Verso un nuovo paradigma progettuale per la rigenerazione urbana

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    Questo contributo fa parte di una serie di approfondimenti in collaborazione con il Master U-RISE dell’Università Iuav di Venezia sul rapporto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale che vuole discuterne gli impatti socio-spaziali, raccontare pratiche virtuose e allo stesso tempo imparare da ciò che non ha funzionato.
    I docenti del Master U-Rise Marcello Balbo e Elena Ostanel (Università Iuav di Venezia), Ilda Curti e Davide Bazzini (IUR – Innovazione Urbana e Rigenerazione), Paolo Cottino (direttore tecnico di K-City Milano) e Nicoletta Tranquillo (Kilowatt Bologna) ci accompagneranno in queste settimane con le loro analisi e riflessioni. Buona lettura.


    Le città continuano ad essere “piene di vuoti”. Alla diffusione del consenso per gli obiettivi di contenimento del consumo di suolo – che negli ultimi anni sta ampiamente segnando tanto la sfera politica quanto la sensibilità collettiva – non ha corrisposto, almeno finora, un altrettanto significativo incremento delle pratiche di riconversione del dismesso. Per quanto quello del riuso e del recupero di spazi industriali e immobili inutilizzati nei contesti urbani sia identificato come il mercato del futuro – secondo i calcoli del World Economic Forum stimato in 1.600 miliardi di dollari -, oggi resta ancora enorme, almeno nel nostro paese, la differenza tra il respiro del dibattito e l’incidenza delle pratiche reali. L’interrogativo circa il “come far partire la rigenerazione?” resta di stretta attualità.

    Complici senza dubbio la congiuntura economica e un sistema normativo che non ha saputo ancora individuare i giusti meccanismi incentivanti, per quanto riguarda le aree industriali dismesse di dimensioni medio-grandi, quella che potrebbe e dovrebbe essere la stagione del rilancio si traduce in una condizione di sostanziale impasse. Gli operatori economici privati, di fronte a un mercato che dimostra chiaramente di non rispondere più ai classici contenuti dei progetti di sviluppo immobiliare (in aggiunta all’incertezza per i costi di bonifica e alla complicazione procedurale che continua a contraddistinguere le pratiche urbanistiche) preferiscono assumere un atteggiamento attendista; in questo modo per le Amministrazioni Locali viene meno uno dei principali meccanismi di generazione delle risorse a cui in passato si era affidata l’implementazione della città pubblica. Da ciò discende un sentimento di insoddisfazione – che in molti casi diventa disillusione – da parte della società, che vorrebbe riappropriarsi di porzioni di territorio degradate.

    Spostando però l’attenzione ad una scala più ridotta, quella di singoli immobili e delle aree di piccola dimensione, si può invece rilevare un maggior dinamismo delle iniziative di riuso, se non in termini quantitativi senz’altro sul piano qualitativo. Nei contesti urbani, in molti casi con il sostegno di Fondazioni, enti e politiche, sono da tempo in atto interessanti esperienze di innovazione legate alla riconversione del patrimonio inutilizzato: nuove funzioni per vecchi contenitori, mix funzionali originali, soluzioni inedite e integrate ai bisogni e alle domande di servizi urbani, che contribuiscono a generare effetti di coesione sociale e dinamizzazione dei contesti territoriali. Un importante settore degli di studi urbani è da almeno due decenni impegnato a riconoscere e approfondire la rilevanza di questo genere di esperienze. In una prima fase si trattava soprattutto di iniziative promosse e portate avanti come forme di resistenza e pratiche di conflitto o come esperienze di riconversione delle competenze del terzo settore entro una logica di welfare parallelo a base comunitaria. Modelli a forte connotazione “sociale” a cui anche le istituzioni, oltre all’accademia, hanno recentemente attribuito la capacità di contribuire “dal basso” e al di fuori dei meccanismi di mercato alla rigenerazione dei tessuti comunitari (community hub).

