Le coordinate geografiche non bastano a descrivere che cosa sia, per gli abitanti delle città, la periferia. Non è semplicemente l’area indefinita che sta tra il centro e l’hinterland: se così fosse, una zona di periferia sarebbe destinata a rimanere per sempre tale e non sarebbe possibile quella mutazione invece attraversata da alcuni quartieri (che oggi potremmo quasi definire “ex periferie”). Lasciando quindi da parte la (sola) bussola geografica, le periferie – spiega Francesca Cognetti nel volume Periferie del cambiamento (Quodlibet), curato assieme a Daniela Gambino e Jacopo Lareno Faccini – sono “parti di città dove si concentrano situazioni di fragilità sociale, qualità urbana inadeguata e servizi scadenti”.
In quanto tali, inevitabilmente, queste parti di città possono cambiare: “Le periferie contemporanee non rappresentano contesti statici e immutabili, ma piuttosto ‘territori in bilico’, quartieri tra ‘incertezza e trasformazione’ legati a diverse traiettorie e forme di recupero urbano (…). Se questi fenomeni sono importanti per introdurre principi di cambiamento, in alcuni casi diventano la miccia per dinamiche spinte di trasformazione, ricambio degli abitanti, innalzamento dei valori immobiliari, con una conseguente fuoriuscita delle persone più povere e con minori risorse sociali”.
In una parola: gentrificazione. Che può riguardare – scrive sempre Cognetti – non solo le periferie consolidate, ma anche “piccoli frammenti o enclaves” in prossimità di vecchie e nuove aree centrali; condizioni che rimandano a un “arcipelago di isole”. Per chiunque abbia vissuto la Milano degli ultimi decenni, sentir parlare di “isole”, “enclave” e “innalzamento dei valori immobiliari” non può che portare alla mente quanto avvenuto proprio in Isola, quartiere enclave per definizione (da cui il nome) e dove l’innalzamento dei valori immobiliari ha raggiunto livelli che lasciano a bocca aperta (ecco a voi un monolocale di 25 metri quadri affittato a 1.550 euro al mese).
L’Isola è anche il quartiere che ho abbandonato sul finire del 2020, dopo averci vissuto per otto anni e dopo averlo frequentato intensamente già dagli anni dell’università, quando era la zona dei centri sociali (e non solo, ovviamente). Se la periferia è un “territorio in bilico”, l’Isola era senza ombra di dubbio tale, nonostante la collocazione semi-centrale (addirittura all’interno della circonvallazione). Oggi nessuno si sognerebbe più di definire l’Isola un quartiere di periferia, e anche il carattere di enclave è stato in parte smarrito con il varo di piazza Gae Aulenti, che ha creato letteralmente un ponte con il centro.
Per molti l’Isola è ormai un caso scuola di gentrificazione guidata dall’alto e che ne ha modificato irreversibilmente lo spirito; in altri abitanti prevale invece la visione più ottimista dell’esperimento sociale, che prova a tenere insieme, in un complicatissimo mix, la vecchia anima proletaria e artigiana, quella alternativa degli anni ‘90/2000 e quella odierna dei giovani ricchi, che usciti dal Bosco Verticale passeggiano lungo i marciapiedi delle dirimpettaie case popolari di via Confalonieri in pantofoline Gucci.
Mix sociale o gentrificazione estrema? Difficile a dirsi, soprattutto per chi, come me, è digiuno di sociologia urbana ed è pure arrivato nel quartiere quando il cambiamento era ormai avvenuto (o era almeno avvertito come inevitabile: Gae Aulenti e il Bosco Verticale erano nella fase iniziale della costruzione). E poi è giunto anche il mio turno: i prezzi stratosferici mi hanno espulso da un quartiere al quale ero legato da un senso di appartenenza e di comunità. Ero arrivato in Isola a gentrificazione già avanzata, ma non abbastanza avanzata da evitare di essere a mia volta gentrificato. E così ho attraversato una di quelle “cerniere tra dentro e fuori” (come vengono definite in Periferie del cambiamento), rappresentata da queste parti da viale Jenner. Mi sono inoltrato in piazzale Maciachini e poi ho trovato nuova casa a Dergano, quartiere non ancora (troppo) sotto i riflettori ma chiaramente in ascesa.
