui ogni abitante di una città dovrebbe avere tutti i servizi a non più di un quarto d’ora a piedi? “Si tratta di un’intuizione geniale dell’urbanista colombiano Carlos Moreno, che è consulente della sindaca di Parigi Anne Hidalgo”, spiega Granata. “Allo stesso tempo è anche un messaggio elementare, che punta a riportare la dimensione del villaggio dentro le metropoli – che durante la pandemia hanno dimostrato di creare solitudine e disagio psicologico – senza rinunciare agli stimoli della grande città. Ci sono però degli elementi di paradosso: in Italia molte città medie hanno già questa caratteristica, mentre in altri casi c’è il rischio di perimetrare eccessivamente le persone. È comunque una metafora potentissima. E il suo successo racconta tanto della nostalgia di comunità che c’è nelle città”.

    Note