L’analisi logica delle periferie

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    “Partire dalle periferie” è una locuzione che compare sui quotidiani con accresciuta frequenza negli ultimi tempi. Bisogna partire dalle periferie, se si vuole essere un buon candidato sindaco; occorre metterle al centro (mossa che, a dirla tutta, ne implicherebbe la distruzione), se si vuole agire da politico responsabile; non lasciarle da sole è comportamento da buon cristiano (ma pure qualche agnostico razionalista potrebbe essere tentato da un richiamo così condivisibile).
    Ciò avviene – sospetto – perché non si sa bene di cosa si sta parlando. O meglio: si usa una parola che ha un forte valore allusivo, per ammiccare ad una certa classe di problemi. Basta pronunciarla e ci siamo capiti. Su cosa esattamente, non val la pena chiedere. Suvvia, è chiaro: la periferia è sede, rappresentazione simbolica e culla dei mali della città: degrado, marginalità, esclusione, insicurezza, nuove povertà. Manco a dirlo, perfino il nuovo terrore sembra avervi trovato terreno fertile.

    A Milano, le cronache locali riportano che diversi candidati alla carico di sindaco affermano di voler partire dalle periferie. L’arcivescovo invita a fare lo stesso. All’Abbazia di Viboldone (San Giuliano Milanese), un seminario tenutosi ai primi di gennaio ci invita a riflettere sulle periferie nel pensiero del papa: ha come titolo “Ripartire dalle periferie”. Qualche giorno dopo, il Corriere della Sera titola: “Berlusconi, riparto dalle periferie”.

    A questo punto, ho pensato che la misura fosse colma e che occorra cambiare il complemento. Quello di provenienza non funziona, perché apre ad una domanda cui il discorso pubblico non sa rispondere: cosa dovrebbe originarsi dalle periferie? L’azione politica, la testimonianza di fede, l’agenda di governo, perfino la rilegittimazione di un vecchio politico salito – come dicono i giornalisti – sul predellino una prima volta a San Babila e risalitovi una seconda a Baggio?

    Tiro ad indovinare: penso si intenda dire che la questione delle periferie va posta come una cruciale sfida di policy, che orienta le strategie del governo locale. Ma se così è, quale è la questione delle periferie? Con tutta evidenza, non c’è una sola questione. Ci sono molte, diverse, questioni di policy che le periferie pongono, che vanno però conosciute e definite. Se si presume di sapere quale sia la questione delle periferie, si commette un errore di presunzione o di superficialità. La questione viene infatti evocata, più che definita. Quando il problem setting è spiccio, sospetto che serva a confezionare uno stigma su cui appoggiare la soluzione, che in genere consiste nella progettazione di opere edilizie che dovrebbero risolverlo È chiaro: non è del problema che dobbiamo occuparci, ma della soluzione. Parafrasando un penetrante saggio di Paolo Fareri sul Passante di Milano, verrebbe da dire che “se le periferie sono la soluzione, quale è il problema?”.

    Altra possibilità: la sbrigativa definizione del problema è funzionale a identificare un luogo che è bene trascendere. Nominare le periferie vuol dire spostarsi altrove. Il complemento di origine nasconda in realtà il complemento di moto da luogo, che indica l’opportunità del distacco, denotando la mossa di colui che si lascia alle spalle un posto che va abbandonato. D’altro canto, viene da chiedersi: ma i molti che dichiarano di voler partire dalle periferie, quante volte ci saranno andati? E se hanno avuto l’ardire di farlo, non è che vi hanno fatto tappa per il tempo breve dell’evento cui hanno dovuto attendere, provando piuttosto l’istinto di ripartire dalle periferie, come novelli Sherman McCoy inopinatamente finiti nel Bronx?

    A volte, qualcuno si spinge a dire che le periferie possono anche essere una risorsa, un patrimonio cui attingere. Anche quando conoscono la metamorfosi da problema a risorsa però, l’analisi è debole, di maniera, spesso fondata sulla “illusione biografica” delle storie di vita denunciata da Pierre Bourdieu, secondo un approccio etnografico d’accatto che evita indagini più dispendiose. Il caso estremo si dà quando la storia di vita diventa la propria storia di vita: Renzo Piano argomenta che le periferie sono belle, su di loro occorre chinarsi con empatia, per rammendarle con cura. Esse muovono a compassione; lui può dirlo, perché ci è nato.

    La mia proposta è cambiare complemento. Ne propongo tre. Sono tutti di luogo; di rado mi è capitato di sentirli associati al termine “periferie”.

