Milano oltre l’innovazione

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Con la vittoria di Pisapia nel 2011 Milano entrò in una fase nuova, lasciandosi alle spalle un ventennio legato alle destre. I motivi di questa svolta furono molti, ma un contributo fondamentale arrivò da un fronte civico inedito, formato da soggetti della società civile, attivisti dei movimenti e nuove soggettività politiche progressiste del ceto medio, divenute tali fuori dai corpi intermedi tradizionali.

    La sensazione di cambiamento era fortissima.

    Il giorno della proclamazione dei risultati elettorali, Piazza del Duomo si riempì di una folla eterogenea di raver, pensionati e manager, uniti e festanti sotto un arcobaleno impossibilmente scenografico che solcava il grigio cielo di Lombardia.

    Negli anni successivi sono successe molte cose, che hanno trasformato il panorama politico – e quello urbano – in modo veloce e spesso difficile da comprendere. Tanto per iniziare, l’arrivo in città di Expo nel 2015 si è fatto sentire. Non solo perché ha contribuito in modo decisivo all’elezione di Sala, e quindi ad un netto spostamento verso il centro e verso uno stile di governo più accentratore. Ma soprattutto perché – come è chiaro da decenni per i ricercatori – i grandi eventi funzionano sì da acceleratori di grandi effervescenze economiche, ma anche da attivatori di grandi e piccoli traumi urbani.

     

    È guardando a questa ambivalenza che si possono leggere i processi di riqualificazione come Darsena, Garibaldi-Repubblica o Citylife. Completando percorsi iniziati nel decennio precedente, hanno portato ad una “scoperta” fuori tempo massimo delle architetture iconiche come strumento di city branding (elemento che accompagna da sempre i grandi eventi).

    E sempre a proposito di “scoperte”, tra queste c’è stata anche quella della dimensione di quartiere. Milano ha scoperto le zone pedonali, le piazzette, gli spazi all’aperto, i luoghi dove oltre che lavorare si potesse passare anche del tempo di qualità. Questo ha implicato il doversi misurare, fin da subito, con la gentrificazione e con i processi di impoverimento sociale, culturale ed economico che comporta.

    Più in generale, le briglie sciolte per lo sviluppo immobiliare privato hanno portato all’esasperazione di alcune criticità di primissimo piano: la finanziarizzazione dell’urbano; la progressiva espulsione dei meno abbienti dai confini municipali, o la loro invisibilizzazione sistematica; il generale affaticamento di una classe media impoverita che ha visto ridurre ulteriormente il proprio potere d’acquisto; la mancanza di attenzione all’edilizia residenziale pubblica, con conseguente inasprimento delle disuguaglianze collegate a quelle abitative; la “piattaformizzazione” della città nella logica degli affitti temporanei; il prosciugamento del dialogo con i movimenti sociali legati alle occupazioni e al “diritto alla città”.

    Nonostante (o meglio, grazie a) queste ambiguità, Milano è divenuta sempre più effervescente, ricca, veloce, ricettiva, in decisa controtendenza rispetto a molte altre città italiane, incupite dal tramonto di mitologici passati industriali, affogate dalle folle del turismo intercontinentale o affaticate da decenni di malgoverno. Questo è accaduto in stretta relazione con l’esplosione di una vitalità culturale senza precedenti, caratterizzata – da un lato – dalla proliferazione di gallerie d’arte, nuovi centri culturali, location per la musica dal vivo, club per la musica elettronica e – dall’altro – dalla nuova centralità di istituzioni culturali tradizionali, variamente neonate o rinnovate. Se prima la sua identità culturale era connessa a settori relativamente limitati, nel giro di pochi anni è divenuta semplicemente la città più culturalmente attrattiva del paese, il nuovo place to be.

    L’innovazione culturale è stata la risposta di molti paesi occidentali alla de-industrializzazione, a parte dalla convinzione che fosse possibile costruire “macchine urbane della crescita” a partire dalle Industrie Culturali e Creative e dalla ricaduta del loro valore simbolico su altri comparti.

    In questo panorama, ruoli importanti sono stati giocati dall’insorgenza (o consolidamento) di nuovi campi di produzione sociale: l’innovazione tecnologica, quella sociale e quella culturale. Un insieme variegato di pratiche, attori e significati che, interagendo tra loro, hanno costruito un orizzonte di senso inedito.

    Sono storie che arrivano da lontano. L’innovazione tecnologica è nata dal milieu californiano degli anni ’70, dove la cultura ingegneristica delle grandi università si è sposata con l’afflato sperimentale delle controculture dando vita alle mega-corporation dell’IT che oggi disegnano le nostre vite. Come cornice di produzione sociale è arrivata in Italia solo alla fine degli anni ’00, trovando in Milano la piattaforma per prosperare.

    L’innovazione sociale è nata in molti luoghi, ma è soprattutto la risposta della Terza Via del Blair di fine anni ’90 alla contrazione dello stato sociale: un modo nuovo di rispondere ai bisogni di una società in trasformazione appaltando funzioni a soggetti privati o a forme diffuse di attivismo civico. Tra molte contraddizioni, ha avuto il merito di trasformare profondamente il terzo settore e il settore cooperativo, iniettandovi nuovi sguardi, strumenti ed energie.