    Più recentemente, proposte innovative di riuso hanno cominciato ad emergere anche all’intersezione tra domande diffuse e uno spettro variegato di interessi e di opportunità, dando vita a modelli di business o di policies sostenibili e potenzialmente replicabili. Su questo genere di casistiche si è focalizzata la mostra “New Urban Body”[1] – ideata da un team curatoriale di cui ho fatto parte – che ha voluto evidenziare come nel contesto degli ecosistemi urbani contemporanei, stiano fiorendo organismi ibridi rispetto alle classiche categorie funzionali, improntati a criteri di sostenibilità che superano le tradizionali distinzioni tra sfera sociale e sfera economico-commerciale. Iniziative che, esplorando l’integrazione possibile tra logiche di mercato e modelli collaborativi, propongono interventi di riuso dei vuoti urbani generatori di ricavi e al contempo di impatti locali rilevanti sul piano della soddisfazione efficace di domande collettive.

    La considerazione di queste casistiche mi pare possa e debba indurre un avanzamento del dibattito sul rapporto tra “rigenerazione urbana e innovazione sociale”, al cui interno finora ha prevalso la focalizzazione sul riconoscimento del ruolo trainante e delle capacità d’invenzione dimostrate dai protagonisti delle esperienze della prima fase, “gli innovatori sociali”. Ci troviamo oggi di fronte, infatti, a situazioni meno connotate dall’impulso di matrice “sociale”, per la cui attivazione pare piuttosto decisiva la scoperta della convenienza alla collaborazione tra soggetti mossi dai rispettivi interessi. Pare dunque maturo il tempo per interrogarsi seriamente sulle condizioni oggettive che possono contribuire ad inscrivere questi modelli di innovazione sociale nelle pratiche ordinarie di trasformazione della città.

    Questo vuol dire promuovere una certa idea della rigenerazione urbana: anziché un ambito settoriale strutturato attorno al consolidamento di una nuova community di operatori (city makers), piuttosto una possibile traiettoria di riorganizzazione del campo di gioco dello sviluppo urbano, indirizzata ad offrire ad uno spettro ampio e diversificato di attori (vecchi e nuovi) la possibilità di cimentarsi con logiche e modelli di valorizzazione del patrimonio diversi dal passato. Un campo d’azione che è utile definire city making proprio per sottolineare un modus operandi più simile alla pratica dell’assemblaggio di risorse e soluzioni eterogenee tipica dell’agire artigiano, che non agli approcci tradizionali del city building (focalizzato sulla componente fisico-costruttiva) e city planning (che evoca una dimensione di controllo normativo e astratto delle trasformazioni).

    Sul piano teorico in anni recenti la letteratura ha ampiamente contributo a tematizzare il vero e proprio cambio di paradigma che si va configurando attorno ai processi di city making: soprattutto per merito del dibattito legato alla prospettiva dei beni comuni, è maturata l’idea che, per dare nuovo slancio agli investimenti immobiliari, si debbano perseguire modelli alternativi in cui la generazione di valore sociale, il coinvolgimento delle communites e l’investimento in valore intangibile, diventino parte integrante delle azioni di sviluppo. Una visione che comincia a interessare anche il mondo degli sviluppatori (a cominciare dai fondi immobiliari) che riconoscono al capitale sociale il ruolo di potenziale fattore strategico per garantire l’efficacia delle operazioni e per restituire ai propri asset il valore disperso.