    Sostengo innanzitutto che occorra arrivare alle periferie, spingersi fin là. Il mio invito non è tanto a lasciare i “salotti” (che, a ben vedere, sono il topos simmetrico a “periferie” confezionato dal cattivo giornalismo), i quali è bene continuino a svolgere la funzione di ospitare chi ha la ventura di ritrovarcisi assiso. Il mio è piuttosto un invito a muovere l’attenzione verso posti poco conosciuti, sia in senso letterale, che figurato.

    Mi piacerebbe si arrivasse a concettualizzare diversamente le periferie. Desidererei che giungessimo ad elaborare analisi meno corrive; che si facesse più lavoro di campo, consapevoli che il ricorso a immagini stile Censis (tipo “terzo cerchio” e “città invisibile”) diminuisce la nostra capacità di comprensione, invece che accrescerla; che si nutrisse la curiosità verso ciò che non ha ancora parole definite per essere definito; che decidessimo di rallentare (è ancora Paolo Fareri a parlare), lasciandoci alle spalle il cicaleccio, le frasi fatte, i frame consunti, mossi da curiosità intellettuale e spinti perfino da qualche passione civile, con “il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo” (direbbe Giovanni Laino).

    Ma mi piacerebbe pure che ci si andasse davvero nelle periferie e che numerose fossero le iniziative capaci di attrarre l’attenzione verso questi spazi. Muovere le periferie vuol dire riconoscervi risorse, competenze, culture, lavorando per l’incrocio con risorse, competenze e culture altre. Implica provare a far corrispondere attori, opportunità, sistemi di interessi, che mai hanno avuto modo di connettersi. Sono strategie di brokerage quelle che permettono di arrivare alle periferie e (sperabilmente) di rimanervi. È questa la strategia del genuino place-based, capace di associare lo spirito dell’avanguardista, di chi va nei quartieri difficili e nelle aree fragili con l’idea di provocare shock positivi e recuperare biodiversità sopite o neglette, a quello di chi si fa prossimo, di chi si avvicina massimamente (prossimo è superlativo assoluto) fino a radicarsi, ma anche a quello di chi mantiene la giusta distanza, perché solo così si possono davvero vedere le differenze ed esercitare riflessività.

    Sostengo poi che occorra attraversare le periferie. È bene, nello stesso tempo, guardare dall’alto e, camminando, mantenere l’occhio attento. Occorre esprimere uno sguardo di sintesi e analizzare i dettagli. Bisogna praticare una indagine accurata, «percorrere il labirinto della città, quartiere per quartiere, strada per strada, vicolo per vicolo, casa per casa», come suggerisce lo straordinario Geddes-Ferraro.

    Sono, queste, operazioni sofisticate, proprie di un mapping urbano colto, in corso in diversi quartieri di Milano: è quello che il gruppo di ricerca del Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico, diretto da Francesca Cognetti, sta portando avanti a San Siro; sono gli interventi di antropologia urbana, ben poco glamour e tutta sostanza, che mette in campo Dynamoscopio al Giambellino; sono i piccoli progetti di un ateneo che si interroga sul da farsi in condizioni di disagio, come fa ancora il Politecnico attorno a via Catullo, avvicinando gli attori locali e sperimentando la terza missione dell’università.

    Infine, sostengo che bisogna stare nelle periferie. Il complemento che completa il ragionamento è quello dello stato in luogo. Standoci, si capiscono molte cose e molte altre se ne possono fare: accompagnare processi, promuovere networking, favorire capacitazione, sostenere innovazione sociale. A volte questa strategia prende la forma del laboratorio di quartiere (come a Ponte Lambro, sempre a Milano), a volte si danno modelli nuovi: imprese di comunità che operano sui terreni del lavoro e della coesione sociale. Nascono community hub, che sono spazi ibridi, di servizio e di produzione, di informazione e co-creazione, per la creatività e la coesione sociale.

    A volte sono promossi dall’ente locale: ci sta provando il Comune di Milano, nell’ambito del progetto Welfare di tutti, con la piattaforma di comunità in Zona 5. In altre occasioni, sono associazioni, cooperative, imprese sociali che, avvicinandosi alle periferie vi si stabiliscono e sviluppano nuovi modelli di business. È il caso del Laboratorio di Barriera di via Baltea, a Torino, promosso e gestito dalla cooperativa Su Misura: una ex tipografia di 900 mq è divenuta uno spazio multifunzionale con laboratori artigianali, un’attività di ristorazione e servizi per il quartiere, co-working, che vuole favorire l’integrazione tra attività commerciali, produttive e servizi per la socialità, generare inclusione e lavoro. Per seguire questi “segnali di futuro” però, dimentichiamoci di partire dalle periferie e proviamo a rimanerci un po’.

    Note