    L’innovazione culturale è stata la risposta di molti paesi occidentali alla de-industrializzazione, a parte dalla convinzione che fosse possibile costruire “macchine urbane della crescita” a partire dalle Industrie Culturali e Creative e dalla ricaduta del loro valore simbolico su altri comparti. Nella declinazione assunta in Italia (e in particolare modo a Milano) questo campo di produzione ha assunto due declinazioni, complementari: la proliferazione di nuove micro-imprese nel settore culturale e il tentativo (riuscito solo in parte) di innovare i processi organizzativi delle industrie culturali tradizionali.

    Una parte importante del Modello Milano si è nutrita di questi mondi, fatti di crowdfunding, start up creative, sharing economy, coworking, social caffé, community hub, mercati rionali rigenerati, social street, comunità di vicinato, imprese sociali, orti urbani, urbanisimo tattico, bar camp, audience development, arte urbana, street art e molte, moltissime altre cose.

    Si tratta di pratiche, immaginari, forme organizzative e del lavoro diversificate e polifoniche, che spesso hanno contribuito a rendere la città più interessante, gradevole e – almeno in parte – più vivibile. Per alcuni comparti che ne avevano decisamente  bisogno – come il terzo settore, i mondi cooperativi e quelli della cultura – ha comportato una scossa benefica che ha indirizzato sul territorio nuove risorse e competenze, proprio mentre le politiche nazionali continuavano a tagliare imperterrite.

    Nei mesi precedenti l’arrivo della pandemia, però, si iniziavano a percepire alcune note stridenti, generate da domande sulla reale portata trasformativa di queste pratiche sulle disuguaglianze urbane. E non solo dal punto di vista dei gruppi più sociali più marginali, ma anche da quello del ceto medio.

    In molti spazi di dibattito, dal vivo ed online, si era andata radicalizzando una polarizzazione tra ottimisti (“Milano è la città più bella d’Italia”) ed estrattivisti (“Milano è solo per i ricchi, ci spolpa e poi ci butta”). Se questa contrapposizione aveva prevalentemente una funzione retorica (quando non di esplicito self-branding per imprenditori morali locali), era chiaro che alcuni nodi stavano venendo al pettine. Assieme ai molti – incontestabili – elementi positivi, il Modello Milano si stava confrontando con alcuni grandi problemi culturali e politici.

    In molti spazi di dibattito, dal vivo ed online, si era andata radicalizzando una polarizzazione tra ottimisti (“Milano è la città più bella d’Italia”) ed estrattivisti (“Milano è solo per i ricchi, ci spolpa e poi ci butta”).

    Innanzitutto, una monodimensionalità della rappresentazione della città – un po’ cool, un po’ hypster e un po’ “fighetta” – nella quale ampi settori della popolazione facevano fatica a riconoscersi, con il rischio di generare grande risentimento sociale, sopra e sotto il pelo dell’acqua. In secondo luogo, un eccesso di soluzionismo, che tendeva a considerare la complessità come una serie di problemi da risolvere in termini di efficacia ed efficienza, ignorando sfumature, contraddizioni, inerzie.

    Su un piano culturale, queste semplificazioni hanno avuto come conseguenza una scarsa considerazione nei confronti della contraddizione e della molteplicità, elementi costitutivi di quell’esperienza urbana che rende una metropoli l’opposto di un sobborgo. Su un piano politico, hanno implicato la marginalizzazione delle forme di critica e alterità più radicali.

    La pandemia ha rallentato l’emersione di queste criticità. Chi ha potuto permetterselo ha vissuto un anno tra parentesi, mentre gli altri hanno cercato di tamponare come potevano, dando fondo ai risparmi (se c’erano), tornando a vivere dai genitori o in seconde case di famiglia. Molti si sono inabissati sotto la soglia di povertà.

    Mentre il Coronavirus allenterà la presa, avremo ancora più bisogno delle forme d’innovazione che hanno nutrito Milano negli ultimi 10 anni. O meglio, avremo bisogno di loro se saranno in grado di mettere in luce quegli aspetti radicalmente politici che troppo spesso sono rimasti in secondo piano. Questo vuol dire portare le questioni abitative, ambientali e della salute come bene comune al centro dei discorsi e dell’intervento pubblico. Vuol dire mutualismo di base e reti di solidarietà brevi e lunghe. Vuoi dire cultura di qualità diffusa sui territori e non accentrata in poche istituzioni di prestigio. Vuol dire investimenti sulla formazione a tutti i livelli come leva per la cittadinanza e democrazia culturale. Vuol dire superamento della logica esclusiva del progetto a favore di quella di sistema. Vuol dire aumento della differenziazione sociale in tutti settori chiave della vita urbana. Vuol dire granularità del lavoro e dell’esperienza urbana su tutti i territori.

    Vuol dire – speriamo – lasciarsi indietro la parola “innovazione”, che ormai è stata usata talmente tanto da essere consumata.

     

    Immagine di copertina di Candice Seplow su Unsplash

    Note