    Sul piano pratico, tuttavia, pare ancora immatura la riflessione volta ad identificare i risvolti operativi di questa visione e quindi i cambiamenti dell’approccio e del metodo progettuale abbinati al nuovo paradigma. Di certo c’è che, di fronte a questa sfida, gli approcci progettuali tradizionali appaiono evidentemente insufficienti, quando non del tutto inadeguati: per sciogliere la situazione di impasse delle aree dismesse medio-grandi, un masterplan urbanistico – quand’anche fortemente ispirato a principi di “ricucitura”” – e una nuova normativa più flessibile, da soli, hanno dimostrato di potere poco. E’ la stessa cultura del planning che sembra essere chiamata ad un processo di radicale rinnovamento, tramite un importante spostamento di attenzione dalla funzione soltanto “compositiva” e “regolativa”, ad una funzione eminentemente “promozionale” della pianificazione. Serve, infatti, una lavoro volto innanzitutto ad esplorare sul campo le opportunità di azione, a studiare interventi dimostrativi e ad accompagnare i processi, creando “trading zone” entro cui risultino visibili e concrete le convenienze reciproche che possono legare gli obiettivi degli attori e indurli a cooperare, come alternativa preferibile agli atteggiamenti attendisti.

    Da questo punto di vista certamente non basta, per quanto importante, l’appello alla multidisciplinarietà, che il dibattito ha da tempo fatto proprio come mantra metodologico abbinato alla rigenerazione urbana e che si sta diffondendo con intensità simile al discorso sul contenimento del consumo di suolo. Questo è particolarmente vero soprattutto se i prodotti progettuali che vengono richiesti dalle Amministrazioni agli operatori restano legati ad aspetti fisico-formali e principalmente chiamati a soddisfare i vincoli procedurali dei tradizionali meccanismi di pianificazione. Vi sono invece aspetti che da sempre occupano uno spazio residuale nel campo della progettazione urbana e che invece all’interno del nuovo paradigma possano risultare decisivi per rinnovare il contenuto dei progetti di rigenerazione: gli aspetti “strategici”, gli aspetti “di processo” e gli aspetti di “governance”. Non a caso all’interno della mostra, i new urban bodies sono descritti, prima di tutto, come progetti segnati da

    • Visioni innovative rispetto alla combinazione tra temi, problemi, attori e opportunità
    • Concatenazioni di azioni e interventi organizzati nel tempo e nello spazio
    • Percorsi di aggregazione progressiva di competenze e interessi in coalizioni di progetto

    Si tratta di aspetti che possono essere quindi individuati – oltre che come chiavi di lettura per rileggere le esperienze di successo e identificare le condizioni di loro replicabilità – anche come specifici ambiti di attenzione per il city making. Con l’obiettivo di dar progressivamente corpo ad un nuovo paradigma progettuale di riferimento per la rigenerazione urbana, si tratta di lavorare a stratificare attorno ad essi, pensieri, modelli e riferimenti per la progettazione a partire dalle esperienze e dalle ricerche in questo campo.

    In questa sede comincio ad evidenziare alcuni spunti, tra quelli generati dalle attività di KCity negli anni più recenti, che mi paiono più pertinenti.

    1. La precedenza al progetto “funzionale”.
    La stessa esistenza dei vuoti urbani – che evidenzia la necessità di ripensare gli equilibri tra la parte hardware e la parte software dei contesti territoriali – di per sé impone di ricalibrare l’attenzione progettuale dando maggior spazio al tema funzionale. Tradizionalmente, infatti, lo sviluppo urbano si è affidato al ruolo traino di certi settori di domanda (tipicamente la residenza generica e il commercio su grande scala), a cui si agganciava la realizzazione di format consolidati di servizi di interesse pubblico: in altri termini, potendo dar per scontata l’esistenza della domanda per certi “contenuti” funzionali, la progettazione si concentrava sulla progettazione dei “contenitori”. Oggi, invece, il problema sembra ribaltato: di fronte alla consistente offerta di contenitori da riutilizzare, il problema più spinoso è legato alla individuazione dei contenuti funzionali che possano garantire sostenibilità agli interventi e al contempo promuovere il miglioramento della qualità urbana e la soddisfazione di alcune esigenze collettive.