Spinto fuori dall’Isola sono giunto a mia volta a fare pressione su un quartiere che si percepisce ancora come periferia (la confinante Bovisa, per noi milanesi nati nel nord della città, era il sinonimo stesso di periferia, mentre Quarto Oggiaro era praticamente hic sunt leones). Adesso sono io il gentrificatore: l’ex abitante dell’Isola giunto nel nuovo “quartiere soglia”. E come me tanti altri amici o conoscenti già arrivati o in procinto di insediarsi.
Anche qui si sta ricreando quella situazione ormai da cliché metropolitano: tra edifici fatiscenti, abbandonati o occupati iniziano a spuntare coworking, poke, caffè letterari, cinema di quartiere e una miriade di studi professionali e/o creativi. Sono segnali ormai inequivocabili di trasformazione, assieme ai prezzi delle case che non smettono di crescere nonostante la pandemia. Contestualmente, prendono anche qui forma, scrive sempre nel volume Erika Lazzarino (parlando però di via Padova), quegli “interventi temporanei o circoscritti o irrelati, i quali testimoniano la grande intenzionalità delle reti locali (di abitanti, professionisti o commercianti), piuttosto che la presenza di una regia d’insieme con una visione di cambiamento complessivo”.
Un cambiamento ancora in essere (e che non si sa dove porterà) dalla natura però diversa da quello che ha travolto l’Isola, beneficiaria e vittima della trasformazione urbana pianificata che ha coinvolto i dintorni di Garibaldi. Fatte le dovute differenze, la dinamica in atto a Dergano (comunque legata alla pressione dell’Isola) ricorda più quanto già avvenuto a NoLo, anche per via del facile parallelismo tra via Padova e via Imbonati, per le quali si è sempre sprecato il termine “casbah” e al fianco delle quali (o quasi) sorgono i rispettivi quartieri.
A contraddistinguere NoLo (Nord Loreto) non è solo il fatto che i nuovi abitanti si sono auto-attribuiti un nome completamente nuovo, ricalcando i meccanismi newyorchesi alla SoHo (South of Houston Street) o NoLita (North of Little Italy), ma anche il fatto di essere il più vistoso caso milanese – superiore anche a quello dell’Isola – di creazione praticamente dal nulla di un vero e proprio brand territoriale. Modelli di periferia (o ex periferia?) in cui – scrive ancora Lazzarino – “i nuovi abitanti e soggetti del cambiamento sono portatori di innovazione e invenzione sociale rispetto a temi che potenzialmente potrebbero bene riconoscere e includere in quella via Padova che necessita di tempi di trasformazione diversi. Siamo infatti di fronte a un territorio con caratteristiche disomogenee, che entrano fra loro in tensione e potenzialmente in frizione”.
Problemi ormai noti e diversi da quelli che caratterizzano altri due tipi di periferia esaminati nel saggio pubblicato da Quodlibet, quella ai più sconosciuta del Quartiere Adriano e quella invece da sempre marchiata dall’etichetta di “periferia brutta” di Corvetto, dove “gli storici isolati di Edilizia Residenziale Pubblica (…) rappresentano nell’immaginario collettivo della città l’intero quartiere”, scrive Jacopo Lareno Faccino. Al punto che “per molti essere di Corvetto significa essere abitanti di questi caseggiati e molti del Corvetto ‘di fuori’ preferiscono il nome della propria via che quello del quartiere, perché lo stigma ti pesa addosso”.
Eppure anche un quartiere che già negli anni ’90 campeggiava su improbabili t-shirt “Korvetto Komanda” inizia ad avvertire il cambiamento che attraversa la zona appena più a nord, nell’area tra piazzale Lodi e Calvairate ormai punteggiata da Fondazione Prada, spazi creativi come Open Dot (più precisamente un “fab lab”, fabrication laboratory), coworking come Talent Garden e altri. Sull’altro versante, appena prima che la città lasci strada al Parco Agricolo Sud, ci sono invece le Colonne d’Ercole rappresentate da quel Porto di Mare che per la maggior parte dei milanesi rappresenta una remota stazione della metropolitana dal nome indecifrabile (e che deriva, si legge sempre nel saggio, dalla mancata costruzione in quest’area di una nuova darsena).
Nelle loro differenze e peculiarità (zone semi-centrali, quartieri di nuova concezione, di recente costruzione o di pessima fama), è evidente come sia anche – se non soprattutto – nelle periferie che si mettono in moto le nuove dinamiche di appartenenza alla città. La principale risorsa, conclude Cognetti, “è rappresentata dalle persone che abitano in questi quartieri e si attivano per essi. (…) Fuori dalle retoriche che vorrebbero le periferie come il luogo più degradato o come il territorio riappacificato e ricomposto grazie all’azione dei suoi abitanti, credo che sia interessante vedere in questo luoghi un potenziale espresso in termini di generazione di una nuova cittadinanza e welfare locale”. Quartieri che diventano anche “luoghi di sperimentazione di nuove pratiche di convivenza tra diversi, per esempio in termini intergenerazionali e interculturali”.
C’è anche una tendenza a vivere questi quartieri come paesi chiusi in sé stessi, forse provocata dal graduale allontanamento dal centro che rende inevitabile provare a ricreare una città all’interno del quartiere stesso. Più si allargano le maglie della città, più si va in cerca di soluzioni interne e si assiste alla chiara volontà di “avviare propositi più strutturati che incidono sulla quotidianità per la riattivazione, per esempio, del piccolo commercio di prossimità, la fruizione quotidiana delle grandi aree verdi, l’insediamento di nuovi servizi ricreativi (come un cinema) e per le famiglie (come i doposcuola). (…) Si tratta quindi di individuare le leve per il rafforzamento dei legami infra-comunitari e di cittadinanza attiva, in alcuni casi già in essere, come ad esempio il tema dell’integrazione dei migranti, della cura dei piccoli elementi urbani, della valorizzazione di alcuni ‘sistemi di vita’ (le social street) o del racconto storico-culturale del territorio”.
È anche così che si forma quella narrazione del proprio quartiere esemplificata con successo da NoLo (e prima ancora da Lambrate) e che rappresenta – o almeno questa è la mia percezione soggettiva – una novità rispetto al passato, quando gli unici quartieri che potevano vantare un senso di appartenenza erano quelli il cui “brand” era esclusivamente legato all’essere zone che fanno brutto (con Quarto Oggiaro e Corvetto agli antipodi geograficamente e affiancate idealmente). Non è più così: il sentimento di appartenenza al proprio quartiere si diffonde in tutte le zone che prendono coscienza della loro identità, sperimentando modi di abitare più sociali e condivisi e abbandonando uno stile di vita riassumibile nel “lasciare l’auto nel box e salire a casa in ascensore”.
Forse il senso di appartenenza al proprio quartiere aumenta mano a mano che il centro città si fa più distante e inaccessibile. Come evitare che questa dinamica di attivazione delle periferie si trasformi in una colonizzazione a spese degli abitanti storici e degli immigrati – espulsi in zone sempre più marginali – è la domanda a cui va però trovata urgentemente risposta.
ph. copertina di Andrea Daniele Signorelli
Il volume esplora il significato e il ruolo delle periferie urbane nella città contemporanea, prendendo avvio da un’esperienza di ricerca e attivazione durata oltre due anni in diversi quartieri di Milano, maturata all’interno del programma Lacittàintorno di Fondazione Cariplo.