    A tal fine, prima ancora di fare i conti con le possibilità offerte dagli spazi fisici, è decisivo saper analizzare i contesti territoriali dal punto di vista degli usi, riconoscerne le vocazioni e le potenzialità e progettare scenari di valorizzazione che abbiano reali chances di domanda. Ad esempio, il parametro della mixitè è stato assunto in un recente lavoro che KCity ha realizzato per conto del MIBACT[2] come criterio per indagare le qualità e/o le debolezze dal punto di vista funzionale, per integrare le rappresentazioni della condizione periferica legate agli aspetti di degrado edilizio (IDE) e di disagio sociale (IDS) utilizzati dai recenti bandi nazionali, e in generale con l’obiettivo di fornire spunti alla progettazione degli interventi di rigenerazione che sono sempre più frequentemente chiamati a promuovere rivitalizzazione sociale, culturale ed economica dei territori tenendo conto della dotazione garantita dal contesto territoriale più allargato.

    2. La pianificazione di azioni incrementali.
    La complessità della sfida e l’incertezza del mercato suggeriscono di procedere alla ricerca di nuovi equilibri agendo in modo simultaneo e integrato su un doppio livello: da una parte quello della visione strategica di lungo periodo e dall’altra quello dell’azione sperimentale e di breve periodo, capace di generare impatti e forme di apprendimento in corso d’opera. Un impulso in questa direzione è dato dalla consapevolezza di non essere più nelle condizioni di poter pianificare tutto subito, come tradizionalmente si faceva, e dalla necessità di adottare un approccio eminentemente sperimentale, che spinge a procedere secondo una logica incrementale e graduale. Al posto dei classici piani urbanistici, ciò che può essere utile redigere sono piuttosto dei piani di sviluppo “incrementale”, intesi come articolazione spazio-temporale di un sistema di iniziative da cui ci si attendono effetti ed impatti molteplici e concatenati l’uno all’altro. Implementando un approccio esplicitamente ispirato a quello che Alan Mallach, planner americano contemporaneo, ha definito “incrementalismo strategico”, a Ferrara KCityé[3] ha provato a modellizzare un format di processo che scommette sulla costruzione condivisa di scenari strategici e sulla riattivazione graduale delle aree a partire da progetti pilota e dal lavoro di progressiva aggregazione di comunità di progetto composte da soggetti interessati alla loro attuazione. In questo caso il masterplan di rigenerazione di una grande distilleria dismessa, anziché come piano di organizzazione al futuro degli spazi disponibili per funzioni già prefigurate, è stato pensato come un sistema di azioni (tangibili e intangibili) che, inscritte all’interno di una generale visione al futuro, risultino realizzabili nel breve periodo concorrendo alla creazione cumulativa delle condizioni per la nuova attrattività e lo sviluppo dell’area.

    3. La negoziazione di meccanismi win-win.
    La fattibilità delle iniziative di rigenerazione si affida alla valutazione delle reali possibilità di innovare i termini del rapporto tra pubblico e privato, introducendo modelli riferibili più ad una logica win-win che non ai classici meccanismi di compensazione a cui si è affidata l’urbanistica. Questo implica di esplorare le possibili forme di azione congiunta pubblico-privato rivolte alla attivazione di tutte le risorse necessarie a promuovere un determinato intervento e alla loro integrazione in fase realizzativa.

    A tal fine, in molti casi, si sta rivelando necessario che, rispetto al passato, il pubblico rinunci a massimizzare il ritorno monetario dello sviluppo privato del territorio e il privato accetti di dilatare le tempistiche di ritorno dell’investimento. E’ ad esempio il caso del modello di partenariato a cui si è affidato il programma “Reinventer Paris” – e che attraverso l’iniziativa Reinventing cities è oggi in corso di sperimentazione in tutto il mondo: nuovi beni comuni urbani progettati all’intersezione tra opportunità di mercato e obiettivi delle politiche pubbliche e realizzati attraverso il concorso sia della pubblica amministrazione che dei privati. Il meccanismo ruota attorno all’alienazione di immobili e aree pubbliche inutilizzate a condizioni che, pur mantenendo la convenienza per il privato, prevedano un vincolo temporaneo di destinazione e la gestione da parte di quest’ultimo di funzioni di interesse collettivo di cui l’amministrazione non riesce a farsi carico.

    L’esperienza parigina – che KCity ha studiato per conto di Regione Lombardia come buona pratica di riferimento per definire nuove procedure partenariali con cui soddisfare gli obiettivi di incremento dell’offerta privata di housing sociale[4] – ha fornito un esempio di come l’organizzazione di modelli di innovazione sociale per la rigenerazione sia strettamente legata alla progettazione di meccanismi di sinergia tra gli interessi dei diversi attori, secondo modelli più complessi e articolati di quelle a cui ci ha abituato la cultura degli standard urbanistici.

    Evidentemente si tratta in questo caso soltanto di brevi e parziali appunti (oltretutto riferiti a questioni di fattibilità per molti aspetti ancora irrisolte), che tuttavia ho voluto utilizzare per chiarire alcune possibili direttrici di ridefinizione del focus dell’attività progettuale riferita al nuovo paradigma della “rigenerazione urbana”. È, in sostanza, verso questo genere di tematizzazioni e alla ricerca del riscontro offerto dalle pratiche, che ritengo sia opportuno orientare gli sviluppi della riflessione su “rigenerazione urbana e innovazione sociale”: l’obiettivo è quello di mettere virtuosamente in tensione le riflessioni relative al “che fare” con aspetti inerenti il “come fare”, all’interno di un campo d’azione, quello della rigenerazione urbana, che si prospetta tanto più efficace quanto più ampio sarà lo spettro di attori a cui riuscirà a garantire la possibilità di essere city makers.


    1 La mostra “New Urban Body. Esperienze di generazione urbana”, promossa da Fondazione Cariplo e Fondazione Housing Sociale è stata inaugurata presso la Triennale di Milano lo scorso dicembre 2017 e da allora sta seguendo un percorso itinerante in diverse città italiane. Sul sito http://www.newurbanbody.it/ è disponibile una ampia selezione dei contenuti e dei materiali esposti.

    2 L’incarico affidato a KCity dalla Direzione Generale Arte, Architetture Contemporanee e Periferie urbane del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo nel 2016 ha portato alla realizzazione dell’ Atlante delle periferie funzionali metropolitane scaricabile liberamente dal sito http://www.aap.beniculturali.it/atlante_periferie_funzionali.html

    3 A Ferrara KCity è stata incaricata dalla società Real Estate Ferrara e dalla SECI RE del gruppo Maccaferri di organizzare e condurre un percorso di progettazione multistakeholder finalizzato alla costruzione dei contenuti di un nuovo accordo di sviluppo per l’area da proporre alla Amministrazione Comunale: il format metodologico concepito ad hoc in quest’occasione, che è stato insignito del Premio Urbanistica 2017 promosso da Urbit-Urban Promo e INU rivista Urbanistica del Premio Urbanistica 2017, è ampiamente descritto all’interno del volume: P.Cottino, D.Domante, Innescare la rigenerazione.Spazi alle comunità come driver di sviluppo delle aree dismesse, Pacini Editore, Pisa, 2017 http://www.pacinieditore.it/innescare-la-rigenerazione-2/ 

    4 Nel corso del 2016 KCity è stata chiamata a supportare l’Ente regionale di ricerca, Polis, nella individuazione di modelli e strumenti per favorire la nascita di comunità intelligenti al fine di contribuire alla crescita dell’attrattività e polarità urbana: in tale contesto è maturata la decisione di approfondire l’epsperienza parigina che è diventata il case-study di riferimento cui è stata dedicato un approfondimento monografico, in larga parte confluito all’interno del volume: P.Cottino, Reinventare le città. Riuso del patrimonio e innovazione sociale per la rigenerazione urbana, INU Edizioni, Roma, 2017, liberamente scaricabile (previa registrazione) dal sito http://www.inuedizioni.com/it/prodotti/pubblicazione/reinventare-le-citt%C3%A0 


    Immagine di copertina: ph. Ryoji Iwata da Unsplash

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